Repubblica 15.9.16
L’immagine e la vergogna
di Marco Belpoliti
MORIRE
di vergogna? Tiziana si è impiccata con un foulard, oggetto femminile,
delicato, perché provava vergogna. Si è uccisa perché la vergogna è
un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale, come ripetono gli
psicologi; la si prova davanti a un pubblico, più o meno immaginario,
che ci guarda, ci giudica, ci disapprova. Il web è la più grande platea
esistente, a tutte le ore del giorno tutti i giorni: 24/7. La vergogna
scava inesorabilmente dentro di noi; interiorizzazione, riprovazione,
umiliazione sono tre conseguenze immediate.
Quando ci si vergogna
si oscilla tra due poli opposti: aggressività verso gli altri, rabbia,
voglia di distruggere l’altro, e poi aggressività verso se stessi,
desiderio di autodistruzione. La mano di Tiziana si è rivolta contro di
sé: il suicidio. La prima conseguenza di questa emozione-sentimento, ben
più terribile del senso di colpa, è la perdita della stima di sé: la
propria immagine è in gioco davanti agli altri. La vergogna è
strettamente legata all’immagine. Tutto si gioca a questo livello. Oggi
noi siamo immagini: diffondiamo immagini, viviamo d’immagini,
idolatriamo le immagini. La difesa della propria immagine si chiama
reputazione; ovviamente la si conquista a colpi d’immagine, nel web
prima di tutto, nei social network.
Uno psicologo, Luigi Anolli,
ha scritto che la definizione principale della vergogna, quella da cui
occorre partire per capire se e come funziona oggi, se c’è, o invece è
scomparsa, riguarda proprio l’immagine di sé. Nella vergogna si
sperimenta il negativo di se stessi e della propria immagine, ha scritto
Anolli. Ci si sente trasparenti: ci si vede come se gli altri ci
vedessero. Questo è proprio quello che ci chiedono i social network:
farci vedere, vedere, e vedere come gli altri ci vedono.
Il
suicidio di Tiziana evidenzia una contraddizione che riguarda oggi la
definizione della vergogna. Ci sono due tipi di vergogna: la “vergogna
di superficie”, come la chiamano gli psicologi, e la “vergogna morale”.
Nella prima ci si vergogna se gli altri non ci guardano, se la nostra
immagine non appare, non c’è. Molto del fascino di Facebook si fonda su
questa forma di comparsa. La vergogna di essere nessuno è la vergogna di
non essere visti, di non avere amici su Facebook, di non ricevere like.
Il successo è nell’immagine.
La “vergogna di superficie” è
strettamente collegata all’etica del successo, ma apre la strada a
un’altra vergogna. Questo accade quando quello che si è detto, o fatto,
diventa oggetto di riprovazione, quando gli altri mobilitano verso di
noi la “vergogna morale”. La vergogna allora diventa contagiosa: ci si
vergogna di vergognarsi. Si tratta di quella che gli psicologi chiamano
“la vergogna da svelamento” o “da smascheramento”.
Viviamo in una
società che rende incerta l’identità degli individui; la vita in
immagine ci sottopone inevitabilmente a continue umiliazioni, a
fallimenti più o meno provvisori sotto gli occhi degli altri, cui non
siamo preparati. Sono le malattie dell’insufficienza che provocano ansia
e angoscia. Da una società fondata sull’obbedienza e sulla disciplina,
siamo passati a una società che accentua l’indipendenza, prima di tutto
dalle convenzioni morali. Viviamo nel regno del tutto- è-possibile.
Anche se sappiamo che non è così. Per quanto non più scritte su tavole
di bronzo, esistono tuttavia regole morali, interdetti, divieti;
esistono, anche se si dice che non esistono più.
Tutto avviene
nell’oscillazione tra “vergogna di superficie” e “vergogna morale”. La
prima vergogna non costituisce un freno al trionfo dell’esibizionismo,
al voyerismo; semmai è il contrario: se non lo fai, se non coltivi la
tua immagine trasgressiva, se non sei all’altezza di quello che ti viene
chiesto, allora ti vergogni. Il culmine di questa “vergogna di
superficie” è stata la casa di vetro del Grande Fratello. Tuttavia
insieme a quella che appare come l’idealizzazione del banale e
dell’insignificante, c’è l’altra vergogna, per cui diventa intollerabile
lo sguardo degli altri.
Niente è così distruttivo come il senso
di vergogna. Non può essere placato, non può essere sospeso. Il tormento
è continuo. Il senso di colpa si può espiare, la vergogna mai. La si
allevia solo con la morte, nella forma della autosoppressione. Forse
proprio per questo, e in modo in apparenza contraddittorio, la vergogna è
il sentimento più umano che esista. Probabilmente entrambe le vergogne
sono umane. Un filosofo ha scritto che la vergogna si presenta come “la
pura, vuota forma del più intimo sentimento dell’io”. A suo modo è
l’unica innocenza possibile, o almeno uno dei modi per ritrovarla. Alla
fine del Processo, quando Joseph K. viene ucciso dai due scherani nella
cava dove l’hanno condotto, Kafka ha scritto: “gli parve che la vergogna
dovesse sopravvivergli”. La vergogna morale è “l’indice di una
inaudita, spaventosa prossimità dell’uomo con se stesso” (Agamben). Nel
gesto estremo di Tiziana c’è tutto questo.