giovedì 15 settembre 2016

Corriere 15.9.16
I video, il sesso, la violenza. Due storie che spaventano
di Aldo Cazzullo

Cosa resta dell’educazione sentimentale, ai tempi feroci dei social network? Come possiamo capovolgere le regole di questo gioco perverso, in cui i carnefici vincono sempre e continuano a ridere maligni e impuniti, mentre le vittime si ritrovano senza identità e senza difesa? Sono due storie molto diverse, quella di Rimini e quella di Napoli. Ma qualcosa le lega. E ci chiama tutti in causa.
A Rimini è stato commesso un reato contro una minorenne, che la diffusione delle immagini ha reso ancora più odioso. A Napoli una donna di trentuno anni ha creduto di poter giocare un gioco che l’ha travolta. Entrambe le tragedie confermano che la violazione dell’intimità personale è ormai fuori controllo. La mancanza di un codice dell’amore e del sesso è assoluta. E la combinazione di narcisismo e voyerismo genera una spirale persecutoria cui è molto difficile sottrarsi.
Tiziana Cantone aveva provato a cambiare città; ma la sua città le è venuta dietro, come nella terribile poesia di Kavafis, poiché «sciupando la tua vita in questo angolo l’hai sciupata su tutta la terra». Aveva anche provato a cambiare nome. C’è un elemento comune a tutte le testimonianze delle vittime del bullismo elettronico: è inutile iscriversi a un’altra scuola, trasferirsi in un altro luogo; dopo pochi giorni le immagini arrivano, la fama si diffonde, la persecuzione ricomincia. È una realtà parallela di cui i media tradizionali non si accorgono; ma in questi mesi in cui ci si occupava della guerra in Siria, del terrorismo in Europa, delle Olimpiadi di Rio, del terremoto di Amatrice, cresceva un mondo sotterraneo eppure visibilissimo in cui Tiziana Cantone diventava contro la propria volontà una star e una vittima, alimentando gruppi, chat, video, financo un mercato di t-shirt. Fino a quando due donne — non a caso —, un’avvocata e una magistrata, sono riuscite ad arrivare a una sentenza che però non ha fatto in tempo a dispiegare i suoi effetti, non è riuscita a garantire davvero il diritto all’oblio, non ha salvato la vita di Tiziana Cantone. L’ha tradita un suo errore, amplificato dalla pretesa maschile di rivendicare il potere sulla sua anima e sul suo corpo, e prolungato all’infinito da una curiosità banale e malevola.
«I colpevoli siamo tutti noi» scrivono ora alcuni tra i carnefici. Torna in mente la testimonianza resa al «Tempo delle donne» dal padre di Carolina Picchio, la ragazzina che si è gettata dalla finestra dopo che la violenza subita a una festa era divenuta un video virale, lanciando un grido di accusa: «Sei stato tu, e tu, e tu». L’unica soluzione, ha detto il papà di Carolina, sarebbe che i colpevoli andassero nelle scuole, a raccontare quello che hanno fatto, a spiegare ai coetanei perché non si dovrebbe e non si potrebbe fare, mai più.
Per questo lascia annichiliti la notizia che, proprio nei giorni del suicidio di Tiziana Cantone, un altro video è stato usato per dileggiare una ragazza ancora più giovane. Stavolta non è la vendetta di un ex fidanzato, o la vanteria di un seduttore; è la leggerezza delle «amiche», che anziché soccorrere o chiedere aiuto per la compagna in difficoltà — trascinata quasi incosciente nel bagno della discoteca da un ventiduenne albanese — si ingegnano per filmare la scena e recapitargliela il giorno dopo via WhatsApp.
C’è una generazione all’evidenza impreparata alla vita, all’amore, al sesso, ed esposta alle sirene di una rivoluzione tecnologica in sé asetticamente innocente, che rappresenta certo — come ci ripetiamo di continuo, come per tranquillizzarci — una grande chance, ma che abbiamo elevato a divinità contemporanea senza renderci conto della facilità con cui ci può divorare e distruggere. Il diritto all’oblio è stato sancito dai codici, ma è difficile da far rispettare: chi finisce schiacciato dalla macchina dei social fatica terribilmente a rialzarsi. Facebook, del resto, è nato per far del male alle persone, in particolare per vendicarsi di giovani donne, come racconta lo stesso film — «Social network» — sulla vita di Mark Zuckerberg, il cui recente viaggio in Italia è stato seguito come se fosse la visita di un Pontefice. E l’avvento della diretta non può che moltiplicare i rischi, le violazioni della privacy, i motivi di persecuzione.
Questi padroni delle anime, che hanno sostituito i padroni delle ferriere in cima alle classifiche degli uomini più ricchi al mondo ma al contrario dei predecessori godono di ottima stampa (anche se come dimostra il caso Apple pagano malvolentieri le tasse), stanno accumulando una grande responsabilità. Certo, quel che è accaduto a Napoli e a Rimini non è colpa loro; è colpa nostra, della nostra incapacità di educare i ragazzi, della nostra permeabilità al narcisismo e alla malevolenza di massa. Ma una collaborazione più stretta tra gli inventori dei social, la magistratura e la Polizia postale è solo il primo passo sulla via che porta a riappropriarci di noi stessi, dei nostri amori, delle nostre vite. In caso contrario, il tempo favoloso della rivoluzione digitale sarà ricordato come il tempo peggiore.