pagina99
17.9.16
ricerca
italiana
il
governo spegne i segnali di vita
di
Gabriele De Palma
Nel
novembre scorso sulla prestigiosa rivista Lancet è apparso un
articolo in cui venivano calcolati gli effetti della riforma per
l’abilitazione scientifica nazionale. Perché la produzione
scientifica è aumentata in Italia? era l’incoraggiante titolo
scelto dall’autore, Mauro Giovanni Carta, professore ordinario di
Tecnologie biomediche applicate all’Università di Cagliari. Lo
studio metteva in evidenza il salto di qualità della ricerca
italiana, capace di scalare la classifica Scimago, passando nel 2014
dal settimo al sesto posto in ambito medico, sopravanzando la
Francia. Secondo lo studio, l’aumento nella produzione scientifica
nazionale, e cioè il numero di pubblicazioni su autorevoli riviste
specializzate (si vedano i grafici in pagina), sarebbe effetto della
legge sull’abilitazione scientifica nazionale del 2011, in cui la
nomina di professori universitari –ordinari e associati – veniva
stabilita in base a tre parametri facilmente misurabili: il numero di
pubblicazioni su riviste specialistiche; il numero di citazioni che
queste pubblicazioni generavano; e l’indice Hirsch, che mette in
relazione le due precedenti voci. Chi poteva vantare un punteggio
superiore alla media dei punteggi dei professori già in
cattedra,diventava docente.Non docente di quella cattedra, ma
comunque otteneva l’abilitazione all’insegnamento, in attesa di
chiamata. Una legge che puntava a aumentare la trasparenza delle
nomine e la competitività del corpo insegnanti, riducendo il peso
della discrezionalità delle commissioni accademiche. Un meccanismo
che voleva essere uno sprone per migliorare il livello della
preparazione dei professori e quindi dell’insegnamento. A meno di
un anno di distanza le cose sono cambiate radicalmente. La legge c’è
ancora, immutata nel testo, ma «è stata resa vana dai successivi
regolamenti per i bandi di concorso», denuncia a pagina99 Mauro
Giovanni Carta. Vanificata la legge, vanificati anche gli effetti
sulla produzione scientifica nostrana. «Nei primi due anni
dall’entrata in vigore dei nuovi criteri, si è registrato un
sensibile aumento nel numero di pubblicazioni scientifiche da parte
dei ricercatori italiani»,prosegue Carta.«Il cambiamento è stato
più apprezzabile in campo biomedico, dove l’aumento di articoli
pubblicati su riviste con buonimpact factor (punteggio assegnato in
base al prestigio della rivista, ndr) è stato per due anni
consecutivi del 15 per cento, il più consistente di tutto il panorama
europeo; la Germania nello stesso periodo cresceva solo del 12 per
cento. Sarebbe stato interessante capire quanto la quantità
corrispondeva alla qualità della ricerca e delle pubblicazioni». Il
condizionale è dovuto al fatto che gli entusiasmi sono presto stati
smorzati dalla pubblicazione delle procedure di abilitazione
(114/2014, in vigore dal febbraio 2015) e dagli ultimi criteri
pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale a giugno e validi per la prossima
selezione. «La legge non è stata modificata, il testo è identico,
ma è stata resa inefficace», afferma Carta, «il nuovo bando
pubblicato in estate presenta parametri per essere ammessi
all’idoneità molto bassi, quindi inutili perché tutti i candidati
soddisfano quei requisiti». E di fatto ha restaurato il potere
discrezionale delle commissioni vanificando il senso della riforma di
cinque anni fa. «I criteri del 2011 probabilmente non erano perfetti
ed erano migliorabili, ad esempio aumentando il peso dell’attività
didattica, ma così facendo hanno annacquato tutto». La
ripercussione sul numero di pubblicazioni non si è fatta attendere:
nel 2015 la produzione di articoli scientifici provenienti da
ricercatori e professori residenti in Italia è diminuita rispetto
all’anno precedente, riassestandosi a quote precedenti la riforma.
Le misurazioni bibliografiche sono solo un sintomo della salute della
ricerca, ma è il sintomo in base a cui vengono giudicati tutti i
Paesi. E proprio nel contesto accademico internazionale l’Italia
paga lo scotto della scarsa trasparenza e di conseguenza dell’incerta
meritocrazia nella nomina dei docenti universitari. L’esempio più
sconfortante lo racconta proprio Carta parlando di esperienze vissute
da molti ricercatori italiani. «Spesso gli studenti che vanno a
perfezionarsi all’estero hanno borse di studio statali vincolate al
rientro in patria per condividere i progressi. In Italia non è
pensabile dal momento che non riuscirebbero a ritagliarsi uno spazio
occupato da chi ne sa meno di loro». L’alito di speranza che forse
la legge del 2011 aveva mosso tra i ricercatori universitari si è
presto smorzato, facendoli ricadere in un cupo pessimismo riguardo la
possibilità di fare carriera esclusivamente in base alle proprie
capacità riconosciute dalla comunità scientifica internazionale.
Cui prodest? Difficile capirlo: probabilmente, molto a breve termine,
ne trae vantaggio chi rischierebbe di perdere qualcosa
dall’innalzamento del livello dei docenti universitari. Ma a questa
categoria non sembrano appartenere altro che docenti e ricercatori
poco propensi a misurarsi in un contesto meritocratico.Più facile
individuare gli sconfitti a breve e lungo termine: tutti i
ricercatori capaci e gli studenti.