domenica 4 settembre 2016

MONDO

La Stampa 4.9.16
I conti in rosso del sistema
di Stefano Lepri


Quando stamani Renzi si siederà al tavolo del G20 in Cina, tutti gli altri leader attorno a lui sapranno che le banche italiane preoccupano l’intero pianeta. Così li ha informati il Fondo monetario internazionale nel documento preparatorio al vertice di oggi.
Siamo a questo punto per un intreccio di eventi che solo in piccola parte dipendono dall’attuale governo. Ma è bene che il nostro presidente del Consiglio non insista su questo aspetto, dato che spesso capita a chi guida un Paese di dover risolvere problemi preesistenti.
Gli stessi mali di cui soffrono le banche italiane non sono sconosciuti altrove. Nel nostro caso, oltre ad essere più gravi, vanno affrontati con la massima urgenza. Lo impone l’instabilità finanziaria non eliminata dall’economia mondiale, con la speculazione pronta a concentrarsi nei punti più vulnerabili. Però far presto sarà utile anche a tutti noi.
Il più recente tra i fattori di crisi sta, come notato negli ultimi giorni, nelle trasformazioni generate dall’informatica. Per gestire i depositi della clientela alle banche servono meno filiali e meno impiegati di prima. Basta dare un’occhiata, le rare volte che allo sportello ci capita di dover andare.
Anche negli altri Paesi questo accade; prima di tutti la Germania che ha nelle sue aziende di credito eccessi di personale analoghi. Solo l’Italia è pressata a intervenire subito a causa del groviglio di questioni irrisolte che si è formato.
Da mesi appunto vediamo quanto i conti delle nostre banche siano indeboliti dai prestiti che i loro debitori non sono in grado di ripagare («sofferenze» o «non performing loans»). Ne discutiamo per stabilire quanto si debba alla crisi economica e quanto a comportamenti errati dei nostri banchieri; sta di fatto che tutta la finanza mondiale lo sa e si comporta di conseguenza.
Per giunta i «Npl» italiani valgono meno degli altri a causa dell’inefficienza della nostra giustizia nell’assicurare il recupero dei crediti. E le nostre banche hanno strutture proprietarie deboli, con assetti i cui limiti erano evidenti da vent’anni e sui quali solo il governo Renzi - questo gli va riconosciuto - ha cominciato a intervenire.
Sono nodi difficili da tagliare. Per il governo intervenire costa molto denaro ed espone alla demagogia anti-banchieri. In più c’è l’ostacolo delle regole europee sugli aiuti: poco praticabili da noi a causa delle troppe obbligazioni subordinate appioppate dalle banche a piccoli risparmiatori mentre chi doveva vigilare, soprattutto la Consob, chiudeva un occhio.
Ad aggravare il tutto c’è una difficoltà dell’economia a riprendersi che, presente in tutti i Paesi avanzati, da noi è più grave anche a causa delle banche deboli che offrono poco credito. L’intrico degli errori nazionali rende esplosiva una miscela i cui ingredienti sono variamente diffusi (la contiguità-complicità tra politica locale e banche, ad esempio, è strettissima in Germania).
La capacità dei governi si misura su come affrontano gli imprevisti. Di fronte al mondo un riassetto complessivo della banche italiane passa avanti a molto altro come importanza. Difendersi dalle accuse populiste di «aiutare i banchieri» non è arduo, poiché sono confuse, lontanissime dai reali errori commessi. Ma occorre che per gli errori veri qualcuno paghi.
Serve un progetto organico che agevoli rafforzamenti del capitale, composizioni azionarie più robuste, riduzione del numero dei dipendenti; ben vengano anche organi dirigenti più snelli. Bisogna dare un futuro al Monte dei Paschi, senza far drammi se la più antica banca del mondo sarà controllata da non italiani. Solo con una azione decisa si otterranno vantaggi tali da compensare i costi politici e finanziari.

La Stampa 4.9.16
Renzi in Cina per il G20 e cogliere nuove opportunità per l’economia italiana
In attesa del G20 sulla crescita, al via domani, ha in programma una serie di incontri

qui

La Stampa 4.9.16
L’offensiva globale di Pechino
di Maurizio Molinari


Il lancio di un avveniristico satellite anti-hacker dal deserto del Gobi e la costruzione avanzata di una base navale nel Corno d’Africa indicano la proiezione di Pechino verso una dimensione strategica globale, ben oltre i limiti dell’Estremo Oriente. A suggerire l’intenzione del presidente Xi Jinping di ritagliarsi più spazio in una comunità internazionale lacerata dalle crisi è quanto avvenuto nelle ultime settimane. Mentre i negoziatori del summit del G20 - che si apre a Hangzhou - definivano i dettagli di possibili compromessi su crescita e clima, dal centro di lancio di Jiuquan è stato messo in orbita a metà agosto il satellite «Mozi».
Il nome di un filosofo cinese dell’antichità, noto per le riflessioni sull’autocontrollo, si accompagna a un successo nell’alta tecnologia perché si tratta del primo satellite in assoluto capace di gestire comunicazioni quantistiche ovvero in grado di resistere ad ogni tipo di attacchi cibernetici. È una tecnologia già adoperata per proteggere comunicazioni terrestri negli Usa e in Europa, ma poiché l’efficacia diminuisce con la distanza finora nessuno ne aveva ipotizzato l’uso nel cosmo.
«Mozi» trasforma così la Cina nella prima nazione capace di garantire la sicurezza delle comunicazioni terra-cosmo con i conseguenti vantaggi militari e commerciali. Per avere un’idea più completa della genesi di questo sorpasso cinese a scapito degli occidentali basti aggiungere che nasce dal progetto dello scienziato austriaco Anton Zellinger che nel 2001 lo propose - con scarso successo - all’Agenzia spaziale europea ed ora lo ha realizzato lavorando per il suo ex studente Pan Jianwei, divenuto nel frattempo una stella dell’Accademia delle Scienze a Pechino. Se tutto ciò descrive i progressi cinesi nel cosmo, sulla Terra c’è da registrare l’inizio della costruzione a Gibuti della prima base militare cinese all’estero. Finora solo Stati Uniti, Russia, Francia e Gran Bretagna ne hanno avute, ma le foto scattate dai satelliti durante l’estate lasciano intendere che questo club ristretto di potenze si sta allargando. Era stato l’ammiraglio Sun Jianguo, vicecapo di stato maggiore delle forze armate, ad affermare in aprile che «il costante avanzamento della costruzione di basi all’estero è una priorità del presidente Xi Jinping». Se finora la Cina si era limitata a costruire porti marittimi lungo le rotte dei cargo che alimentano la propria crescita - da Myanmar allo Sri Lanka fino al Golfo e al Medio Oriente -, ora la base logistica di Gibuti ha caratteristiche militari tali da suscitare allarme al Pentagono, che nello stesso Paese africano ha circa 4000 uomini delle forze speciali nella base di «Camp Lemonnier». Sebbene Pechino parli solo di «struttura logistica», Washington ritiene che sia l’inizio di un network d’installazioni navali destinate a sorgere in tempi non lunghi anche in Oman, Pakistan e nelle Seychelles per proteggere interessi in crescita: dagli investimenti alle infrastrutture fino al possibile invio di contingenti. E’ in tale cornice che il centro studi di «Rand Corporation» pubblica un rapporto sulla «possibile guerra fra Cina e Stati Uniti entro il 2025» che potrebbe svolgersi «con armi convenzionali e cibernetiche» su tre fronti: Estremo Oriente, cosmo e spazio digitale. Gli esperti di «Rand» ritengono che tale conflitto sarebbe molto nocivo per tutti e dunque resta una lontana ipotesi, ma ciò che conta è rendersi conto della presenza di tale, nuovo, rischio. La crescita cinese non è più limitata al mercato interno ed all’export, si accompagna a interessi globali evidenziati dal satellite «Mozi» e dalla base di Gibuti. È questa la nazione che ospita il G20 e con la quale l’Occidente ha interesse a convivere e collaborare. Per favorire la crescita e governare le crisi è necessario conoscersi meglio.

Corriere 4.9.16
I dati che smentiscono la «superiorità» europea
di Danilo Taino


A l G20 di Hangzhou, Cina, che si apre oggi, l’Europa proverà a fare sentire la sua voce. Soprattutto di fronte alle due grandi potenze Stati Uniti e Cina che ieri hanno dato il segno al summit ratificando in parallelo l’accordo sul clima concordato a Parigi l’anno scorso. Sarà un’impresa. La Ue, che fino a qualche anno fa considerava se stessa un modello per il mondo, oggi è guardata con scetticismo un po’ da tutti. La ragione inizia a vedersi anche nelle statistiche, che la dipingono a colori piuttosto eccentrici rispetto al resto del mondo. Il peso specifico dell’economia europea, innanzitutto, è in caduta: dal 31,4% del Pil mondiale nel 2004 al 23,8% del 2014 , secondo Eurostat. Soprattutto a causa della crescita cinese, passata negli stessi anni dal 4,5 al 13,4% . I 28 Paesi della Ue sono quelli che tassano e spendono di più. Le entrate statali sono il 45,2% del Pil (dal 43,2% del 2004 ), il 46,8% nell’area euro: negli Stati Uniti sono il 33,1 , in Giappone il 35,8% . Le spese pubbliche sono il 48,2% nella Ue ( 49,4% nell’eurozona), anche in questo caso in crescita rispetto al 46,1 del 2004 : negli Usa sono il 38,1% del Pil, in Giappone il 42% . Il tasso di attività (le persone attive nel mercato del lavoro in proporzione alla popolazione) della Ue è poco più del 78% per gli uomini e il 68% per le donne: per i maschi è pari o superiore all’ 80% in tutti gli altri Paesi del G20 esclusi Turchia e Sudafrica, per le donne è inferiore a quello di Stati Uniti, Russia, Canada, Australia, Giappone, Brasile, Sudafrica. Il tasso di disoccupazione, oltre il 10% , è superiore a quello di tutti gli altri membri del G20 escluso il Sudafrica ed è l’unico a essere aumentato tra il 2009 e il 2014.
Il campo nel quale i 28 della Ue svettano sono le spese pubbliche che vanno alla protezione sociale (Welfare State), salite da poco più del 25% del Pil nel 2003 a quasi il 28% nel 2013 . Solo Giappone e Brasile superano il 20% (Usa al 18% ). Ma anche questo non è un modello per il resto del mondo, che anzi ritiene le spese di Welfare indiscriminato una delle ragioni della crisi di crescita della ricchezza in Europa. E ha una conferma della sua opinione nel reddito disponibile per abitante ( 2014 ): meno di 28 mila dollari nei 28 della Ue, 45 mila negli Stati Uniti, più di 35 mila in Australia.Se non cambiano questi numeri, alla presunta superiorità morale dell’Europa non crederà mai nessuno nel G20.
@danilotaino

Il Sole 4.9.16
La globalizzazione ai tempi del «burqini»
di Luca Ricolfi

La sentenza del Consiglio di Stato francese che, di fatto, autorizza l’uso del burqini sulle spiagge ha presto disinnescato una polemica che stava sconfinando nel ridicolo. E tuttavia, a ben pensarci, questa tempesta estiva in un bicchier d’acqua qualche utilità potrebbe anche averla. Il dibattito-lampo sul burqini, infatti, ha portato allo scoperto una debolezza fondamentale del nostro modo di rapportarci alle altre culture, che pure pretendiamo di rispettare.
Questa debolezza ha due facce, opposte e complementari, come quelle di una moneta. La prima faccia, la faccia relativista, o del rispetto fra culture, dice: non ci sono valori assoluti, nessuna cultura è superiore a un’altra, non possiamo giudicare una cultura con i nostri parametri occidentali, l’incontro con altre culture è arricchimento reciproco, ogni cultura (e ogni religione) merita rispetto, dobbiamo essere aperti verso l’altro e il diverso. Continua Ma la seconda faccia della moneta, la faccia illuminista, recita: i nostri principi di libertà e tolleranza hanno valore universale; la democrazia è il migliore dei sistemi di governo; libertà religiosa e di espressione non possono subire restrizioni; uomini e donne sono eguali; la sessualità deve essere libera; i diritti dell’uomo sono inviolabili e dobbiamo adoperarci per assicurare il loro rispetto su tutto il pianeta.
Curiosamente, l’incongruenza fra le due facce della moneta non disturba quasi nessuno. Ci piace pensarci così: rispettosi degli altri, ma al tempo stesso consapevoli di essere i migliori.
Per accorgerci che nel nostro modo di vedere le cose qualcosa non funziona abbiamo bisogno di eventi esterni, grandi e piccoli. Forse più piccoli che grandi. Certo le guerre umanitarie, o le democrazie imposte dall’alto, qualche interrogativo lo sollevano. Ma dove casca l’asino è sulle piccole cose, quelle su cui chiunque si sente autorizzato a dire la sua.
Uno dei primi casi, come ricorderanno molti, fu quello dell’infibulazione e più in generale delle mutilazioni del corpo femminile, che suscitò molte controversie in Francia fin dagli anni ’80: la faccia relativista, o del rispetto, imponeva di accettare i costumi delle culture “altre”; la faccia illuminista imponeva di combattere quei medesimi costumi a causa del loro carattere barbaro. Alla fine la vinse la faccia illuminista, e l’infibulazione è rimasta una pratica illecita.
Il dilemma fra le due facce della moneta si è riproposto innumerevoli volte, spesso mettendo in imbarazzo la cultura liberal che da qualche decennio è egemone in Occidente. Specie quando di mezzo vi sono le donne, non necessariamente islamiche, invariabilmente va in scena il medesimo canovaccio, e si ripresenta la medesima contraddizione. Se una donna islamica va in spiaggia in burqini, la faccia del rispetto invoca il sacrosanto diritto di ogni donna di vestirsi secondo i precetti della sua religione, ma la faccia illuminista (e femminista, in questo caso) prontamente obietta che il burqini è imposto da mariti e fratelli, e vietarlo aiuta le donne islamiche a emanciparsi, a liberarsi da ogni tutela. In questo caso a prevalere pare essere la faccia del rispetto, che rinuncia a imporre alle donne islamiche i nostri costumi (da bagno), a costo di consegnarle all’arbitrio dei loro uomini e al cupo oscurantismo del loro mondo.
Ma il dilemma fra il principio del rispetto e la fede assoluta nei valori della civiltà occidentale non si presenta solo quando di mezzo ci sono le donne. Sovente esso fa la sua comparsa anche in altri ambiti, ad esempio, in materia di libertà di espressione, e di satira in particolare.
Quando, il 7 gennaio 2015, un commando terrorista islamico uccide 12 persone in un assalto alla sede di Charlie Hebdo, colpevole di avere pubblicato vignette satiriche derisorie su Maometto, quasi tutti gli intellettuali (e i mass media) illuminati reagiscono difendendo il diritto incondizionato degli autori di satira di prendere in giro chiunque. Ma quando, come in questi giorni, oggetto della satira sono gli italiani vittime del terremoto di Amatrice, rappresentati come maccheroni insanguinati di pomodoro, il credo nel diritto di satira vacilla. Ed ecco che il pendolo, che ai tempi di Charlie Hebdo aveva risolutamente oscillato a favore della libertà di satira, riscopre improvvisamente le ragioni del rispetto: forse la liberà di satira non dovrebbe essere illimitata e incondizionata, come perentoriamente si era affermato ai tempi di Charlie Hebdo.
Ma torniamo al burqini. Chi ha ragione?
Dico subito che il mio istinto è tutto pro-burqini. Fatto salvo il principio che, per elementari ragioni di sicurezza, nessuno deve poter girare in pubblico a volto coperto, e che il principio vale erga omnes, dalla donna in burqa al malvivente con passamontagna che dà l’assalto a una banca, trovo abbastanza irragionevole che noi occidentali assumiamo verso l’Islam (o verso qualsiasi altra cultura diversa dalla nostra) un atteggiamento paternalista in materia di stili di vita. Questo per due distinte ragioni.
La prima, e la meno importante perché alquanto soggettiva, è che provo sempre un certo imbarazzo quando vedo qualcuno che spiega a qualcun altro quali sono i suoi veri interessi, o pretende di conoscerne la volontà autentica. Il fatto che non pochi di noi (islamici e non) agiscano sotto ricatto, pressioni di gruppo, ingerenze familiari – una circostanza che fa purtroppo parte della fisiologia sociale – non autorizza nessun Ente superiore, sia esso lo Stato, la Giustizia o altro, a farsi interprete delle nostre vere preferenze e della nostra vera volontà. Nessuno può obbligarci ad essere liberi contro la nostra volontà dichiarata.
Ma c’è una ragione più importante per cui ritengo che dovremmo andarci piano con i nostri giudizi sulle culture che ci appaiono diverse dalla nostra. Ed è che tali culture spesso non sono affatto diverse, bensì situate in un altro tempo. Per diversi aspetti sono la nostra stessa cultura, com’era 100, 50, o anche solo 30 anni fa. E qui non mi riferisco tanto o solo al modo di vestire, in chiesa come in spiaggia, un punto su cui basterebbero poche foto d’epoca per mostrarci quanto il pudore islamico di oggi somigli a quello occidentale di due generazioni fa. Quello che ho in mente sono i più alti valori di cui la nostra civiltà, specie europea, si fa spesso vanto, ad esempio la democrazia e il ripudio della pena di morte.
Troppo spesso ci dimentichiamo che le conquiste che a molti di noi oggi paiono naturali e irrinunciabili, in quanto condizioni minime di civiltà, sono frutto di un percorso durato secoli e che in molti paesi “civili” si è concluso da poco, o deve tuttora concludersi. Ancora alla fine della seconda guerra mondiale, il suffragio universale non esisteva in Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Stati Uniti, Giappone. Quanto alla pena di morte, essa resiste tuttora negli Stati Uniti, ed è scomparsa dagli ordinamenti dei principali paesi europei solo in tempi recenti. Nel Regno Unito, in Belgio e in Spagna era ancora in vigore all’inizio degli anni ’90; in Francia, Olanda, Norvegia, Danimarca alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80. In Francia l’ultima esecuzione capitale, mediante ghigliottina, avviene nel 1977, quasi dieci anni dopo le due grandi rivoluzioni del costume del sessantotto e del femminismo. Per non parlare del Vaticano, che ora invoca la sospensione di tutte le esecuzioni capitali, ma ha aspettato fino al 2001 (con Wojtyla) per decidersi ad eliminare la pena di morte dalla Legge fondamentale dello Stato Pontificio.
Naturalmente può ben darsi che molte culture non occidentali evolvano, in definitiva, verso costumi diversi dai nostri. E tuttavia non dovremmo trascurare un’altra possibilità, o meglio un'altra ricostruzione di come siano andate le cose nell’era delle frontiere aperte. L’incontro-scontro fra modelli culturali oggi in atto fra l’Occidente consumista ed iper-emancipato e i molti popoli che, con comprensibile sbalordimento, ne osservano costumi e modi di vita, sarebbe potuto essere meno traumatico, e forse anche meno violento, se l’Occidente, e in particolare l’Europa, fossero stati meno immemori del proprio recente passato, e più consapevoli della lentezza con cui evolvono le culture. L’ingenuo (o fin troppo cinico) entusiasmo con cui i paesi leader del mondo hanno aperto le loro economie e le loro frontiere sembra aver fatto perdere di vista una distinzione essenziale: il trasferimento tecnologico, tanto più nell'era di internet, può anche essere molto rapido, ma la comunicazione e l’integrazione reciproca fra culture richiedono molto più tempo. È come se i vantaggi dell’arretratezza economica, magistralmente descritti da Gerschenkron negli anni ’60 del secolo scorso, ovvero l'idea che un paese arretrato possa bruciare le tappe della modernizzazione facendo tesoro delle conquiste economiche e tecnologiche dei paesi avanzati, fossero stati attribuiti anche all'evoluzione delle culture. Pensare che miliardi di uomini, nel giro di pochissimi decenni, potessero superare differenze e barriere formatesi nei secoli o nei millenni, è stato probabilmente il più grave errore di valutazione che le élites economiche e culturali del mondo avanzato abbiano commesso dopo la seconda guerra mondiale. Globalizzazione degli scambi, allargamento a Est, apertura ai migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, non erano di per sé scelte sbagliate, ma assai imprudente è stato non considerare il fattore tempo: tre decenni sono più che sufficienti per modernizzare un’economia, ma possono essere davvero pochi per mettere in comunicazione due culture.
Guardando al futuro, se davvero vogliamo attenerci al rispetto delle altre culture e delle altre civiltà, dovremmo essere preparati ad accogliere tutte le eventualità. Può darsi che i modelli occidentali, con le loro promesse di benessere e di libertà, finiscano per imporsi nella maggior parte dei Paesi del mondo, e che sia solo questione di tempo: prima o poi vedremo le donne islamiche in bikini. Ma può anche darsi che, specie in campo etico e nel costume, la civiltà libertaria e un po’ esibizionista dell’Occidente non attecchisca ovunque: in quel caso vedremo diversi burqini anche quando padri-padroni e mariti-signori saranno stati costretti a fare un passo indietro.
E poi c’è una terza possibilità, ignorata dalla sociologia ma non dalla letteratura. Può anche darsi che, a fare un piccolo passo verso il passato, siano i costumi dell'Occidente, una possibilità chiaramente adombrata nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (Sottomissione, Bompiani 2015): in quel caso vedremo le donne occidentali gareggiare a chi sfoggia il burqini più bello.

Corriere 4.9.16
La partita di Merkel nell’ex Ddr: evitare il sorpasso dell’ultradestra
Oggi il voto in Meclemburgo-Cispomerania: paura dei migranti (mai arrivati)
di Danilo Taino


BERLINO Un Land della Germania nel quale non ci sono quasi profughi mediorientali probabilmente oggi proverà a dare una lezione ad Angela Merkel, che ai rifugiati siriani aprì le porte giusto un anno fa. Si tengono le elezioni locali nel Meclemburgo-Cispomerania, regione all’estremo Nord-Est, ex Ddr. E i sondaggi dicono che il partito della cancelliera, la Cdu, rischia di essere superato da Alternative für Deutschland, il movimento che raccoglie consensi su una piattaforma anti-immigrati. Per Frau Merkel e per i cristiano-democratici sarebbe un’umiliazione che darebbe cibo alle polemiche mediatiche. Anche se politicamente non avrebbe conseguenze serie.
Il Meclenburg-Vorpommern (MeckPomm) è poco popolato: ha un milione e seicentomila abitanti, meno della metà di Berlino. Dal punto di vista politico, è eccentrico rispetto al resto del Paese: alle elezioni del 2011, per dire, il partito erede dei comunisti della Germania Est, la Linke, superò il 18% dei voti. Oggi vive la crisi dei profughi, arrivati in oltre un milione in Germania l’anno scorso, ma solo in televisione: in MeckPomm ne sono arrivati 22 mila. Non è minimamente un test di valore nazionale. Ciò nonostante, i media tedeschi e internazionali lo stanno gonfiando. E, in effetti, qualcosa racconta: che la questione rifugiati è al top delle ansie della Germania persino dove i rifugiati sono praticamente assenti. E che la signora Merkel è ritenuta l’origine del flusso di profughi.
Nei numeri, la situazione della vigilia è questa: i socialdemocratici della Spd alle elezioni di cinque anni fa raggiunsero il 35,6%, oggi i sondaggi li danno al 28%; la Cdu toccò il 23% e oggi è data tra il 21 e il 23%; i neonazisti dell’Npd erano al 6%; la Linke al 18,4%; i Verdi all’8,7%; AfD non esisteva e ora è prevista tra il 21 e il 23%. Se ci sarà il sorpasso della AfD sulla Cdu, il crollo dei socialdemocratici passerà in secondo piano, tutta la discussione tornerà su Merkel, sulla possibilità che si ricandidi per un quarto mandato da cancelliera nell’autunno 2017, sulla sua capacità di portare i conservatori a vincere di nuovo le elezioni federali. La realtà, però, è che le marginali elezioni di oggi in questo senso non daranno indicazioni serie.
Il 44% dei tedeschi vorrebbe che si ricandidasse, che non è granché. La decisione sarà presa dalla Cdu e dal partito gemello bavarese Csu, e lì i favorevoli a un quarto mandato di Merkel sono l’81% nella Cdu e il 71% nella Csu. Ci vorrà qualcosa di più di un’umiliazione periferica nel MeckPomm per risolvere il dubbio: nemmeno le elezioni nella città-Stato di Berlino, il prossimo 18 settembre, saranno significative per decidere il futuro della cancelliera. Tutto si discuterà all’interno del fronte conservatore. E Merkel ha ribadito ancora ieri, in un’intervista al quotidiano Bild , che sull’apertura ai rifugiati lei non farà passi indietro. Convinta che la AfD non avrà vita lunga.

Repubblica 4.9.16
Lo scrittore Ingo Schulze alla vigilia del voto in Meclemburgo:
“L’Afd partito pericoloso per il Paese”
“In Germania un errore rincorrere i populisti”
intervista di Tonia Mastrobuoni


BERLINO. Ingo Schulze guarda con preoccupazione alle elezioni di oggi in Meclemburgo-Pomerania che potrebbero regalare un nuovo trionfo all’Afd. Il grande scrittore tedesco, cresciuto nella Germania est, spiega in quest’intervista perché quello di Frauke Petry è un partito “pericoloso”, perché una volta votava Merkel e ora non più e perché i populisti sono così forti soprattutto nei Land ex comunisti.
Schulze, i sondaggi sembrano annunciare un boom dell’Afd anche alle elezioni di oggi: sarebbero al 23%, persino davanti alla Cdu.
È un partito pericoloso, secondo lei?
«Sì, è un partito pericoloso. Ma sarebbe molto meno pericoloso se gli altri partiti non pensassero di doverlo sempre assecondare. L’Afd non partecipa ad alcun governo regionale (anche se siede in otto parlamenti dei Land, ndr) ma riesce ad essere molto efficace, proprio perché gli altri tendono a rincorrerlo».
Angela Merkel non sembra rincorrerli molto. Anzi, sembra uno dei pochi leader europei ad assecondare poco i populisti.
«È vero, Merkel sembra poco impressionabile. Io stesso sono stato un suo elettore e ammirato dalla sua persona, al di là delle manovre che intraprende per garantirsi il potere. Ma il suo partito, come quelli con cui governa, hanno sbagliato alcune cose fondamentali e hanno lasciato che la società tedesca si polarizzasse, dal punto di vista sociale ed economico».
Perché l’Afd sembra particolarmente forte nella vecchia Germania est?
«Noi tedeschi dell’Est siamo come un Paese di immigrati annesso nel 1990 alla Repubblica federale. Anche se lo shock che ha attraversato la Germania Est negli anni 90 è stato meno forte di quello dei Paesi dell’Est europeo, questa parte della Germania mostra le caratteristiche tipiche degli immigrati: vuole sentirsi parte del resto della Germania, finalmente, e non vuole che “altri” si accaparrino cose che le spettano. E pazienza se nessuno, ad oggi, ha dovuto fare dei sacrifici a causa dei profughi».
Esiste ancora un “muro nelle teste” tra Germania est e ovest?
«Esistono ancora delle differenze. Ma io non lo chiamerei “muro nella testa”. Gli anni 90 hanno portato enormi trasformazioni in ogni famiglia della Germania est, a volte positive, a volte no. Io penso che a Est ci sia una certa stanchezza nei confronti dei cambiamenti. Che non sempre sono stati in meglio».
Un anno di “ce la faremo” della cancelliera: lei che bilancio fa?
«È stato giusto aiutare i profughi. Ma la frase “ce la faremo” fa pensare a un problema da risolvere. E che, una volta risolto, buonanotte. Invece siamo all’inizio di una grande migrazione che va affrontata con lo sguardo lungo. In realtà dovremmo chiederci come mai arrivino solo adesso. Non c’è stata alcuna analisi seria, alcun piano serio. E questo ha polarizzato la Germania. Anche gli argomenti in buona fede non erano buoni. Almeno, non abbastanza».
Cosa ha ispirato la svolta di Merkel, secondo lei? Molti dicono: ha abbandonato il suo proverbiale tatticismo ed è diventata strategica.
«Credo che Merkel abbia voluto davvero aiutare i profughi. Ma il governo non ha la idee chiare su come farlo, esattamente come il resto d’Europa. Avere un piano significherebbe ripensare il modo di governare e di organizzare l’economia. Invece, lo sforzo di affrontare le cause che inducono i rifugiati a venire in Europa si è tradotto finora soltanto in una serie di misure restrittive, nella migliore delle ipotesi in uno sforzo di mettere fine alla guerra in Siria».

Il Sole 4.9.16
La nefasta ossessione tedesca per l’austerità
di Paul Krugman


Voglio riprendere un post pubblicato sul suo blog da Brad Stetser, ricercatore del Council on Foreign Relations, a proposito dell’eccedenza di bilancio tedesca (on.cfr.org/2cp7YCw).
Al momento, asistiamo a una presa di coscienza, tardiva ma benvenuta, del fatto che la politica monetaria ha un disperato bisogno di un’espansione della spesa pubblica. Se qualcuno vuole sintetizzare questo uno-due con la classica immagine dell’«helicopter money», va bene: quello che conta è la pressione combinata di politica monetaria e politica di bilancio.
Ci sono un paio di ostacoli sulla via di questo progetto: uno è il Partito repubblicano negli Usa, che si prepara a portare avanti una politica di ostruzionismo senza quartiere se Hillary Clinton diventa presidente; l’altro è il nodo tedesco, l’ossessione della Germania per la probità finanziaria, che affonda le radici nel fatto che quando si parla di macroeconomia la Germania vive in un universo intellettuale diverso da quello di chiunque altro: le circostanze hanno dato a questa ossessione un impatto maggiore di quello che esercitano di solito le idee sbagliate.
Se ragioniamo sulla natura del problema europeo, vediamo che ha due aspetti,
forse due e mezzo.
Il primo è che l’Eurozona è affetta dalle fasi iniziali di una stagnazione secolare, in cui sta entrando con un tasso di inflazione che è la metà di quello (già troppo basso) fissato come obiettivo dalla Bce. Per sfuggire a questo problema di «ipoinflazione» c’è bisogno di una spinta dalla spesa pubblica.
Il secondo è che i prezzi e i costi del lavoro relativi sono ancora disallineati in Europa, con i Paesi del Sud che necessitano di una svalutazione interna che sarebbe più semplice se la Germania avesse un’economia in piena espansione e un’inflazione più alta.
Il secondo e mezzo è che c’è ancora un problema con le banche: avrebbero bisogno di iniezioni di fondi pubblici.
Ma la Germania vuole stare in attivo e vuole che gli altri stiano in attivo. La politica di bilancio rigida di Berlino contribuisce alla debolezza della domanda in Europa, e l’intransigenza anti-deficit dei suoi leader è uno dei motivi per cui altri Paesi europei con bassi costi di indebitamento continuano a perseguire una politica
di austerità.
Oltre a ciò, la gestione dei conti pubblici tedeschi impedisce il processo di espansione economica e inflazione che aiuterebbe la svalutazione interna nel Sud Europa (e sarebbe un corrispettivo del processo di espansione economica e inflazione nel Sud Europa fra 2000 e 2007, che consentì alla Germania di uscire dalle secche in cui si era impantanata alla fine degli anni 90).
A mio parere la Germania pretende bail-in (salvataggi a carico dei creditori privati) per le crisi bancarie, soprattutto per evitare di far lievitare il debito pubblico, cosa che in alcuni casi è una buona idea, ma ora perpetua la crisi bancaria che cova sotto la cenere. L’ossessione rigorista della Germania ha un effetto moltiplicatore sull’Europa, e sul mondo, sproporzionato rispetto alle dimensioni (pur considerevoli) dell’economia tedesca. E mi chiedo se il cambiamento epocale a cui assistiamo nell’orientamento della classe dirigente servirà a qualcosa, visto che il Governo che più dovrebbe cambiare le sue politiche non ne vuole sapere.
La follia della prudenza. Un altro post di Setser (on.cfr.org/2bficPC) sottolinea che perfino adesso l’Fmi raccomanda strette sui conti pubblici quasi ovunque – Eurozona, Giappone, Cina – e quasi da nessuna parte espansione dei bilanci. Così l’Fmi contraddice le sue tesi, cioè che i Paesi in eccedenza nel saldo con l’estero dovrebbero adottare politiche espansive. È vero, ma collocherei l’argomento in un contesto più ampio: viviamo in un mondo in cui la stagnazione secolare sembra un rischio concreto e dove l’inflazione resta al di sotto dell’obiettivo nonostante un’espansione monetaria senza precedenti.
Tutto sembra indicare che il mondo ha un bisogno disperato di potenziare la domanda ed espandere l’offerta di attività sicure, e che la soluzione di affidarsi solo alle Banche centrali non funziona.
La soluzione definitiva includerà obiettivi di inflazione più alti e le sempre invocate riforme strutturali, ma senza un aiuto della politica di bilancio è difficile che qualcosa funzioni.
Questa diagnosi fa proseliti: non siamo più solo noi keynesiani a dirlo. Da otto anni viviamo in un’economia depressa e con tassi di interesse bassi, e gli attori continuano a comportarsi come se non avessero imparato nulla.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 4.9.16
Il ritorno di Marine “Basta buonismi io salverò la Francia”
Dopo mesi di silenzio Le Pen torna a parlare in pubblico e inaugura la sua campagna per le presidenziali 2017
La paura di nuovi attentati e la discussione sul burkini giocano a suo favore, mobilitando gli elettori FN Mentre negli altri partiti c’è ancora tensione sui nomi dei candidati, lei conta sull’appoggio certo dei suoi
di Anais Ginori


BRACHAY. Tra un fienile e una stalla, davanti a mucche che brucano in un recinto, Marine Le Pen appare sul pulpito con un tono più solenne del solito. «La miglior risposta contro il terrorismo è la scheda nell’urna» dice la presidente del Front National dopo settimane in cui si è vista e sentita poco, nonostante la congiuntura volga in suo favore: nuovi attentati, emergenza immigrazione, polemica sul burkini, crisi agricola. Le Pen ha mandato avanti i suoi, godendosi lunghe vacanze nella casa di famiglia in Bretagna, e preparandosi alla battaglia finale: le elezioni presidenziali.
A otto mesi dal voto, la campagna è iniziata ieri, in un paesino della Marna con una sessantina di abitanti. Brachay è stato scelto dopo che alle ultime presidenziali aveva raggiunto un piccolo record: tre elettori su quattro avevano votato Fn. Da allora, ogni anno Le Pen viene qui a fare la sua rentrée politica, contando su un tifo sfegatato e un simbolo: Brachay è lo specchio dell’elettorato rurale e popolare, della «Francia dei dimenticati», «del Paese che soffre in silenzio», come ha ripetuto ieri durante il suo discorso.
«Siamo stati fregati prima da Sarkozy, poi da Hollande. Non ci resta che lei» racconta il sindaco Gérard Marchand, allevatore che ha perso quasi un quinto del suo fatturato nell’ultimo anno «a causa delle regole europee».
“ Marine sauve la France” è scritto su uno striscione. Le Pen cambia tono, per indossare l’abito presidenziale, ma non contenuti: parla di “ grandeur” perduta, di frontiere da chiudere, dell’islamismo come di un «nuovo totalitarismo». A livello internazionale sostiene Donald Trump e Vladimir Putin, accusa gli attuali dirigenti politici di essere «asserviti al Qatar e all’Arabia Saudita». «Io invece – prosegue - vi garantisco che sono una donna libera che penserà solo a proteggere la Nazione». Promette di far uscire la Francia dalla Nato e ipotizza un Frexit, come è successo al Regno Unito. «Se sarò eletta organizzerò un referendum per uscire dall’Ue».
La leader Fn rivendica di aver vinto la battaglia delle idee su islamismo e immigrazione. «Ora tutti ci danno ragione, siamo stati i primi a infrangere la barriera del politicamente corretto». Il Fn occupa il dibattito mediatico. Vincere il potere è un’altra cosa, in un sistema bipolare che fatica ad adattarsi al tripartitismo.
“Marine Présidente”, scandiscono i circa duemila militanti che riempiono la piazza del villaggio. Rispetto a tutti gli altri partiti, Le Pen ha il vantaggio di essere la candidata naturale del Fn. Niente primarie, né guerre interne come accadrà fino a gennaio prima nella destra dei Républicains e poi nei socialisti. Esistono piccole rivalità, come quella tra il suo braccio destro Florian Philippot e la nipote Marion Maréchal Le Pen, che incarnano le due anime del partito: quella più nuova, laica e sociale, e la più antica, cattolica e liberale. Nulla che possa preoccupare la leader.
La sua sfida è un’altra; conquistare nuova credibilità. I sondaggi prevedono un comodo passaggio al primo turno, ma un’ineluttabile bocciatura al secondo. E’ il “soffitto di vetro” che ha bloccato il Fn alle regionali, quando i candidati arrivati in testa in diverse regioni non sono stati eletti al ballottaggio.
L’unica strada per l’Eliseo passa attraverso il tentativo di allargare la base elettorale. A Brachay sono spariti i simboli del Fn con la fiamma tricolore. Nel nuovo sito di campagna elettorale marine2017.fr - è scomparso anche l’ingombrante cognome. Lo slogan per la battaglia è già stato scelto: “ La France apaisée”, la Francia pacificata. Un modo di rispondere a tutti quelli paventano la guerra civile con un Fn al governo.
Fino a maggio, Le Pen proverà a compiere la sua mutazione politica. E’ una scommessa azzardata, l’esito è incerto. «Marine tornerà l’anno prossimo – assicura il sindaco di Brachay – ma da Presidente».

il manifesto 4.9.16
Erdogan cala il sipario
Turchia. Censura, autarchia teatrale, pensiero unico: le epurazioni non risparmiano arte e accademia. I settori che definiscono la narrativa nazionale oggi dirottati dalla propaganda di Stato: attori cacciati, registi sospesi, giornalisti in manette e professori licenziati. Ankara non arretra nemmeno in Siria: aperto un nuovo fronte a ovest, artiglieria e carri armati a 50 chilometri da Aleppo
di Chiara Cruciati


Tutto si può dire del presidente turco Erdogan tranne che non sia un uomo meticoloso. Tanto pignolo che la campagna di purghe di massa colpisce anche i morti. Non solo i militari deceduti nel tentato golpe del 15 luglio, seppelliti nel “cimitero dei traditori” e destinati alla gogna eterna, ma anche gente spirata qualche secolo prima del putsch.
Nelle liste di proscrizione delle autorità turche è finita la drammaturgia mondiale: Shakespeare, Chekhov e Brecht. Accanto a loro, un intellettuale vivo e vegeto, premio Nobel per la Letteratura, Dario Fo. La Dt, Direzione delle imprese nazionali di teatro, ha cancellato dai cartelloni della stagione teatrale che si aprirà tra un mese esatto tutte le opere dei quattro autori.
«Apriremo le nostre sale solo ad opere locali al fine di contribuire all’integrità e all’unità della patria e rafforzare i sentimenti nazionali», ha detto il vice presidente della Dt, Nejat Birecik. L’apoteosi dell’autarchia teatrale e di uno spicciolo nazionalismo culturale che sono parte integrante di un panorama fatto di censura e pensiero unico.
L’olio di ricino dispensato a piene mani dalle autorità non risparmia – ovviamente – il mondo accademico, intellettuale e mediatico, i settori che definiscono la narrativa nazionale, plasmano la società interna e la raccontano all’esterno.
Ogni regime, la storia insegna, che voglia imporre la propria narrativa punta sulla propaganda di Stato e l’appiattimento delle voci critiche, l’alienazione dei discorsi indipendenti. La mannaia dell’Akp, il partito di governo, ha tagliato la testa ai vertici universitari, ai quotidiani non allineati, ai teatri.
Attori e direttori sono stati direttamente licenziati o costretti a dimettersi da pressioni esterne, taglio di stipendi o cancellazione di spettacoli. Le operazioni di pulizia sono state inaugurate dal comune di Istanbul: all’inizio di agosto quattro attori (Sevinç Erbulak, Mahberi Mertoglu, Irem Arslan e Arda Aydin) e i due direttori Ragip Yavuz e Kemal Kocatürk sono stati sospesi dal City Theaters perché indagati nell’ambito dell’inchiesta sul tentato putsch.
Altri 20 attori sono stati licenziati dietro la scusa di performance scadenti. Pochi giorni dopo le autorità hanno cancellato lo spettacolo del noto attore Genco Erkal per «ragioni di sicurezza». E l’11 agosto alla pop star Sila Gençoglu sono stati sospesi quattro concerti dopo essersi rifiutata di cantare al raduno di massa a Istanbul indetto dall’Akp.
«L’arte richiede libertà di pensiero», commenta Levent Uzumcu, presidente dell’Associazione Attori dei teatridi Istanbul. Difficile quando chi la ricerca perde il posto. Ragip Yaruz lo dice chiaramente: con attori cacciati e direttori sospesi, molti spettacoli previsti per l’autunno non andranno in scena.
Una censura indiretta che si va a braccetto con il dirottamento palese dei contenuti: l’Istanbul Municipal Theatre è da tempo vittima di interferenze politiche, che operano affidandone la gestione a istituzioni finanziate dallo Stato. E il sipario si chiude.
Prof in fuga, giornalisti in manette
Dal palco alle aule universitarie il passo è breve. I vertici degli atenei sono stati decapitati pochi giorni dopo il golpe, 1.577 rettori sostituiti da personalità vicine al presidente. E mentre gli istituti scolastici vicini all’imam Gülen, considerato l’ideatore del golpe, sono stati chiusi, oltre 4.200 professori universitari sono stati cacciati: tra questi i mille che avevano firmato a gennaio una petizione che chiedeva la fine della campagna contro il Kurdistan turco e la ripresa del negoziato con il Pkk.
Molti stanno già andando via, nel timore che il licenziamento sia il primo passo verso l’arresto: l’élite laica e progressista turca sceglie l’estero, una lenta ma costante processione che le ultime purghe hanno solo accelerato. Austria, Germania, Norvegia, Svezia: qui arrivano i curriculum degli accademici turchi.
Da spazio aperto a dibattito e ricerca, le università turche vengono trasformate nel serbatoio della «nuova Turchia» immaginata dal sultano, un mix di islamismo e nazionalismo che ha come modello l’impero ottomano. Il rischio è che atenei simbolo come il Bogazici di Istanbul o la Middle East Technical di Ankara (Metu) mutino la loro natura secolare, diventando burattini dell’educazione di Stato.
Quella su cui si fondano i nuovi istituti voluti dal presidente. Come la Recep Tayyip Erdogan Univerity, nella sua città natale Rize, che grazie ai generosi fondi statali ha triplicato in dieci anni il numero di iscritti (oggi 18mila) e decuplicato quello dei professori: «Quando assumi non sulla base delle qualifiche professionali ma delle visioni politiche, puoi dire addio al futuro dell’università», l’amaro commento dell’ex rettore della Metu.
E infine la stampa, violentata da anni di censure e autocensure. Dal 15 luglio il bilancio terrorizza, spiegando perché la Turchia sia solo al 151° posto su 180 paesi nella classifica della libertà di stampa: Ankara ha il più alto numero di giornalisti dietro le sbarre, tre volte l’Iran e la Cina, 124 i reporter in prigione dai 30 che erano pre-golpe.
È arduo dimenticare le immagini di fine luglio, quando i giornalisti più noti del paese, Nazli Ilicak, Ali Bucac, Busra Erdal, circondati da poliziotti scendevano la scalinata del tribunale di Istanbul. E ancora 16 canali tv, 23 stazioni radio, 15 quotidiani, 29 case editrici, 3 agenzie stampa chiusi, con il loro seguito di dipendenti, migliaia, rimasti senza un lavoro.
Erdogan avanza a nord di Aleppo
Fuori dai confini, Ankara fa orecchie da mercante alle richieste Usa di interrompere l’avanzata in Siria: ieri, mentre idranti e gas disperdevano un’altra protesta a Kobane e 18 soldati venivano uccisi nel sud-est turco in attacchi del Pkk, si apriva un nuovo fronte dell’operazione Scudo dell’Eufrate.
Carri armati e artiglieria pesante sono entrati nella cittadini di al-Rai, sulla direttrice della strategica al-Bab, via di transito verso Aleppo. Ad ovest, dunque, di Jarabulus e dell’Eufrate, dichiarato target turco.
Anche stavolta, al fianco di Ankara, stanno le opposizioni siriane (sia l’Esercito Libero che i salafiti di Ahrar al-Sham) che indicano nell’Isis l’obiettivo. Ma Aleppo è a due passi: è lì, a poco più di 50 km.

il manifesto 4.9.16
Dario Fo: «Attaccare la cultura è un segno di debolezza del regime»
Intervista. Le opere del drammaturgo messe al bando in Turchia, insieme a quelle di Shakespeare, Cechov e Brecht. Censura di regime: «Una cosa già vista, lo abbiamo fatto anche noi in altre epoche»
intervista di Luca Fazio


Dario Fo non ha mai messo piede in Turchia ed è sicuro che questo viaggio non rientrerà nei suoi piani futuri, «del resto ci sono più di 400 teatri in tutto il mondo che rappresentano le mie opere, per seguirle tutte avrei dovuto viaggiare tutta la vita, anzi di più».
Adesso però, su decisione del Turkish State Theatres, tutte le opere del premio Nobel sono state bandite dai teatri turchi in quanto avrebbero poco a che fare con «lo spirito nazionale». La decisione è stata presa domenica scorsa: «Apriremo le nostre sale solo con opere locali al fine di contribuire all’integrità e all’unità della patria», questo l’afflato autarchico di Ankara.
Proprio quest’estate alcuni testi di Fo erano in scena nel paese di Erdogan, tra i quali Non si paga non si paga e Morte accidentale di un anarchico. Niente di personale però. Fo è in buona compagnia: sono stati messi all’indice anche autori come Shakespeare, Cechov e Brecht. Si chiama censura di regime: «Una cosa già vista, lo abbiamo fatto anche noi in altre epoche».
Come ci si sente in compagnia di Shakespeare?
Direi che essere accomunato ad un simile autore per me è un onore, una specie di Nobel, ed è molto piacevole anche essere messo al fianco dei più grandi uomini di teatro del secolo scorso. Ma la situazione è preoccupante.
Le è capitato di essere messo al bando come autore anche in altri paesi?
Ricordo che in Spagna, ai tempi di Franco, un’intera compagnia teatrale fu messa in carcere solamente per aver portato in scena una mia commedia. Diciamo che la Turchia adesso si accanisce contro il teatro e la cultura come è già accaduto in altri paesi, compreso il nostro naturalmente. E dire che nei teatri turchi sono sempre state rappresentate moltissime mie opere teatrali, in numero anche maggiore rispetto ad altri paesi.
Anche in Italia, a proposito di censura, non ci siamo fatti mancare niente.
Sia prima che dopo la guerra, nel nostro paese la censura ha sempre colpito gli autori scomodi. La televisione italiana, per esempio, dopo quella nota vicenda o «alterco» che ha costretto me e Franca Rame ad abbandonare il video per molto tempo, per diversi anni non ha più mandato in onda nemmeno un frammento del materiale che avevamo prodotto. Quelli che hanno la mia età ricordano anche quel periodo in cui l’Italia – come fa adesso la Turchia – aveva deciso di mettere al bando gli autori e gli intellettuali stranieri. Era il fascismo. Ricordo che il regime cancellò uno spettacolo tratto da Machiavelli, La Mandragola. Incredibile: vietare un’opera del Cinquecento, di Machiavelli, in Italia.
La Turchia va in quella direzione?
Evidentemente la Turchia oggi sta facendo la stessa operazione con il pretesto di favorire unicamente la diffusione di opere che rappresenterebbero lo spirito del paese. Penso che sia un segno di debolezza, la censura non è certo indice di buona salute per il governo che la applica. Del resto è noto che in Turchia, anche in passato, sono stati perseguitati autori e intellettuali non graditi. Ricordo lo spaventoso «incidente» accaduto nel 1993 in un albergo di Rivas, in Anatolia, dove morirono bruciati trentatré intellettuali, tra cui molti scrittori e autori di teatro. Fu una vicenda drammatica che colpì tutto il mondo. Tra loro c’era anche chi aveva già messo in scena spettacoli tratti da alcuni miei lavori.

Il Fatto 4.9.16
Dopo la vittoria contro l’Isis per l’Occidente erano eroi, adesso Ankara vuole isolare fisicamente i miliziani dell’Ypg che per Erdogan sono “terroristi che combattono altri terroristi”
C’era una volta Kobane, ora i turchi vogliono murare i curdi
di Marco Barbonaglia

qui


e La Ue...
Il Sole 4.9.16
La Turchia e la Ue. Prove di disgelo dopo il golpe
Ankara rassicura sull’intesa migranti
di B.R.


BRATISLAVA Dopo settimane di critiche, recriminazioni e attacchi verbali, l’Unione Europea e il governo turco hanno cercato tra venerdì e sabato di questa settimana di raffreddare i toni e trovare un nuovo modus vivendi. La muscolosa reazione di Ankara al tentativo di colpo di Stato a metà luglio aveva suscitato non poche preoccupazioni in Europa, provocando tensioni tra Bruxelles e Ankara. Ieri la stessa annosa questione della liberalizzazione dei visti è stata (per ora?) minimizzata dalla Turchia.
«Sono venuto qui per discutere come possiamo migliorare ulteriormente la nostra collaborazione», ha detto in una conferenza stampa qui a Bratislava il ministro turco per gli affari europei Omer Celik, che ieri ha incontrato lungamente i ministri degli Esteri dei Ventotto, riuniti nella capitale slovacca per un vertice ministeriale. «Siamo stati qui oggi per discutere questioni comuni, e comuni valori politici, oggetto di minacce sia in Europa che in Turchia».
L’incontro è giunto un mese dopo il tentato colpo di Stato ad Ankara. Il governo turco ha risposto al tentativo militare con un giro di vite particolarmente duro, e che ha provocato la viva reazione di molti governi europei. In queste settimane estive, l’accordo firmato da Ankara e Bruxelles per meglio gestire l’arrivo di migranti dal Medio Oriente è sembrato drammaticamente in forse, soprattutto perché la Turchia ha insistito per ottenere in cambio dell’intesa la liberalizzazione dei visti.
Finora, i Ventotto si sono rifiutati di concedere questa possibilità in attesa che venga modificata in senso più liberale la legislazione anti-terrorismo della Turchia. In passato, Ankara aveva minacciato di abbandonare l’accordo con Bruxelles in assenza di una liberalizzazione dei visti. Ieri Celik è sembrato più morbido: «Continueremo ad applicare l’intesa fosse solo per motivi umanitari (…) Senza la liberalizzazione dei visti, la Turchia non parteciperà ad alcun nuovo meccanismo».
La frase sembra indicare che Ankara continuerà bene o male ad applicare l’attuale accordo che ha permesso di rallentare i flussi verso Est. Ciò detto, Celik ha respinto qualsiasi cambiamento alla legge anti-terrorismo e criticato ancora una volta l’atteggiamento dell’Unione in occasione del colpo di Stato: «La Turchia non ha avuto sufficiente sostegno. Il popolo turco è stato deluso». La reazione europea è stata in parte influenzata dai dubbi sull’impronta autoritaria del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Ancora ieri alcuni ministri – come l’italiano Paolo Gentiloni - hanno messo l’accento sul rispetto dei diritti umani. Dal canto suo, l’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini ha spiegato: «Il messaggio che convidiamo è un impegno forte a dialogare, parlando meno dell’altro e più tra noi». Dietro al tentativo di normalizzazione dei rapporti vi sono i timori delle diplomazie europee per la nuova alleanza tra Mosca e Ankara, dall’esito incerto sugli equilibri politici nella regione.
La stessa ipotesi di introdurre la pena di morte, criticata a Bruxelles, è stata minimizzata: «Non è in agenda», ha detto Celik. Ankara poi è pronta a ricevere i suggerimenti del Consglio d’Europa sulle azioni giudiziarie contro i responsabili del golpe. Dopo le critiche reciproche, ieri i segnali turco-europei erano positivi, tanti sono gli interessi su entrambi i fronti di avere buoni rapporti. Tuttavia, è probabile che il rasserenamento possa essere presto messo alla prova dalla crisi siriana.
L’intervento turco nel paese e la lotta di Ankara contro i curdi sono visti con preoccupazione da molti governanti europei. «Noi riteniamo che i curdi siriani siano una forza importante per combattere Daesh», ha notato lo stesso Gentiloni, ricordando che la Turchia invece sta combattendo i curdi in Siria, pur di evitare un loro ricongiungimento con i curdi turchi. Lo stesso ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha criticato venerdì l’intervento militare turco nel Paese.

Corriere 4.9.16
Perché Israele si astiene Dal fare la guerra all’Isis
risponde Sergio Romano


Mi scuso per la domanda posta probabilmente in modo semplicistico e forse anche infondata, ma Israele «fa qualcosa» o, se già lo fa, potrebbe fare di più per combattere l’Isis? Più in generale, si sente al riguardo «parte» dell’Europa con le implicazioni del caso nei tragici attuali frangenti o ritiene di essere già troppo impegnata sul fronte palestinese?
Paolo Quattrin

Caro Quattrin,
Forse dovremmo chiederci anzitutto perché l’Isis si sia astenuto sinora dall’organizzare in territorio israeliano attentati comparabili a quelli di cui è stato responsabile in Francia, Belgio e Turchia. Leggo in alcuni blog che il «Califfato» non vorrebbe misurarsi militarmente con un Paese di cui conosce l’esperienza e l’efficacia. Ma questo non gli ha impedito di sfidare la Francia e la Turchia che sono, insieme alla Gran Bretagna, i Paesi più armati e attrezzati d’Europa.
Credo piuttosto che la prudenza dell’Isis sia dovuta alle misure di sicurezza con cui lo Stato ebraico, dopo l’inizio della Intifada dei coltelli, controlla il proprio territorio. Gli islamisti di Al Baghdadi sono pronti a morire per il successo di operazioni particolarmente pericolose, ma preferiscono colpire là dove hanno maggiori possibilità di raggiungere l’obiettivo prima di immolarsi.
Quanto alla prudenza di cui Israele darebbe prova verso l’Isis, esiste un episodio precedente che può servire a comprenderne i motivi. Nel 1991, quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq per costringerlo ad abbandonare il Kuwait, di cui si era impadronito un anno prima, Saddam Hussein reagì colpendo il territorio israeliano con un lancio di missili Scud. Israele si preparava a reagire, ma fu fermato dall’intervento del presidente degli Stati Uniti (era George H. W. Bush) e del suo segretario di Stato. Gli americani sapevano che Saddam stava cercando di trasformare il conflitto in una ennesima guerra arabo-israeliana e volevano impedire che questo accadesse. Gli israeliani prestarono attenzione ai consigli di Washington e sopportarono pazientemente la pioggia degli Scud sino a quando gli iracheni dovettero concentrarsi sulla difesa del loro territorio. Oggi, molto probabilmente, gli israeliani sanno che una eventuale azione militare contro l’Isis consentirebbe al «Califfo» di proclamare la «guerra santa» contro lo Stato ebraico e di mettere in imbarazzo alcuni Paesi musulmani. Gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali ne sono consapevoli e non mi risulta che facciano pressioni sul governo di Gerusalemme per coinvolgerlo.

Corriere 4.9.16
Australia
La prima deputata aborigena
«Se una pecora contava più di me»
Il discorso della deputata Linda Burney al Parlamento, dopo un rito con canzoni tradizionali e mantelli in pelle di canguro: «A scuola ci dicevano che eravamo inferiori»
di Michele Farina

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