martedì 27 settembre 2016

pagina 99 25.09.2016
perché questa università non aiuta l’economia
Ricerca | Norme antiquate e un finto egualitarismo hanno tagliato
fuori gli atenei di Stato dal mercato globale. I migliori studiosi
vanno altrove. Ma senza risorse di qualità, il Paese non cresce
di Enrico Pedemonte

L’ultima brutta notizia per l’università italiana arriva dallo
European Research Council (Erc), un organismo dell’Unione
europea che per statuto finanzia la ricerca d’eccellenza.
Come ogni anno, nei giorni scorsi l’Erc ha assegnato 325 grant
(borse di studio) ad altrettanti ricercatori, dopo avere selezionato
2.935 proposte.
A prima vista, scorrendo le nazionalità dei ricer catori vincenti,
l’Italia non sembra messa poi così male. Gli italiani sono 22, terzi
dopo Germania (49) e Francia (39). Ma scavando nelle statistiche
si scopre che solo otto dei 22 vincitori italiani useranno il denaro
europeo per fare ricerca in Italia. Quattordici di loro hanno
scelto un Paese diverso: la Germania (sei), l’Olanda (due), la
Francia (due), e poi Spagna, Belgio, Svizzera e Austria.
Continuando a scavare si scoprono altri dettagli interessanti.
Oltre agli otto italiani, ci sono anche due stranieri che hanno
optato per il nostro Paese. Quindi il numero dei grant che saranno
spesi in Italia sale a dieci.
Quanti lavoreranno presso università pubbliche? Solo quattro:
a Trento (due), a Pavia e a Padova.
Gli altri sei faranno ricerca per istituzioni –private o pubbliche
che si sono date regole diverse da quelle tradizionali degli
atenei statali: presso la fondazione Telethon e il San Raffaele
di Milano (due istituzioni private); l’Istituto Nazionale di Fisica
nucleare (Infn), noto per essere regolato da norme diverse da
quelle tipiche dell’accademia; l’European University Institute
di Firenze, creato quarant’anni fa con fondi europei, dove andrà
unodei due ricercatori stranieri; e l’Iit, l’Istituto Italiano di Tecnologia,
creato nel 2006, che ha vinto due contratti intestati a un
italiano e a uno straniero.
Dunque l’università italiana sta a guardare, specie quella del
centro sud che è completamente esclusa dalla distribuzione delle
borse europee. Si tratta di un caso se la parte del leone la fanno gli
enti gestiti in modo privatistico, i soli ad attrarre ricercatori stranieri
in Italia?
Facciamo un altro esempio, per spiegare meglio la drammatica
peculiarità del caso italiano nel mondo della ricerca.
Giacomo ha trentatré anni, vive da sei anni a Londra e sta concludendo
un dottorato in Economia presso la Ucl, University
College London, settima nel mondo secondo l’ultimo QS
University Ranking. Come molti dei suoi colleghi dottorandi (almeno
negli atenei di livello internazionale) Giacomo comincia a
darsi da fare per partecipare al Job Market, letteralmente mercato
del lavoro, un evento che si svolge ogni anno all’inizio di
gennaio in un grande albergo di una città degli Stati Uniti. L’an -
no prossimo (il 2017) il Job Market si svolgerà allo Hyatt Regency
Hotel di Chicago e, come in tutti i mercati, ci sarà chi vende e
chi compra. A comprare (talenti) saranno decine di prestigiose
università e centri di ricerca ansiosi di scovare giovani brillanti
a cui offrire un contratto di assunzione.
A vendere (se stessi e le proprie competenze), i dottorandi
stessi, anch’essi delle università migliori, che arrivano a
questo evento dopo mesi di contatti e dopo avere inviato una loro
ricerca alle istituzioni che potrebbero essere interessate.
Nel frattempo i loro docenti si stanno mobilitando per segnalare
gli allievi meritevoli ai colleghi di mezzo mondo. Tutto è previsto
con largo anticipo e si sa già che nel 2024 la kermesse si svolgerà
presso l’Hotel Marriott di San Antonio (Texas).
Dopo avere ascoltato questo racconto, nella testa di un cittadino
italiano, forse anche di molti professori universitari,
potrebbe sorgere spontanea una domanda: ma se questi studenti
sono così bravi, perché le università da cui provengono
non li assumono? Perché i professori che li hanno allevati non
fanno di tutto per tenerli al guinzaglio nei rispettivi atenei?
Qui sta il punto: non possono farlo. In molte università (serie,
verrebbe da dire) il giovane dottorato deve trovare la sua strada
altrove per evitare camarille e nepotismi, e arginare il fenomeno
dei portaborse.
Ancora Giacomo, interrogato sulle università contattate per
avere un appuntamento a Chicago, cita un lungo elenco di istituzioni
situate negli Stati Uniti e in mezza Europa, dalla Gran Bretagna
alla Germania, dalla Francia alla Spagna, dall’Olanda all’Austria,
dalla Svezia alla Norvegia. E l’Italia?
Giacomo scuote la testa, sorridendo mestamente. In Italia,
spiega, la possibilità di essere assunti con un meccanismo simile,
aperto al mercato internazionale, è praticamente nulla. In Italia
i professori assumono i propri allievi proteggendoli dai
concorrenti esterni grazie a concorsi ad personam. La meritocrazia
e il mercato internazionale sono astrazioni lontane,
come parlare di concorrenza con don Vito Corleone. E infatti
gli studiosi stranieri in Italia sono mosche bianche, mentre
sono la norma nelle migliori università del mondo avanzato.
Facendo una ricerca online, si scopre che le uniche istituzioni
italiane che parteciperanno al job market del gennaio 2017 per
coprire dei posti da ricercatore o da professore sono la Bocconi e
la John Hopkins University di Firenze. Due gocce d’acqua in un
mare di centinaia di istituzioni di tutto il mondo. Le università italiane
rinunciano a priori ad attingere al mercato internazionale
dei cervelli. In un mondo globalizzato, i nostri atenei hanno
chiuso la corsia d’ingresso alle frontiere; ovviamente non possono
chiudere quella d’uscita che è affollata da migliaia di giovani
che vanno all’estero a studiare e lavorare. Vedono schiere di ragazzi
eruditi che espatriano e nonostante ciò alzano steccati contro
chi potrebbe voler entrare.
Sarà anche per questa ragione se nell’ultima classifica delle
università del mondo pubblicata dall’università di Shanghai (una
delle più valutate dagli atenei e dall’industria) la prima italiana
(il Politecnico di Milano) compare tra la centesima e la centocinquantesima
posizione? A seguire troviamo Trieste e Torino
(tra 150 e 200), mentre La Sapienza di Roma, Bologna,
Genova, Napoli, Padova e Salerno sono tra 200 e 300.
Le ricerche degli ultimi decenni hanno accertato che l’in -
ternazionalizzione delle università e la loro capacità di attrarre
risorse umane sono condizioni indispensabili per lo
sviluppo economico delle regioni.
Tanto che nel 2005 la Germania ha lanciato Exzel -
lenz initiative, concentrando le risorse su alcune università
di eccellenza, nonostante una valanga di proteste, poi rientrate.
Nel 2011 l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy
annunciò la creazione di una Sorbonne league, un gruppo
di università di eccellenza affiliate al Cnrs (Centre National
de la Recherche Scientifique) per competere con la Ivy
League americana; l’iniziativa battezzata Idex –è stata confermata
da Francois Hollande, che l’ha rifinanziata con due miliardi
di euro nel 2014. La Russia ha lanciato un progetto chiamato
5-100” per portare almeno cinque università russe tra le prime
cento della classifica della Times Higher Education. Il Giappone
ha ideato il Super Global Universities Programme, per aumentare
i fondi alle tredici università migliori.
La Gran Bretagna ha ulteriormente aumentato i finanziamenti
alle università top, diminuendoli alle altre. Persino l’Arabia
Saudita ha investito venti miliardi di dollari per creare un
manipolo di strutture universitarie in grado di attrarre docenti
e studenti dal resto del mondo.
E la Cina ha un progetto chiamato 985”, lanciato nel 1998,
che promuove lo sviluppo delle università cinesi e dall’inizio degli
anni Duemila si è attestato anche come autorevole sistema
di valutazione internazionale degli atenei con la classifica stilata
dalla Jiaotong di Shanghai.
Così va il mondo, l’importanza cruciale delle risorse umane ha
indotto i Paesi più lungimiranti a investire mentre in Italia le regole
del reclutamento rendono impervie le strade per assumere candidati
stranieri anche alle università che vorrebbero farlo.
Qualcosa si sta muovendo. I politecnici di Milano e Torino,
per non parlare della Sissa di Trieste, hanno cominciato da
tempo una strategia di internazionalizzazione.
Che prima o poi darà risultati. Tornando all’Iit, a
cui è dedicato l’articolo che segue, l’Istituto è stato inserito in
un elenco dell’università di Oxford al 49esimo posto,decimo
tra i centri di ricerca europei.
Non a caso all’Iit il 40 per cento dei 900 ricercatori viene dall’estero.
Ci pare un buon modo di spendere i soldi pubblici perché
attrarre risorse umane di primo livello alla lunga fa crescere l’e c onomia,
crea posti di lavoro e benessere.
E questo dovrebbe essere l’obiettivo principale dell’università
nel terzo millennio.