Repubblica 10.9.16
M5s, il mito di Rousseau e la realtà politica
di Piero Ignazi
LA
MITOLOGIA egualitaria dei grillini, esplicitata nell’omaggio a
Jean-Jacques Rousseau al quale è stata intitolata la piattaforma
digitale di collegamento tra iscritti ed eletti del M5S, sta
naufragando. Il filosofo francese, sostenitore di una consensuale e
libera volontà generale, è schiacciato tra Robespierre e Lenin, tra il
furore di un custode della purezza rivoluzionaria, e il rigore di un
arcigno supervisore del comportamento politico.
Come tutti i nuovi
movimenti anche i grillini hanno brandito la purezza e l’innocenza come
un’arma assoluta. Tutti i riformatori religiosi, dalle eresie medievali
in poi, sono stati arsi dal fuoco della redenzione dai peccati del
mondo.
I rivoluzionari francesi rappresentano il riferimento più
vicino a noi. Robespierre identificava la rivoluzione come l’avvento
della “ virtù” nella nazione. Per questo ogni nemico era, prima di
tutto, corrotto moralmente; e solo la riaffermazione continua della
virtù poteva salvare la rivoluzione. La mistica grillina dell’”onestà”,
attributo peraltro fondamentale in un paese intimamente prono al
non-rispetto delle norme come il nostro, risuona di quegli accenti. Il
richiamo a Rousseau, forse più evocativo che puntuale, rimanda sia al
mito del “buon selvaggio”, una condizione primigenia di verginità e
candore che può solo essere deturpata dalla cattiva società, sia alla
volontà generale, espressione di un corpo politico composto da liberi ed
uguali.
Ovviamente, i grillini non sono tutti uguali, e non ci
voleva molto a renderlo palese. Non solo: la linea di comando che si è
instaurata per volontà insindacabile del fondatore calpesta il principio
della rappresentanza posto a fondamento della democrazia liberale, e
cioè l’autonomia dell’eletto. Poiché il problema essenziale del M5S è
quello di evitare inquinamenti, gli eretici — i peccatori contro la
virtù dell’onestà — vanno allontanati senza tentennamenti. Robespierre
invocava che la nazione si ergesse alta come una montagna ed eruttasse
fuoco e fiamme per distruggere i suoi nemici. Non basta quindi invocare
l’eguaglianza insita nella formazione di una rousseauiana volontà
generale: per difenderla ci vuole il fuoco sacro di un Robespierre.
Avanti quindi con le ghigliottine simboliche delle espulsioni. La virtù
va sorvegliata e difesa giorno per giorno. Per questo gli eletti devono
essere sottoposti a un continuo screening ed eventualmente allontanati.
«La fonte dei nostri mali — scriveva il rivoluzionario giacobino
nell’agosto del 1793 — viene dall’indipendenza assoluta dei
rappresentanti, che non si consultano con la Nazione». Il potere di veto
che il M5S esercita sui propri eletti rimanda anche alla tradizione dei
partiti di massa di inizio Novecento quando i rappresentanti non erano
altro che messaggeri delle volontà del partito ed ad esso totalmente
subordinati.
Che oggi i sindaci grillini siano stati scelti
direttamente dai cittadini non muta in nulla l’impostazione
partitocentrica del M5S per cui l’eletto risponde non agli elettori
bensì al “partito”. Una vecchia storia che riaffiora anche nella più
nuova ed originale delle formazioni politiche, a dimostrazione che la
politica ha delle ferree regole a cui non si sfugge. Per questo il mito
della purezza e dell’uguaglianza evocata con il nome di Rousseau si
infrange contro la durezza della realtà politica impersonata, nel
passato, dall’alfiere più tragico della necessità assoluta di una virtù
della nazione, e dal più rigoroso teorico dell’asservimento degli eletti
al volere del partito.
Il paradosso è che il partito più nuovo e
moderno — anzi, post-moderno — dello schieramento partitico italiano
riscopre i sentieri percorsi, e per fortuna, abbandonati dalla politica e
dai partiti un secolo fa. Invece di proseguire lungo la strada di una
inedita, ed auspicabile, democrazia elettronica orizzontale, il M5S
batte le strade antiche del controllo dall’alto e dall’esterno sui
propri eletti. E il suo riferimento rousseauiano rimane stritolato tra
Robespierre e Lenin.