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99 25.09.2016
perché
questa università non aiuta l’economia
Ricerca
| Norme antiquate e un finto egualitarismo hanno tagliato
fuori
gli atenei di Stato dal mercato globale. I migliori studiosi
vanno
altrove. Ma senza risorse di qualità, il Paese non cresce
di
Enrico Pedemonte
L’ultima
brutta notizia per l’università italiana
arriva dallo
European
Research Council (Erc),
un organismo dell’Unione
europea
che per statuto finanzia la
ricerca d’eccellenza.
Come
ogni anno, nei giorni scorsi l’Erc
ha assegnato 325 grant
(borse
di studio) ad altrettanti ricercatori,
dopo avere selezionato
2.935
proposte.
A
prima vista, scorrendo le nazionalità dei
ricer catori vincenti,
l’Italia non
sembra messa poi così male.
Gli italiani sono 22, terzi
dopo
Germania (49) e Francia (39).
Ma scavando nelle statistiche
si
scopre che solo otto dei 22 vincitori
italiani useranno il denaro
europeo
per fare ricerca in Italia.
Quattordici di loro hanno
scelto
un Paese diverso: la Germania (sei),
l’Olanda (due), la
Francia
(due), e poi Spagna, Belgio, Svizzera
e Austria.
Continuando
a scavare si scoprono altri
dettagli interessanti.
Oltre
agli otto italiani, ci sono anche
due stranieri che hanno
optato
per il nostro Paese. Quindi il
numero dei grant che saranno
spesi
in Italia sale a dieci.
Quanti
lavoreranno presso università pubbliche?
Solo quattro:
a
Trento (due), a Pavia e a Padova.
Gli
altri sei faranno ricerca per
istituzioni –private o pubbliche
–
che
si sono date regole diverse da
quelle tradizionali degli
atenei
statali: presso la fondazione Telethon
e il San Raffaele
di
Milano (due istituzioni private); l’Istituto
Nazionale di Fisica
nucleare
(Infn), noto per essere regolato
da norme diverse da
quelle
tipiche dell’accademia; l’European
University Institute
di
Firenze, creato quarant’anni fa
con fondi europei, dove andrà
unodei
due ricercatori stranieri; e
l’Iit, l’Istituto Italiano di Tecnologia,
creato
nel 2006, che ha vinto
due contratti intestati a un
italiano
e a uno straniero.
Dunque
l’università italiana sta
a guardare, specie quella del
centro
sud che è completamente esclusa
dalla distribuzione delle
borse
europee. Si tratta di un caso se
la parte del leone la fanno gli
enti
gestiti in modo privatistico, i soli
ad attrarre ricercatori stranieri
in
Italia?
Facciamo
un altro esempio, per
spiegare meglio la drammatica
peculiarità
del caso italiano nel
mondo della ricerca.
Giacomo
ha trentatré anni, vive da
sei anni a Londra e sta concludendo
un
dottorato in Economia presso
la Ucl, University
College
London, settima nel mondo
secondo l’ultimo QS
University
Ranking. Come molti dei
suoi colleghi dottorandi (almeno
negli
atenei di livello internazionale) Giacomo
comincia a
darsi
da fare per partecipare al Job
Market, letteralmente mercato
del
lavoro, un evento che si svolge
ogni anno all’inizio di
gennaio
in un grande albergo di una
città degli Stati Uniti. L’an -
no
prossimo (il 2017) il Job Market si
svolgerà allo Hyatt Regency
Hotel
di Chicago e, come in tutti
i mercati, ci sarà chi vende e
chi
compra. A comprare (talenti) saranno
decine di prestigiose
università
e centri di ricerca ansiosi di
scovare giovani brillanti
a
cui offrire un contratto di assunzione.
A
vendere (se stessi e le
proprie competenze), i dottorandi
stessi,
anch’essi delle università migliori,
che arrivano a
questo
evento dopo mesi di contatti e
dopo avere inviato una loro
ricerca
alle istituzioni che potrebbero essere
interessate.
Nel
frattempo i loro docenti si stanno
mobilitando per segnalare
gli
allievi meritevoli ai colleghi di
mezzo mondo. Tutto è previsto
con
largo anticipo e si sa già che
nel 2024 la kermesse si svolgerà
presso
l’Hotel Marriott di San
Antonio (Texas).
Dopo
avere ascoltato questo racconto,
nella testa di un cittadino
italiano,
forse anche di molti
professori universitari,
potrebbe
sorgere spontanea una domanda: ma
se questi studenti
sono
così bravi, perché le università
da cui provengono
non
li assumono? Perché i professori che
li hanno allevati non
fanno
di tutto per tenerli al guinzaglio
nei rispettivi atenei?
Qui
sta il punto: non possono farlo.
In molte università (serie,
verrebbe
da dire) il giovane dottorato deve
trovare la sua strada
altrove
per evitare camarille e nepotismi,
e arginare il fenomeno
dei
portaborse.
Ancora
Giacomo, interrogato sulle
università contattate per
avere
un appuntamento a Chicago, cita
un lungo elenco di istituzioni
situate
negli Stati Uniti e in mezza
Europa, dalla Gran Bretagna
alla
Germania, dalla Francia alla
Spagna, dall’Olanda all’Austria,
dalla
Svezia alla Norvegia. E
l’Italia?
Giacomo
scuote la testa, sorridendo mestamente.
In Italia,
spiega,
la possibilità di essere assunti con
un meccanismo simile,
aperto
al mercato internazionale, è
praticamente nulla. In Italia
i
professori assumono i propri allievi
proteggendoli dai
concorrenti
esterni grazie a concorsi ad
personam. La meritocrazia
e
il mercato internazionale sono
astrazioni lontane,
come
parlare di concorrenza con
don Vito Corleone. E infatti
gli
studiosi stranieri in Italia sono
mosche bianche, mentre
sono
la norma nelle migliori università
del mondo avanzato.
Facendo
una ricerca online, si scopre
che le uniche istituzioni
italiane
che parteciperanno al job
market del gennaio 2017 per
coprire
dei posti da ricercatore o da
professore sono la Bocconi e
la
John Hopkins University di Firenze.
Due gocce d’acqua in un
mare
di centinaia di istituzioni di tutto
il mondo. Le università italiane
rinunciano
a priori ad attingere al
mercato internazionale
dei
cervelli. In un mondo globalizzato, i
nostri atenei hanno
chiuso
la corsia d’ingresso alle frontiere;
ovviamente non possono
chiudere
quella d’uscita che è
affollata da migliaia di giovani
che
vanno all’estero a studiare e lavorare.
Vedono schiere di ragazzi
eruditi
che espatriano e nonostante ciò
alzano steccati contro
chi
potrebbe voler entrare.
Sarà
anche per questa ragione se
nell’ultima classifica delle
università del
mondo pubblicata dall’università
di Shanghai (una
delle
più valutate dagli atenei e dall’industria)
la prima italiana
(il
Politecnico di Milano) compare tra
la centesima e la centocinquantesima
posizione? A seguire
troviamo Trieste e Torino
(tra
150 e 200), mentre La Sapienza
di Roma, Bologna,
Genova,
Napoli, Padova e Salerno sono
tra 200 e 300.
Le
ricerche degli ultimi decenni hanno
accertato che l’in -
ternazionalizzione
delle università e
la loro capacità di attrarre
risorse
umane sono condizioni indispensabili
per lo
sviluppo
economico delle regioni.
Tanto
che nel 2005 la Germania
ha lanciato Exzel -
lenz initiative,
concentrando le
risorse su alcune università
di
eccellenza, nonostante una valanga
di proteste, poi rientrate.
Nel
2011 l’allora presidente francese
Nicolas Sarkozy
annunciò
la creazione di una
Sorbonne league, un gruppo
di
università di eccellenza affiliate
al Cnrs (Centre National
de
la Recherche Scientifique) per
competere con la Ivy
League
americana; l’iniziativa –battezzata
Idex –è stata confermata
da
Francois Hollande, che l’ha
rifinanziata con due miliardi
di
euro nel 2014. La Russia ha lanciato un
progetto chiamato
“5-100”
per portare almeno cinque università
russe tra le prime
cento
della classifica della Times Higher
Education. Il Giappone
ha
ideato il Super Global Universities Programme,
per aumentare
i
fondi alle tredici università migliori.
La
Gran Bretagna ha ulteriormente aumentato
i finanziamenti
alle
università top, diminuendoli alle
altre. Persino l’Arabia
Saudita
ha investito venti miliardi
di dollari per creare un
manipolo
di strutture universitarie in
grado di attrarre docenti
e
studenti dal resto del mondo.
E
la Cina ha un progetto chiamato “985”,
lanciato nel 1998,
che
promuove lo sviluppo delle università
cinesi e dall’inizio degli
anni
Duemila si è attestato anche
come autorevole sistema
di
valutazione internazionale degli
atenei con la classifica stilata
dalla
Jiaotong di Shanghai.
Così
va il mondo, l’importanza cruciale
delle risorse umane ha
indotto
i Paesi più lungimiranti a investire
mentre in Italia le regole
del
reclutamento rendono impervie le
strade per assumere candidati
stranieri
anche alle università che
vorrebbero farlo.
Qualcosa
si sta muovendo. I politecnici
di Milano e Torino,
per
non parlare della Sissa di Trieste,
hanno cominciato da
tempo
una strategia di internazionalizzazione.
Che
prima o poi darà
risultati. Tornando all’Iit, a
cui
è dedicato l’articolo che segue, l’Istituto
è stato inserito in
un
elenco dell’università di Oxford
al 49esimo posto,decimo
tra
i centri di ricerca europei.
Non
a caso all’Iit il 40 per cento dei
900 ricercatori viene dall’estero.
Ci
pare un buon modo di spendere
i soldi pubblici perché
attrarre
risorse umane di primo livello
alla lunga fa crescere l’e c onomia,
crea
posti di lavoro e benessere.
E
questo dovrebbe essere l’obiettivo
principale dell’università
nel
terzo millennio.