domenica 18 settembre 2016

pagina99 17.9.16
ricerca italiana
il governo spegne i segnali di vita
di Gabriele De Palma

Nel novembre scorso sulla prestigiosa rivista Lancet è apparso un articolo in cui venivano calcolati gli effetti della riforma per l’abilitazione scientifica nazionale. Perché la produzione scientifica è aumentata in Italia? era l’incoraggiante titolo scelto dall’autore, Mauro Giovanni Carta, professore ordinario di Tecnologie biomediche applicate all’Università di Cagliari. Lo studio metteva in evidenza il salto di qualità della ricerca italiana, capace di scalare la classifica Scimago, passando nel 2014 dal settimo al sesto posto in ambito medico, sopravanzando la Francia. Secondo lo studio, l’aumento nella produzione scientifica nazionale, e cioè il numero di pubblicazioni su autorevoli riviste specializzate (si vedano i grafici in pagina), sarebbe effetto della legge sull’abilitazione scientifica nazionale del 2011, in cui la nomina di professori universitari –ordinari e associati – veniva stabilita in base a tre parametri facilmente misurabili: il numero di pubblicazioni su riviste specialistiche; il numero di citazioni che queste pubblicazioni generavano; e l’indice Hirsch, che mette in relazione le due precedenti voci. Chi poteva vantare un punteggio superiore alla media dei punteggi dei professori già in cattedra,diventava docente.Non docente di quella cattedra, ma comunque otteneva l’abilitazione all’insegnamento, in attesa di chiamata. Una legge che puntava a aumentare la trasparenza delle nomine e la competitività del corpo insegnanti, riducendo il peso della discrezionalità delle commissioni accademiche. Un meccanismo che voleva essere uno sprone per migliorare il livello della preparazione dei professori e quindi dell’insegnamento. A meno di un anno di distanza le cose sono cambiate radicalmente. La legge c’è ancora, immutata nel testo, ma «è stata resa vana dai successivi regolamenti per i bandi di concorso», denuncia a pagina99 Mauro Giovanni Carta. Vanificata la legge, vanificati anche gli effetti sulla produzione scientifica nostrana. «Nei primi due anni dall’entrata in vigore dei nuovi criteri, si è registrato un sensibile aumento nel numero di pubblicazioni scientifiche da parte dei ricercatori italiani»,prosegue Carta.«Il cambiamento è stato più apprezzabile in campo biomedico, dove l’aumento di articoli pubblicati su riviste con buonimpact factor (punteggio assegnato in base al prestigio della rivista, ndr) è stato per due anni consecutivi del 15 per cento, il più consistente di tutto il panorama europeo; la Germania nello stesso periodo cresceva solo del 12 per cento. Sarebbe stato interessante capire quanto la quantità corrispondeva alla qualità della ricerca e delle pubblicazioni». Il condizionale è dovuto al fatto che gli entusiasmi sono presto stati smorzati dalla pubblicazione delle procedure di abilitazione (114/2014, in vigore dal febbraio 2015) e dagli ultimi criteri pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale a giugno e validi per la prossima selezione. «La legge non è stata modificata, il testo è identico, ma è stata resa inefficace», afferma Carta, «il nuovo bando pubblicato in estate presenta parametri per essere ammessi all’idoneità molto bassi, quindi inutili perché tutti i candidati soddisfano quei requisiti». E di fatto ha restaurato il potere discrezionale delle commissioni vanificando il senso della riforma di cinque anni fa. «I criteri del 2011 probabilmente non erano perfetti ed erano migliorabili, ad esempio aumentando il peso dell’attività didattica, ma così facendo hanno annacquato tutto». La ripercussione sul numero di pubblicazioni non si è fatta attendere: nel 2015 la produzione di articoli scientifici provenienti da ricercatori e professori residenti in Italia è diminuita rispetto all’anno precedente, riassestandosi a quote precedenti la riforma. Le misurazioni bibliografiche sono solo un sintomo della salute della ricerca, ma è il sintomo in base a cui vengono giudicati tutti i Paesi. E proprio nel contesto accademico internazionale l’Italia paga lo scotto della scarsa trasparenza e di conseguenza dell’incerta meritocrazia nella nomina dei docenti universitari. L’esempio più sconfortante lo racconta proprio Carta parlando di esperienze vissute da molti ricercatori italiani. «Spesso gli studenti che vanno a perfezionarsi all’estero hanno borse di studio statali vincolate al rientro in patria per condividere i progressi. In Italia non è pensabile dal momento che non riuscirebbero a ritagliarsi uno spazio occupato da chi ne sa meno di loro». L’alito di speranza che forse la legge del 2011 aveva mosso tra i ricercatori universitari si è presto smorzato, facendoli ricadere in un cupo pessimismo riguardo la possibilità di fare carriera esclusivamente in base alle proprie capacità riconosciute dalla comunità scientifica internazionale. Cui prodest? Difficile capirlo: probabilmente, molto a breve termine, ne trae vantaggio chi rischierebbe di perdere qualcosa dall’innalzamento del livello dei docenti universitari. Ma a questa categoria non sembrano appartenere altro che docenti e ricercatori poco propensi a misurarsi in un contesto meritocratico.Più facile individuare gli sconfitti a breve e lungo termine: tutti i ricercatori capaci e gli studenti.