Repubblica 14.9.16
L’autunno dello scontento
Il premier Renzi ha davanti due sfide incrociate: la legge di stabilità e il referendum Può vincere o perdere tutto
di Massimo Giannini
L’ITALIA
non cresce e quindi tutte le previsioni economiche saranno riviste al
ribasso. Non è solo la resa dolorosa di un governo che cede troppo tardi
al principio di realtà. È anche una scossa emergenziale.
PUÒ spingere Renzi a trasformare la prossima manovra in un altro bancomat elettorale, in vista del voto di dicembre.
Dunque,
un maleficio potenziale. Ma non c’è da stupirsi. È il minimo che possa
accadere, quando il capo di un governo trasforma la normale
consultazione popolare su una riforma della Costituzione nell’alfa e
l’omega di una democrazia. Nell’appuntamento con la Storia per un’Italia
che, attraversandolo, può risorgere o perire. E quando tutti gli altri,
nel discorso pubblico interno e ora persino internazionale, gli vanno
dietro su questa pericolosissima china, per troppo odio o per troppo
amore.
Nell’autunno del nostro scontento, Renzi ha di fronte due
sfide cruciali e incrociate. La legge di stabilità e il referendum sulla
riforma costituzionale. Se si gioca bene la prima, può vincere il
secondo. In caso contrario, perde tutto. Nella prima parte dell’anno il
premier ha sbagliato strategia e prospettiva. Ha puntato l’intera posta
sul referendum. Trasformandolo (di fronte al Palazzo, al Paese e al
Pianeta) in un’ordalia su se stesso. Se vince il sì, le verdi vallate
svizzere: stabilità e progresso. Se vince il no, le sette piaghe
d’Egitto: ingovernabilità e miseria. Un errore politico che produce solo
guai. Lo ha capito, e da un paio di settimane sta faticosamente
cercando di “spersonalizzare” il voto. Non è scontato che l’operazione
riesca (perché è partita tardi, perché la riforma è obiettivamente
pasticciata e perché il fronte del no ormai coagula, oltre a un profondo
disagio sociale, un diffuso dissenso politico).
Ma dal suo punto
di vista un “buon uso” della manovra economica, così come la sponda
delle cancellerie straniere e dell’establishment internazionale, può
senz’altro agevolare il compito. Ecco perché, nello spazio di pochi
giorni, l’agenda è radicalmente cambiata. Renzi fa slittare la data del
referendum a dicembre. Riapre addirittura un confronto sull’Italicum (si
vedrà poi se reale o strumentale), prima ancora che si pronunci la
Consulta all’inizio di ottobre. Così “compra” tempo. Il tempo che serve —
e qui siamo al punto che più ci sta a cuore — a varare una Legge di
stabilità finalmente “espansiva”. Cosa significa “espansiva”? E quante
probabilità ha di passare al vaglio di Bruxelles?
Gli indizi non
fanno una prova, ma non confortano. Siamo in guerra con la perfida
Merkel (dopo aver celebrato a Ventotene un patto di ferro con la
Cancelliera evidentemente fittizio) e per ora Bruxelles non ci offre
sponde sulla nuova flessibilità di bilancio. E poi, se è vero che la
gente non mangia pane e referendum, un solido e credibile “piano
organico per la crescita” conta molto di più del mitico (o fantasmatico)
“Senato dei 100”. Ma oggi di questo piano non si vede ancora traccia.
Nei
25-30 miliardi di cui si parla sembra di cogliere lo stesso vizio delle
manovre renziane già collaudate. Un’altra pioggia di “bonus”. Generosi,
perché la platea dei beneficiari è vasta: pensionati e impiegati
pubblici, partite iva, piccoli imprenditori e persino albergatori.
Dispendiosi, perché la somma degli interventi ha alti costi (attuali)
soprattutto in rapporto ai benefici (eventuali). Dal 2014 il governo ha
speso oltre 30 miliardi, tra i famosi 80 euro, l’abolizione dell’Imu
sulla prima casa e il Jobs act più la decontribuzione per i neo-assunti.
Eppure, i consumi sono aumentati meno della metà del previsto, i valori
degli immobili sono in continua flessione e i nuovi contratti di lavoro
a tempo indeterminato (nonostante la grancassa governativa sull’aumento
totale dello stock di occupati) sono scesi del 29,4%. Se poi
aggiungiamo il bonus bebè, il primo bonus Poletti sulle pensioni, il
bonus per famiglie numerose, il bonus mobili per le coppie sotto i 35
anni, il bonus Stradivari per l’acquisto di strumenti musicali e il
bonus cultura per i 18enni, il quadro è completo.
Questo errore
non andrebbe ripetuto. Servirebbe una scelta netta, non le solite
mancette. Tutti i “tesoretti” spendibili, per esempio, potrebbero essere
concentrati sull’unica voce che coniuga i bisogni delle famiglie e
quelli delle imprese: un abbattimento del 30-50 per cento del cuneo
fiscale, come ha scritto Eugenio Scalfari domenica scorsa. Ma Renzi non
sembra orientato a questo cambio di prospettiva. Non aggredisce il tema
della riforma fiscale, mentre è costretto a rinviare al 2018 la
riduzione Irpef (di cui invece aveva annunciato l’anticipo per il 2017).
Non riesce a violare il tabù dell’evasione fiscale, mentre è costretto a
riproporre la “voluntary disclosure” (che crea solo gettito “una
tantum”, non è un condono ma certo non rafforza una seria lotta ai
furbetti delle tasse). L’orizzonte, ancora una volta, non sembrano le
prossime generazioni, ma le prossime elezioni.
L’intervento sulle
previdenza e sul pubblico impiego ha esattamente questo “segno”. Sarebbe
utile, anche qui, una “riforma della riforma” Fornero. Invece arriva
l’Ape, che non risolve il problema dell’anticipo pensionistico per
disoccupati, usurati o precoci (se non per i pochi che possono
permettersi di ripagare il prestito con 50-60 euro al mese per
vent’anni). Ma insieme alla quattordicesima per chi ha un assegno
inferiore ai 1.000 euro, mette comunque un po’ di spiccioli nelle tasche
di un certo numero di pensionati. L’obiettivo è chiarissimo: Renzi
guarda a quel blocco sociale che dopo le troppe delusioni ha cominciato
ad allontanarsi dal centrosinistra, soprattutto alle ultime
amministrative. Se il premier riesce a riportare questo pezzo di società
italiana alle urne del referendum di dicembre, la vittoria del sì
diventa possibile.
Ecco perché è fondamentale capire cosa
significhi manovra “espansiva”. Se vuol dire “elettorale”, Renzi può
anche vincere la sua guerra contro Grillo e contro la minoranza del suo
partito (e nonostante gli abbracci soffocanti di Washington). Ma il
Paese rischia di perdere l’ultima occasione per provare ad uscire da
questa crisi. Renzi non è Pinochet, come da solenne sciocchezza
dell’irresponsabile Di Maio. Ma non può e non deve fare come Peron.