Repubblica 10.9.16
Quanto ci fa paura l’atomica di Kim
di Vittorio Zucconi
CON
l’onda sismica di magnitudo 5.3 causata dall’esplosione sotterranea di
una bomba atomica da 10 kilotoni, il piccolo principe pazzo Kim Jong-un
ha commemorato il quindicesimo anniversario dell’11 settembre e aggiunto
un altro ingrediente micidiale alla miscela esplosiva dell’incertezza
globale.
Mattone dopo mattone, l’edificio che per mezzo secolo
aveva rinchiuso i continenti in stanze separate ma contigue e impedito
che terremoti locali divenissero tsunami apocalittici sta franando. Se
si alza lo sguardo dai problemi immediati e vicini e si osserva il
panorama che il mondo presenta tre lustri dopo quel settembre, si vedono
chiaramente le rovine di quello che le generazioni uscite dalla Seconda
Guerra Mondiale avevano costruito. Non sempre idealisticamente, ma
sempre con un obiettivo pragmatico e ossessivo: la stabilità.
Nuovi
attori, nuove forze, nuovi protagonisti hanno fatto irruzione nel campo
che due superpotenze opposte ma complementari come Usa e Urss avevano
controllato e dominato. Ciascuno nei propri emisferi o continenti,
giocando e scambiandosi pedine subalterne sugli scacchieri periferici in
Africa, in Asia, in America Latina e Centrale, “aquile” e “orsi” non
avevano mai sostanzialmente violato la legge della stabilità e del suo
fondamentale corollario: la prevedibilità delle azioni altrui.
Colui che provò a sgarrare, il Kruscev dei missili a Cuba, fu prontamente rimosso.
Quando
gli imperi si muovevano per riportare sotto il proprio tetto gli
indisciplinati inquilini, l’altro condomino guardava e non interveniva.
Washington non mosse dito per fermare l’invasione dei ”Paesi Fratelli”,
come Mosca di fronte al rovesciamento del compagno Allende o alle
ripetute disfatte degli alleati arabi nelle guerre con Israele, armato e
puntellato dal garante americano. Anche in Vietnam, il Cremlino si
limitò a dare agli Usa abbastanza corda per impiccarsi da soli.
Fu
nel Natale del 1979, dall’insensata e disastrosa invasione sovietica
dell’Afghanistan, che la scacchiera fissa del Grande Gioco cominciò a
essere ribaltata. Ne sprizzò l’acqua tossica dell’islamismo militare dei
mujaheddin finanziati e armati dalla Cia, divenuti poi il nucleo di Al
Qaeda e la centrale strategica dei due attacchi alle Torri Gemelle,
fallito un primo e mostruosamente riuscito il secondo.
Dunque,
l’orrore dell’11 settembre non segnò un “Cambio della Storia”, come si
disse di fronte all’enormità dell’offesa e alla scomposta, insensata
risposta dell’Amministrazione Bush. Segnalò che la Storia era cambiata. E
noi non avevamo voluto vederlo.
Quindici anni dopo, vediamo
benissimo un’Unione Europea che nel XXI secolo avrebbe dovuto
consolidare l’unificazione politica e finanziaria attorno al nucleo
dell’euro, stravolta dall’iniquità sociale crescente, spezzata da forze
centrifughe interne e scossa alla radice dalla immensa spallata delle
migrazioni di massa che producono il terrore dell’incertezza, del
quanti, e per quanto, siano le legioni macilente dei poveri della Terra
che accorrono. Nessuno sa davvero che cosa voglia e fino a dove voglia
spingersi il nuovo Zar di tutte le Russie tornato all’antica vocazione
della marcia verso l’Ovest, quel Putin che sta cercando una formula per
giustificare la propria rielezione nel 2018. Nazioni appena sfuggite ai
fili spinati del Socialismo Reale alzano tristemente e per disperazione
muri e fili spinati.
Si destabilizza l’America a sud della
frontiera Usa, nel Messico in balia dei narcos, nel Venezuela alla
deriva tragica della dittatura madurista sbriciolata da un’inflazione
del 700 per cento all’anno, in quel Brasile che fino a ieri sembrava,
con Russia, India e Cina, la sponda di quel sistema dei Paesi Bric, con
ambizioni di soppiantare Stati Uniti ed Europa. Sono emerse prepotenti
le economie di India e Cina, ma né l’India, ancora gigante economico e
nano politico, né la Cina, condannata alla crescita senza sosta e
tentata dalla sfida aeronavale alle flotte americane nei mari vicini,
offrono prospettive di certezze e di prevedibilità.
Su tutto, si
stende l’arco sinistro di una proliferazione nucleare fuori controllo
forse arginata in Iran, ma che ha nel Pakistan sempre sull’orlo del
fondamentalismo religioso e del doppiogiochismo una potenza già
realizzata. E nello stato penitenziario nordcoreano ha il jolly deciso a
sparigliare ogni tentativo di equilibrio e di razionalità, chiuso nella
propria paranoia.
Non si tratta più di distribuire attestati di
“buoni” e di “cattivi”, di “nostri” e di “loro”come nella vecchia
partita del bipolarismo globale, che è finito, esattamente come sta
finendo nelle democrazie occidentali il bipolarismo partitico. Non c’è
più, o è sempre più labile, quel muro ideale, un tempo reale, che ci
rendeva più sicuri stando “al di qua”, come disse Enrico Berliguer. Oggi
noi, e ancor di più i nostri figli, siamo al di qua come al di là dei
muri, a cavallo del tempo imbizzarrito, sentendoci profughi in casa
nostra, stranieri in patria, orfani di vecchie certezze e figli di nuove
paure.
In questo si annida il timore che in tanti suscita l’uomo
che potrebbe assumere la guida dell’ultima democrazia ancora bipolare,
gli Stati Uniti: Donald Trump. Non è il suo essere di destra, o
xenofobo, o bugiardo, o istrionico a spaventare. È il suo essere
imprevedibile e instabile in un mondo che ha disperatamene bisogno di
prevedibilità e di stabilità.