ITALIA
La Stampa 4.9.16
Per vincere il referendum decisivi gli elettori di centrodestra
Il nostro sondaggio dà l’elettorato moderato ancora in bilico sulla scelta. Nel centrosinistra i prevalgono i “sì”, i grillini compatti sul “no”
di Nicola Piepoli
qui
La Stampa 4.9.16
Renzi ottimista sul voto ma l’Italicum è a rischio
La Consulta potrebbe accogliere i ricorsi e “tagliare” i ballottaggi
di Ugo Magri
Sensazioni autunnali positive nel mondo renziano. Vengono, pare, dagli umori captati a fine agosto nelle feste dell’Unità. Dai clamorosi autogol grillini di inizio settembre. Ma soprattutto dal piglio operativo con cui Renzi si è tuffato nella ricostruzione post-terremoto. Nemmeno i fedelissimi si spingono a sognare lo stesso boom di consensi che Berlusconi registrò dopo il sisma del 2009, quando aveva in pugno l’Italia prima di rovinare tutto con le sue «feste eleganti»; però «l’aria sta cambiando in meglio» scommettono speranzosi i vertici del Pd. Contribuisce al nuovo clima la retromarcia del premier sul referendum, l’onesta ammissione (chissà quanto gli sarà costata) che fu uno sbaglio personalizzarlo. Rispetto a due mesi fa Renzi precisa che non cascherebbe il mondo se vincesse il «no», e si guarda bene dal ripetere che lui se ne andrebbe un minuto dopo. Nemmeno ci dice esattamente quando andremo a votare. Il governo ha un altro mese di tempo per fissare la data, pare se la voglia prendere comoda. Pure questa apparente «nonchalance» fa parte della stessa strategia rasserenante: serve a dirottare l’attenzione altrove. Mario Monti certifica all’Huffington Post: «Renzi è più umile e maturo».
Una mina sotto il sistema
Ma prima del referendum c’è un’altra data, il 4 ottobre, che potrebbe letteralmente sbriciolare il sistema politico , rendendolo ingovernabile. Quel giorno la Consulta si riunirà per esaminare i ricorsi contro l’«Italicum». Anche qui l’aria sembra cambiata. Mentre prima dell’estate i cosiddetti esperti erano arci-convinti che la Corte avrebbe salvato la legge senza nemmeno entrare nel merito, adesso sono sicuri del contrario. Si è diffusa cioè la convinzione che il 4 ottobre saranno giudicati ammissibili i ricorsi. E che nella stessa seduta, o in una successiva, i 15 giudici impugneranno il «machete» contro la «madre di tutte le riforme» (celebre definizione renziana della legge).
La paura dei «poteri forti»
Difficile accertare su cosa si fondi questa nuova certezza. La giurisprudenza della Corte autorizza qualunque conclusione, in un senso e nell’altro. Per un verso ribadisce il principio di rappresentatività che, nota Luciano Violante, sembra fare a pugni con il ballottaggio dell’«Italicum», in cui può vincere perfino un candidato premier con il 25 cento dei voti; dall’altro lato però la Consulta (vedi la sentenza 275/2014, relatore Giuliano Amato) esalta i ballottaggi come strumento di democrazia, sia pure a livello locale; insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte. Pare tuttavia che autorevoli personaggi della politica, in grado di sondare i giudici della Corte, abbiano percepito a fine agosto un giudizio molto critico verso la legge elettorale, più netto tra quei membri della Consulta che vennero nominati ai tempi di Napolitano. Il Presidente emerito teme, insieme a buona fetta dell’«establishment», che l’«Italicum» possa spalancare la strada ai grillini, grazie al premio di maggioranza. Ecco perché si torna a sentire profumo di proporzionale: se la Corte boccia il ballottaggio, ai «poteri forti» passa la paura.
Rischio di figuraccia
Il premier non se lo augura. Falso che una bocciatura dell’«Italicum» gli farebbe comodo. Lui adora le scommesse e ritiene che, nel duello secco con Di Maio, un domani potrebbe vincere. E poi, il ritorno al proporzionale sarebbe una sconfitta politica, una figuraccia colossale, quasi peggio che perdere il referendum. Ma l’ultima parola non ce l’ha lui.
Il Sole 4.9.16
La democrazia e il peso delle seconde preferenze nel voto
di Roberto D’Alimonte
Si moltiplicano di questi tempi i segnali che il ballottaggio sia il vero problema dell’Italicum. Pochi lo dicono apertamente ma molti pensano che con questo meccanismo si consegnerà il governo nazionale al M5s. A questo riguardo è emblematica l’intervista rilasciata il 20 luglio scorso al direttore de Il Foglio da Giorgio Napolitano. In tema di possibile revisione dell’Italicum il suggerimento dell’ex presidente della Repubblica è di «non puntare a tutti i costi sul ballottaggio che rischia, nel contesto attuale, di lasciare la direzione del Paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione al primo turno». Naturalmente Napolitano non dice nulla a proposito di chi possa essere la forza politica poco rappresentativa che potrebbe vincere le elezioni al ballottaggio. Ma il vero timore di molti che condividono l’affermazione dell’ex presidente è che quella forza sia il Movimento. Per fermarlo la soluzione “perfetta” è la decapitazione dell’Italicum con l’eliminazione del secondo turno. E questo è certamente vero.
Qui però non ci interessa l’esegesi delle parole di Napolitano né vogliamo discutere le probabilità di vittoria del M5s alle prossime elezioni e tanto meno la legittimità di una riforma elettorale fatta per impedire la vittoria di una parte. Quello che ci interessa analizzare è l’argomento utilizzato dall’ex presidente per giustificare l’eliminazione del ballottaggio, e cioè il fatto che con l’Italicum, in un contesto tripolare, possa prevalere una forza politica poco rappresentativa. Il risultato sarebbe quindi poco democratico. Con questa affermazione Napolitano fa propria una tesi largamente diffusa, specie tra i giuristi. Nel suo caso fa più impressione perché viene da persona che non è pregiudizialmente contraria alle riforme del premier.
Nessuno è così ingenuo da pensare che sarà lo stesso Matteo Renzi a farsi promotore di una riforma della sua legge elettorale tale da stravolgerla completamente abolendone l’elemento essenziale che è per l’appunto il ballottaggio. Qualcun altro però potrebbe farlo per lui. È la Corte costituzionale. Il 4 ottobre, sollecitata da un ricorso contro l’Italicum, potrebbe approfittare dell’occasione per far fuori il ballottaggio dichiarandolo incostituzionale proprio sulla base dell’argomento usato da Napolitano. E così - pensano molti - toglierebbe le castagne dal fuoco allo stesso Renzi. Senza il ballottaggio avremmo alla Camera un nuovo sistema elettorale a un turno. Se una lista arriva al 40% dei voti avrebbe il 54% dei seggi. Se nessuno arriva alla soglia del 40% i seggi verrebbero distribuiti in maniera proporzionale. Visto che di questi tempi è estremamente improbabile che qualcuno arrivi al 40% non ci sarebbe nessun vincitore e i governi si farebbero dopo il voto come ai bei tempi della prima repubblica. L’importante è che non si corra il rischio di una vittoria dei cinque stelle. Meglio l’instabilità.
Non osiamo credere che la Corte possa giudicare incostituzionale il ballottaggio. Ma a quanto pare corrono insistentemente voci che il rischio esista. Ne parla con dovizia di particolari proprio il direttore de Il Foglio nel suo editoriale di un paio di giorni fa. Ma è solo un segnale tra i tanti. E allora occorre essere assolutamente chiari su una questione così delicata. La tesi che il ballottaggio non vada bene in un contesto tripolare come il nostro è totalmente sbagliata. È vera invece la tesi contraria. Il ballottaggio è lo strumento più adatto per risolvere efficacemente e democraticamente la questione del governo in un contesto tripolare. Lo è perché mette in campo le seconde preferenze degli elettori e non solo le prime. In un sistema a doppio turno il primo turno è una specie di primaria. Gli elettori sono chiamati a esprimere una preferenza per il partito o il candidato che piace di più. I primi due passano il turno. Al secondo turno gli elettori dei candidati esclusi possono astenersi o possono esprimere un secondo voto che rappresenta una seconda preferenza. Tra i due candidati ammessi al ballottaggio votano per quello piace di più o dispiace di meno. È il sistema utilizzato in Francia e nei nostri comuni. È un sistema che esalta la democrazia. Sono gli elettori a decidere chi vince. E chi vince al ballottaggio vince con il 50% dei voti più uno.
È vero che al ballottaggio si può arrivare anche con il 30% dei voti o meno ottenuti al primo turno. Ma è falso affermare che chi vince, vince con il 30% dei voti. Per vincere al ballottaggio occorre avere il 50% dei voti. E questo vuol dire che chi vince al secondo turno partendo dal 30% del primo è riuscito a conquistare voti che in prima battuta non aveva. Ed è riuscito ad allargare la sua base di partenza conquistando le seconde preferenze di tanti elettori. E dove sta scritto che le seconde preferenze contano meno delle prime? In base a quale criterio si può dire che una vittoria conquistata con le seconde preferenze è incostituzionale?
Sono domande la cui risposta non è nella pagine di Kelsen sulla quali si sono formati i nostri giuristi, ivi compresi quelli che siedono alla Consulta, ma in quelle di Condorcet e di Arrow che purtroppo fanno parte del bagaglio culturale di pochi nel nostra paese. Troppi da noi non conoscono i fondamenti logico-matematici della moderna teoria della democrazia. Né quelli empirici. Eppure dei loro giudizi sono piene le pagine dei giornali e quelle dei talk show televisivi. Incrociamo le dita. La strada per battere i Cinque stelle non passa dalla Consulta ma dalle urne.
Il Fatto 4.9.16
Si chiude il Congresso radicale: Pannella dall’Aldilà rimette in minoranza la Bonino
Vincono gli “ortodossi”: rilancio o tra due anni si chiude
di Gianluca Roselli
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Corriere 4.9.16
Il congresso straordinario
Radicali, vincono gli «ortodossi»
Ma senza nuovi iscritti addio partito
Dopo tre giorni di confronto nel teatro del carcere di Rebibbia, passa la mozione Turco: entro il 2017 l’obiettivo è triplicare gli iscritti attuali, altrimenti ci sarà lo scioglimento
di Francesco Di Frischia
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Corriere 4.9.16
Roberto Perotti
«Ecco i numeri: la spesa pubblica non è diminuita»
«Dalle partecipate ai troppi sussidi, perché le riforme hanno fallito»
intervista di Federico Fubini
«Ero stato chiamato a Palazzo Chigi per ridurre la spesa pubblica. Poi però mi sono reso conto che si era deciso di non farlo seriamente». L’accusa pesante all’esecutivo di Matteo Renzi arriva, in un’intervista al Corriere, dall’economista Roberto Perotti dell’Università Bocconi, per breve tempo consulente del governo. Perotti boccia anche gli interventi sulle partecipate e i troppi bonus.
«Ero andato a Palazzo Chigi, chiamato, per ridurre la spesa pubblica. Poi però mi sono reso conto che si era deciso di non farlo seriamente. Rispetto le valutazioni politiche, ma a quel punto a me non interessava più star lì. Era inutile». Roberto Perotti, 55 anni, ha un piccolo ufficio dalle pareti di cristallo in un’ala nuova della Bocconi a Milano. È più luminoso e tranquillo di quello romano da consigliere del premier che occupava fino all’anno scorso, prima di dimettersi.
Il governo fa notare che dal 2014 la spesa è già stata ridotta di 25 miliardi.
«Non è un’affermazione inesatta, ma altamente ingannevole. I capitoli che sono stati ridotti, lo sono stati per circa 25 miliardi. Nel frattempo altri sono stati aumentati in maniera equivalente, quindi la spesa non è scesa».
Pensa che almeno la qualità sia migliorata?
«Difficile migliorarla se non c’è un intervento pianificato bene dall’inizio. Si sono accumulate misure soprattutto nel campo del welfare, piccole e poco coordinate. Non c’è stato un disegno, che comunque non è mai facile. Proprio per questo andava pensato sugli anni che questo governo aveva a disposizione».
Pensa ai bonus di vario tipo?
«Inutile negarlo: nonostante la retorica politica, associare il bonus ai 18enni a un aumento della spesa anti-terrorismo non ha senso. E molti dei programmi di cui si sta parlando adesso — quattordicesima, aumento delle pensioni minime, bonus fertilità — sono piccoli, ma spesso elettorali. Soprattutto, sono estemporanei, disperdono risorse preziose che potrebbero essere usate meglio, con un disegno organico, per raggiungere chi ha davvero bisogno».
Invece i 25 miliardi di tagli fatti da dove vengono? Dalle nuove centrali d’acquisto?
«Quelle non sono ancora apparse a bilancio, si vedranno sul 2016. Alla fine si spera porteranno 4 o 5 miliardi, ma per quest’anno solo in minima parte. Per il resto sono stati tagliati i trasferimenti a Regioni ed enti locali, anche se non è detto che siano davvero minori spese perché potrebbero dar luogo ad aumenti di tasse decentrate. Poi ci sono due miliardi di tagli ai ministeri, cinque al fondo per la riduzione del cuneo fiscale e altre misure».
Il deficit sta aumentando?
«La decisione di farlo salire di circa l’1% del Pil rispetto agli impegni presi poteva avere un senso, dopo la recessione. Sarebbe stato importante invece rispettare gli impegni sulla spesa, per poter ridurre le tasse magari più di quanto si riduceva quest’ultima. Perché per tagliare le tasse in maniera permanente bisogna anche ridurre le uscite. Annunciare sgravi è facilissimo, tagliare la spesa pubblica è maledettamente difficile. Non ci si riesce in tre mesi».
Facile per voi esperti dare consigli. Non siete voi a dover gestire le conseguenze sociali e politiche dei trasferimenti tagliati, delle commesse alle imprese interrotte.
«Assolutamente. Proprio per questo il solo modo è farlo con un approccio complessivo. Il fine ultimo dev’essere liberare risorse per la lotta alla povertà e alla disoccupazione giovanile, ma prima ciascuno deve poter vedere che i sacrifici sono suddivisi fra tutti, anche fra i privilegiati. Coinvolgerli è fondamentale. Anche per questo un serio programma di tagli di spesa deve aggredire i costi della politica».
Renzi dice che lo ha fatto: li ha ridotti e ha limitato i compensi dei dirigenti pubblici a 240 mila euro l’anno.
«Ha esteso la limitazione ai compensi introdotta da Monti e Letta, ma non c’è stato quel programma di lotta ai costi della politica che sarebbe stato possibile. Ci sarebbe bisogno di una revisione organica di tutti i comparti statali, la giustizia, le Regioni, gli enti locali, tutti i livelli ministeriali».
Sulla dirigenza pubblica, la riforma Madia non segna passi avanti?
«A livello economico non mi risulta. Anzi, a mio avviso si rischiano passi indietro. Con l’abolizione delle fasce retributive dirigenziali ci sarà un’omogeneizzazione delle retribuzioni, inevitabilmente verso l’alto. Quando mai la si è fatta al ribasso? Io aumento il tuo stipendio, tu aumenti il mio. Un dato non molto noto: i dirigenti pubblici italiani a tutti i livelli, ma soprattutto apicali, sono già molto ben pagati. Per esempio più che nel Regno Unito. A livello ministeriale, locale e della giustizia. Ma non mi risulta sia stato fatto niente».
Le società partecipate pubbliche? Lì si è molto legiferato.
«Lì c’è un’illusione collettiva ancora più forte. Quasi niente della riforma Madia è nuovo. Sono tutti criteri formali, aggirabili e senza mordente. Il vincolo per cui le partecipate devono occuparsi solo di attività proprie della funzione pubblica era già stato espresso in passato, ed è talmente generico che qualunque società potrà sempre dire che lo sta rispettando».
Anche qui esiti gattopardeschi?
«Sì, perché è una riforma tutta basata su pompose enunciazioni generali e su un elenco infinito di casi e sottocasi, ognuno ovviamente con la sua deroga. Per esempio si dice che un ente partecipante non possa ripianare le perdite di una partecipata ‘a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione’. Quindi basta assumere un consulente e farselo fare. Altri soldi che partono».
Altri esempi?
«Se c’è una perdita per tre anni di fila, si taglia il compenso dei manager. A meno che, ovviamente, la perdita sia "coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato". E via altri piani, altre consulenze. Eppure c’era un modo semplice e senza ostacoli legali per risparmiare: eliminare l’organismo interno di vigilanza di queste aziende, che non serve a niente, e attribuirne i compiti al collegio sindacale. Si sarebbero tagliate 10 mila poltrone, benché con risparmi limitati».
C’è stata una volontà di non cambiare niente?
«Penso ci fosse buona fede. Ma le norme vengono scritte da amministrativisti che ragionano solo in funzione di enunciazioni formali. Non capiscono gli incentivi: se un ente non chiude una società palesemente inutile o impropria, gli taglio i trasferimenti, e vediamo chi vince. Gli amministrativisti invece pensano basti scrivere che una cosa è proibita perché non avvenga più. Il risveglio sarà amaro».
Sulla Rai lei ha lavorato molto. Che pensa della riforma?
«La Rai ha troppi soldi. Se si compara alla Bbc, il costo medio del lavoro per unità di valore aggiunto è molto più alto. Sono molto pagati i dirigenti. L’Italia si vanta di essere un Paese egualitario, ma nel settore pubblico viene remunerato molto bene chi sta in alto e male chi sta in basso, in confronto con gli altri Paesi. Una maestra o un insegnante guadagnano sotto le medie europee, già un dirigente scolastico guadagna più che in Gran Bretagna. Bene: la Rai incorpora questi problemi, più il fatto che rispetto alla Bbc ha un bilancio enormemente più alto per ore di produzione. Tra i 1.600 giornalisti ha ben 600 dirigenti, una percentuale pazzesca».
Pensava che la riforma affrontasse questi problemi?
«Sì. Invece è esclusivamente legalistico-formale: si precisa chi nomina chi. Però poi dal punto di visto dei costi non è cambiato niente, anzi le sono stati dati più soldi: il canone in bolletta ha aumentato enormemente le entrate dell’azienda».
Quella è una forma efficace di lotta all’evasione.
«Stiamo attenti, sulla retorica della lotta all’evasione. Se recuperi un miliardo e lo usi per ridurre le tasse su chi prima pagava tutto, benissimo. Ma se recuperi risorse e le usi per rimpinguare ancora di più la Rai e i suoi dirigenti, a che serve? Il canone in bolletta è l’esempio tipico: il prelievo è stato diminuito di soli dieci euro, in compenso alla Rai sono andate ancora più risorse, anche se è già la più finanziata fra le televisioni pubbliche».
Vuole dire che Renzi era partito bene ma è diventato un politico tradizionale?
«Non so se sia stato intenzionale, non credo. C’è stata superficialità. Per esempio il vecchio direttore generale Rai si era ridotto il compenso a 240 mila euro; ma quando con la riforma della Rai è arrivato il nuovo, se lo è ri-aumentato a 650 mila, ben sopra il suo omologo della Bbc che pure è molto più grande e seguita in tutto il mondo».
Questi sono spiccioli. Ma dove sono i tagli seri da fare nello Stato?
«Non esistono jackpot facili. Ma per esempio i sussidi alle imprese valgono miliardi e miliardi, in molti casi fuori bilancio. Lo Stato non ne ha ancora un censimento, pensi un po’. Un dettaglio: a gennaio hanno persino aumentato i sussidi al cinema da 200 a 500 milioni, e il cinema italiano è il più sussidiato al mondo per euro di valore aggiunto prodotto. Ma perché un povero disoccupato del Sud deve sussidiare i cinepanettoni?».
Al referendum come voterà?
«Voto sì, abolire il bicameralismo è importante. Ma non è vero che così si taglieranno 500 milioni di costi della politica come dicono, perché in quella cifra sono inclusi i 350 delle provincie che erano già state abolite. Purtroppo questo governo ha fatto pochissimo sui costi della politica, e ora cerca di recuperare distorcendo i contenuti del referendum».
La Stampa 4.9.16
Bancari, la rivolta dei sindacati: “No ai tagli, pronti allo sciopero”
L’Abi rilancia: subito il tavolo con il governo e le parti sociali. Palazzo Chigi frena. Perrazzelli (Barclays): sì alla riduzione delle filiali, presto il futuro sarà digitale
di Francesco Spini
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La Stampa 4.9.16
Rifiuta la chemioterapia, muore un’altra donna
Rimini, aveva 34 anni. Il medico: “Poteva salvarsi, fermate questa follia”
di Franco Giubilei
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La Stampa 4.9.16
L’istituto nazionale dei tumori: “No alle leggende: il cancro si batte con la chemioterapia”
di Paolo Colonnello
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La “medicina alternativa” detta “Nuova medicina germanica” è stata elaborata da Rike Geerd Hamer, dopo la morte del figlio Dirk, ucciso nel 1978 da un colpo partito dalla carabina di Vittorio Emanuele di Savoia. L’anno successivo, Hamer fu colpito da un tumore del testicolo che, dopo la guarigione, attribuì allo choc causatogli dalla morte prematura del figlio. La sua Nmg si chiama così perché rappresenta, secondo Hamer, un’alternativa «germanica» alla medicina clinica ufficiale, che farebbe parte di una cospirazione ebraica per decimare i non ebrei. Nel 1986 un tribunale tedesco ha revocato ad Hamer la licenza per praticare la medicina, con una sentenza riconfermata nel 2003.
Il «metodo Hamer» si basa su 5 affermazioni principali, definite «leggi della biologia»: ogni malattia è causata da un conflitto; se c’è una risoluzione del conflitto, ogni malattia procede in due fasi, una con conflitto attivo e una di guarigione; esiste una correlazione tra psiche, cervello e organo malato dal punto di vista evoluzionistico; i microbi hanno un ruolo nell’evoluzione e sono in relazione con i tre foglietti embrionali da cui hanno origine gli organi; ogni malattia deve essere intesa come «programma biologico speciale della natura», creato per risolvere un conflitto biologico inatteso. Per lui, quindi, ogni malattia è causata da un conflitto di tipo psichico, e la guarigione di qualsiasi malattia passa attraverso la risoluzione di quel conflitto. «Dal punto di vista scientifico, le leggi della biologia di Hamer – si legge sul sito dell’Airc - non sono altro che invenzioni, in contrasto con quello che è noto e dimostrato sulla fisiologia umana».
da La Stampa
Repubblica 4.9.16
Lancet: in Gran Bretagna troppi morti da chemioterapia
Uno studio apparso su Lancet Oncology lancia l’allarme sulla nocività delle cure che in alcuni ospedali inglesi avrebbe provocato la morte del 50% dei pazienti
Ma gli oncologi dell’Aiom fanno chiarezza: “I dati dello studio mettono sotto accusa la sanità inglese, non la chemioterapia”.
di Irma D’Aria
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La Stampa 4.9.16
Terremoto, con le accise sui carburanti raccolto il doppio del necessario per le ricostruzioni
Lo sostiene la Cgia di Mestre: cinque gli incrementi introdotti in questi ultimi 48 anni
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il manifesto 4.9.16
Accumoli, il campanile killer restaurato dalla curia
Il campanile killer restaurato dalla curia. Ventotto gli interventi appaltati negli anni
Un unico geometra si è occupato di tutti i cantieri della diocesi
di Mario Di Vito
RIETI Quando nella notte del terremoto è venuto giù pure il campanile di Accumoli ha ucciso l’intera famiglia Tuccio: padre, madre e due figli.
«Non uccide il terremoto, uccide l’’uomo», aveva detto il vescovo Domenico Pompili durante i funerali delle vittime laziali del terremoto. A volte viene da chidersi di chi stesse parlando.
Il campanile di Accumoli era stato restaurato, insieme ad altri edifici religiosi della provincia di Rieti, grazie ai fondi intercettati dalla diocesi dopo il terremoto del 1997. La Curia aveva deciso anche di mettere in piedi un ufficio tecnico ad hoc, proprio per sbrigare tutte le pratiche e puntellare le varie chiese più o meno danneggiate nel cuore di una zona sismica nota: i lavori appaltati, negli anni, sono stati ventotto. L’uomo che si è occupato di tutti è sempre lo stesso, Mario Buzzi, geometra ormai in pensione, titolare della «Fe.Ma. Costruzione e rilievi». Lui era il rup (responsabile unico del provvedimento) di ogni cantiere aperto per conto della diocesi, e in alcuni casi era anche il geometra incaricato del progetto, spesso affiancato dai figli Matteo e Federica, entrambi ingegneri.
Il campanile crollato era stato restaurato in seguito a un appalto assegnato nel 2008 alla ditta Steta di Stefano Cricchi, che ha svolto diversi lavori anche ad Amatrice: 116mila euro in totale per sistemare l’intero complesso parrocchiale di Accumoli, aggiudicati con un ribasso del 16%. Nel progetto, però, per il miglioramento sismico erano stati stanziati appena 509 euro: 33 euro di ferro nella muratura («praticamente una sola sbarra», dice Cricchi) e una serie di buchi da riempire con la calce. I lavori durarono dal 22 maggio all’11 novembre, tra scarsissimi fondi a disposizione e una pila di prescrizioni della Sovrintendenza che non autorizza mai (qui come altrove) lavori troppo invasivi su beni ritenuti di un qualche interesse storico o artistico.
L’opera fu dunque di miglioramento, non di adeguamento: il distinguo che accompagna ogni dicussione sui lavori fatti tra le province di Ascoli e Rieti negli edifici poi abbattuti dal terremoto del 24 agosto. Infatti, per ora, mentre le inchieste vanno avanti a ritmo lento – senza indagati ma con una gran mole di documenti raccolti -, il regolamento di conti tra gli enti locali e le ditte incaricate di eseguire i vari lavori va in scena sulle cronache. I sindaci dicono che per chiarire la faccenda bisogna parlare con i costruttori, i costruttori rispondo che loro hanno sempre e solo eseguito alla lettera i piani partoriti dagli uffici tecnici dei comuni. Nessuno si sbottona troppo, tutti cercano le parole migliori per allontanarsi dai guai già in vista, gli avvocati lavorano sulla produzione di lunghe memorie, c’è chi presenta esposti, chi nega ogni coinvolgimento. Il fatto è che tutti si stanno preparando al momento in cui verranno ascoltati dagli investigatori e al momento successivo, quando arriveranno i primi indagati e si capirà dove vogliono andare a parare le procure, se cioè ritengono che il disastro colposo sia da addebitare alle istituzioni o alle imprese incaricate. Per ora si raccolgono carte a tutto campo, si studiano i bandi delle varie gare, le relazioni esecutive, le certificazioni, le foto che mostrano com’erano gli edifici prima di sgretolarsi.
Al momento, il pool guidato da Giuseppe Saieva a Rieti si sta concentrando su un mazzo da dodici imprese e cinquantasei professionisti. Il filone è doppio: uno riguarda gli appalti, le trattative e le eventuali omissioni per i lavori pubblici, l’altro è concentrato su chi avrebbe ricevuto contributi ma non li avrebbe spesi seguendo le prescrizioni dei progetti. Il totale è soltanto una stima: dal 1997 a oggi sulla provincia di Rieti sono piovuti fondi tra i 60 e i 90 milioni di euro, in varie tranche, divisi per una serie lunghissima di interventi pubblici e privati, nel tentativo evidente da parte dei sindaci di accontentare ogni richiesta.
Su eventuali conflitti d’interesse stanno lavorando il Ros e la guardia di finanza per conto dell’Anac di Raffaele Cantone: si incrociano date e nomi, partite Iva e bonifici bancari in una specie di pesca a strascico alla ricerca di personaggi ricorrenti e relazioni pericolose. Le indagini sono sempre all’inizio, dicono in procura, il lavoro è ancora estremamente lungo, le carte da esaminare migliaia. Ogni giorno che passa, però, il cerchio è sempre più stretto.
Corriere 4.9.16
L’emergenza migranti
Accordo governo-Anci sui profughi
Saranno distribuiti nei comuni
Tre immigrati ogni mille abitanti nei territori che accetteranno il piano. Martedì previsto l’incontro Alfano-Fassino per ratificare il piano
di Federico De Rosa
qui
Repubblica 4.9.16
Roma
Berdini: “In giunta mi sento isolato sul parere Anac eravamo 1 contro 8”
L’assessore all’urbanistica: per ora vado avanti ma sono scosso
Il disagio e l’ipotesi di un passo indietro. “Senza più la Raineri, Marra è tornato in prima fila”
di Andrea Carugati
«In giunta mi sento isolato, ma per ora non mollo. Sto lavorando a dossier a cui tengo molto, finché ci saranno le condizioni vado avanti». Sono giorni difficili per Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica e fiore all’occhiello della squadra di Virginia Raggi. E il professore, parlando con gli amici più stretti, non nasconde i dubbi e la delusione per un’esperienza di governo iniziata poco più di due mesi fa. I tumultuosi addii del collega Marcello Minenna, tecnico come lui, e della capo di gabinetto Carla Raineri, lo hanno scosso. Anche all’ultima riunione di giunta, venerdì, ha provato a far valere le sue ragioni, definendo «un errore di forma e di sostanza» la richiesta di parere all’Anac sulla nomina della Raineri. «Ma eravamo 8 contro uno, e quell’uno ero io», si sfoga Berdini, grande conoscitore del tessuto urbanistico della città e alle prese con dossier come il nuovo stadio, la Fiera, le Olimpiadi. Anche sui Giochi del 2024 è finito in minoranza. Le sue parole di apertura sono state bocciate dal direttorio del M5S.
Berdini però non si sente sotto sfratto. «Non possono mandarmi via, dopo Minenna sarebbe un altro colpo alla credibilità della giunta». Semmai potrebbe essere lui a fare un passo indietro. Infastidito dal protagonismo del “raggio magico”, a partire dal vice capo di gabinetto Raffaele Marra che dopo il siluramento della giudice Raineri «è tornato alla grande». E del resto pare che la sindaca stia resistendo al pressing dei vertici M5S per un ridimensionamento dell’ex collaboratore di Alemanno. In Campidoglio, ha raccontato Berdini agli amici, si respira una cappa pesante, lo spettro di un avviso di garanzia per l’assessore all’Ambiente Paola Muraro incombe e potrebbe essere un’altra scossa devastante. Domani si saprà qualcosa. «Aspetto di capire cosa succede», dice Berdini. «Vorrei lavorare fino a quando mi è possibile sulle cose che ho avviato».
Repubblica 4.9.16
Francesco ci ricorda che la terra nasce dal mare e dal fuoco
di Eugenio Scalfari
I MORTI, le rovine, i funerali, le polemiche, i progetti di ricostruzione, l’assistenza: tutto è stato ormai vissuto dalle vittime del terremoto avvenuto in Abruzzo, in Umbria, nel Lazio di Rieti, in quella fascia dell’Appennino già messa più volte alla prova. Ora tocca all’azione ricostruttiva. I talenti ci sono, ma insieme ad essi si ripresentano anche varie e assai diffuse forme di malaffare, contro le quali ci vorrebbe una mente, un’esperienza ed una onestà a tutta prova.
Ho letto la settimana scorsa un ampio articolo pubblicato dall’Osservatore Romano e scritto da Francesco Scoppola, per anni sovrintendente al ministero dei Beni culturali e in particolare proprio di quelle zone dove il recente terremoto si è scatenato. A persone come lui bisognerebbe affidare la progettazione della attuale fase: programma, persone capaci di attuarlo, fondi necessari. Mi auguro che anche il ministro competente lo abbia letto e ne tragga conclusioni adeguate.
Questo è il fare, ma c’è anche il pensare alla natura della quale facciamo tutti noi parte, subendone o provocandone gli effetti. È nostro nemico il terremoto, nostri nemici i vulcani, nostri nemici gli abissi che d’improvviso si spalancano sotto i nostri piedi?
La gente normalmente la pensa così ed è naturale che sia questa la reazione di fronte al frequente ripetersi di questi spaventosi fenomeni in un paese come il nostro dove le catastrofi geologiche sono frequenti e diffuse.
SEGUE A PAGINA 29
MA QUESTO fenomeno naturale, oltre alle camarille che ci mangiano sopra, mette in causa per i presenti anche Dio. Perché Dio non interviene, non impedisce eventi che causano sofferenze e morte a persone, vecchi, bambini, ricchi e poveri? Dio non c’è, ma solo una natura affidata al caso o al destino?
Monsignor Pompili, vescovo di Rieti, ha capovolto il problema, ha affermato pubblicamente nei giorni del dolore che terremoti e vulcani hanno costruito il mondo e non hanno prodotto il male; sono gli uomini che uccidono gli uomini con le loro opere imperfette e il loro malaffare.
La gente nella sua grande maggioranza è rimasta a dir poco stupita. Ma poi tre giorni fa ha parlato papa Francesco, la gente nei paesi distrutti aspetta che vada di persona a visitarli e confortarli. Francesco ha parlato ancor più chiaramente del vescovo. Ha detto: «Terremoti e vulcani hanno costruito il mondo e in particolare i luoghi emersi dalle acque. Invitiamo tutti ad un esame di coscienza al fine di confessare i nostri peccati contro il Creatore, contro il Creato, contro i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché quando maltrattiamo la natura maltrattiamo anche gli esseri umani e in particolare i più indifesi che sono i poveri».
Questo è il pensiero di Francesco, così come fu il pensiero del Santo di cui ha preso il nome. Il Creato è santo perché santo è il suo Creatore. Anche gli uomini, cioè la nostra specie, fanno parte del Creato, ma ad essi Dio ha donato la libertà di scegliere tra il bene e il male. Qui sta il punto che ci differenzia dal resto del Creato. Ma come e perché? E questo vale soltanto per il Dio dei cristiani o anche per le altre religioni? Il Dio è unico, pensa e dice Francesco. Ma le altre religioni sono d’accordo? E lo dimostrano e lo predicano come Francesco?
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In teoria tutte le religioni, soprattutto quelle monoteiste, non negano il Dio unico, anche se ne parlano il meno possibile. Ci sono tuttavia due differenze fondamentali rispetto alla Chiesa cattolica ed anche alle altre Chiese cristiane: né gli ebrei né i musulmani hanno alla loro testa un Papa, un Patriarca o comunque si chiami un religioso che tutti li rappresenta. Ci sono dei rabbini più autorevoli di altri e così pure degli imam che si distinguono per il loro sapere e per il numero dei loro seguaci, ma un Papa non c’è. E questa è la prima differenza.
La seconda però è ancora più importante e riguarda soltanto i musulmani. Molti Stati in cui sono divisi sono tutti teocratici, cioè il potere politico e quindi anche quello religioso sono nelle mani di un religioso e questo crea grandi differenze rispetto al resto del mondo.
Bernardo Valli, nella sua rubrica di oggi sull’Espresso, dedica proprio a questo tema le sue riflessioni. L’articolo è intitolato “Come si dice laicità in arabo”, e scrive così: «La Medina di Maometto non è stata cancellata dalle coscienze. Ha contribuito ad alimentare le fantasie e le passioni e rimane ancora un estremo rifugio nelle disgrazie. Il ritorno alla Medina di Maometto è il rimedio a tutti i mali del secolo, a tutte le umiliazioni subite. E può anche essere una fonte di fanatismo come dimostra lo Stato islamico».
La teocrazia ha immobilizzato l’Islam. E diviso in molte diverse sette, gli sciiti, i sunniti, i wahabiti e molte altre, ma il laicismo non c’è e se qualche famiglia islamica che vive all’estero lo pratica viene espulsa dalla comunità e a volte addirittura uccisa, oppure è mobilitato il padre che fa giustizia dei figli che hanno tradito il potere religioso e le sue leggi.
Riusciranno mai i musulmani ad acquisire il laicismo senza con questo rinunciare alla loro religione? Di fatto ciò significherebbe rinunciare alla teocrazia. Valli spera di sì e forse ha ragione ma ci vorranno secoli. Del resto la Chiesa cattolica ha impiegato secoli a rigettare il potere temporale, che è una forma sia pure moderata di teocrazia. Papa Francesco combatte ancora questa battaglia ed è ancora lontano dall’averla vinta.
L’ostacolo maggiore che Francesco incontra è il contrasto che ancora lo divide tra la verità assoluta e il relativismo laico. Questi due modi di considerare la verità sono inconciliabili e questo è un ostacolo apparentemente insuperabile per quell’incontro con la modernità che è uno dei precetti più importanti del Vaticano II. Francesco vuole attuarlo ed è per questo che cerca di trovare una soluzione.
In alcune nostre conversazioni ho avuto la sensazione che abbia trovato il bandolo per sciogliere la matassa. Mi ha avvertito qualche tempo fa, ma adesso mi sembra che su quel bandolo sia all’opera e me ne rallegro.
La nostra verità — dice Francesco — è assoluta perché Dio è assoluto. Questo principio non è superabile e marca la nostra differenza con i non credenti. Ma il nostro assoluto è percepito da ogni persona religiosa a suo modo. Le persone non sono cloni. Ciascuno crede alla verità assoluta ma a suo modo. Quindi la verità assoluta è la mia, è la tua, è quella che molti vescovi hanno, per esempio sulla famiglia, una verità che non è la stessa di altri vescovi e così su molte altre cose. Sono differenze che arricchiscono e mi permetto di aggiungere che arricchiscono il mondo cattolico ma anche il mondo laico e non credente.
Su tutto questo domina il dubbio. Il quale non preclude l’azione, ma mantiene la vigilanza critica. Questo è l’umanesimo.
Repubblica 4.9.16
La tendenza
Dal western sull’Apocalisse al Vangelo secondo Delbono la religione conquista il Lido
di Arianna Finos
VENEZIA NEL MOMENTO in cui le nostre società sono messe sotto attacco dall’interpretazione più fanatica dell’Islam l’uomo occidentale torna interrogarsi sul suo Dio e lo fa anche attraverso il cinema presentato alla Mostra.
The Young Pope compreso, visto che Sorrentino considera la serie un film in dieci puntate.
È suddiviso in quattro capitoli biblici (Apocalisse, Esodo, Genesi e Castigo) il disturbante western Brimstone, in concorso. Firmato dall’olandese Martin Koolhoven, il film affronta il tema delle derive del fondamentalismo religioso. Il Predicatore (un ripugnante Guy Pierce che omaggia il Robert Mitchum di La morte corre sul fiume) guida la chiesa riformata olandese in America e gestisce la Bibbia come strumento di sopraffazione verso le donne («un po’ come succede oggi», sottolinea il regista ) piegandone i precetti al servizio della sua depravazione.
Racconta una Via Crucis moderna El Cristo ciego del cileno Cristopher Murray, il cui giovane protagonista, convinto di avere Dio dentro di sé tanto da farsi inchiodare le mani a un albero, compie un viaggio alla ricerca della fede più pura: «Mi sono ispirato a storie vere apprese durante i miei studi di teologia e che faccio raccontare alla gente dal protagonista», spiega il regista trentenne.
Ha scelto la chiave della commedia sofisticata e ottimista Rama Burshtein, cineasta convertita all’ebraismo da dodici anni che due anni fa ci ha fatto entrare nella comunità hassidica con
La sposa promessa. In Un appuntamento per la sposa stavolta una giovane donna, lasciata dal fidanzato a un mese dalle nozze, decide di non spostare la data, certa che nel frattempo Dio le manderà un altro sposo.
Il tema della religione forma quasi una sezione a sé tra i film italiani sparsi nelle varie sezioni. A Orizzonti è stato presentato Liberami, il docufilm di Federica Di Giacomo, un viaggio in Sicilia tra i riti di liberazione dal Maligno. Per la regista «l’esorcismo si è rivelato una straordinaria chiave di accesso alla contemporaneità». È una genesi molto personale quella di Vangelo di Pippo Delbono, la cui madre in punto di morte gli ha chiesto di raccontare una storia d’amore sulla vita di Gesù. Dopo essersi chiesto «come posso portare in scena la parola di Cristo, se non sono credente?», il regista ha scelto un approccio toccante e scomodo, realizzando uno spettacolo teatrale e poi un film girato nel centro per immigrati di Asti. Da attore Delbono interpreta il carismatico capo dei Testimoni di Geova, dispiaciuto ma inflessibile applicatore delle ferre regole della comunità in La ragazza del mondo di Marco Danieli. Non un film di denuncia ma un viaggio in una comunità, quella italiana, che è la seconda in Europa per grandezza. Racconta il percorso interiore di una giovane testimone che s’innamora di un “ragazzo del mondo”, cioè non credente, rischiando l’espulsione e il disconoscimento di familiari e amici.
È invece ambientato tra le chiese pentecostali di Castel Volturno Indivisibili di Edoardo De Angelis: «I nigeriani qui sono metà della popolazione. C’è chi lascia piccole attività per improvvisarsi predicatore, approfittando di debolezze e speranze di una umanità marginale. C’è anche qualche predicatore italiano, cui mi sono ispirato per il mio prete cattolico che sfrutta il vizio della speranza».