Corriere 14.9.16
Per il governo ora diventa più difficile svelenire il clima
di Massimo Franco
L’impressione
è che le parole sul referendum istituzionale pronunciate ieri
dall’ambasciatore Usa, John Phillips, possano avere un effetto opposto a
quello desiderato. Schierarsi a favore del «Sì» e del governo,
sostenendo che «se vince il No sarebbe un passo indietro per gli
investimenti stranieri in Italia», è stato subito percepito come
un’ingerenza: anche se somiglia più a un errore, commesso dando voce a
umori reali diffusi all’estero. Ha seminato perplessità anche il
giudizio sulla storia italiana. La tesi secondo la quale «63 governi in
63 anni non danno garanzie» sminuisce la lunga alleanza tra Italia e Usa
per arginare il comunismo e i rigurgiti di fascismo.
Si
attribuisce alla stabilità un valore che certamente ha. Ma rischia di
avvalorare senza volerlo le tesi catastrofiste sugli effetti del
referendum, evocando una crisi di governo. L’immediatezza con la quale
le opposizioni si sono sollevate contro Phillips non deve sorprendere.
Nelle reazioni sdegnate a quella che definiscono «grave e indebita
ingerenza» si intravede tuttavia un calcolo: sfruttare la presa di
posizione, a poche settimane dalla visita di Matteo Renzi a Washington
del 18 ottobre, come arma nella campagna referendaria; e come conferma
di un «Sì» che sarebbe sponsorizzato dai «poteri forti».
Per
questo l’uscita può rivelarsi un boomerang. Il M5S vela le sue
convulsioni interne cavalcando il caso. Ricorda «i vertici della banca
d’affari Jp Morgan, Confindustria, Coldiretti, Marchionne... e ora John
Phillips tra coloro che vogliono mortificare la nostra Costituzione». La
Lega arriva a chiedere con Roberto Calderoli un intervento del capo
dello Stato, Sergio Mattarella. Insomma, se Palazzo Chigi voleva
svelenire il percorso verso il referendum, sarà più difficile. Non
significa che non ci sia inquietudine a livello internazionale: Phillips
dà voce a un umore diffuso.
Ma c’è da chiedersi se avere
alimentato per mesi una narrativa secondo la quale una vittoria del «No»
sarebbe una sciagura per l’Italia, sia stata una buona idea da parte di
Palazzo Chigi. «Un referendum è un referendum. In qualsiasi modo finirà
non succederà nulla. Punto», minimizza Pier Luigi Bersani, ex
segretario del Pd e fautore del «No». È chiaro che gli avversari di
Renzi hanno interesse a sostenere una tesi opposta a quella del premier.
Almeno finora, la politicizzazione non ha dato vantaggi al governo: al
punto che Palazzo Chigi ha scelto un profilo più basso.
Il timore è
che anche in caso di un successo, molto probabile, del «Sì», il Paese
appaia in bilico: più di quanto non sia. Nascerebbe una Costituzione che
divide, al di là del contenuto controverso delle singole riforme. E
come elemento di ulteriore confusione c’è il sistema elettorale
dell’Italicum che incrocia l’appuntamento referendario; e che la
minoranza del Pd sta imponendo a Renzi come materia di scambio. «Dopo il
Brexit il Renzit», scrivono i giornali europei paragonando referendum
italiano e britannico. Ma equiparare le due cose è solo una forzatura
che piace a chi vuole un’Italia sotto sorveglianza.