domenica 4 settembre 2016

CULTURA

Corriere La Lettura 4.9.16
La turbo-radicalizzazione
Il terrorismo pesca nelle aree del disagio psichico e psicologico. Anche con indottrinamenti lampo
La forza dell’Isis è quella di arruolare chiunque, non come Al Qaeda Così il Califfato agisce sulle menti più fragili e instabili
«Dà una ragione per morire a chi non trova ragioni per vivere
di Francesca Ronchin


Ragazzi come il solitario Ali Sonboli, il diciottenne tedesco-iraniano che il 24 luglio, in un centro commerciale di Monaco, ha fatto fuori nove coetanei prima di spararsi un colpo in testa, il dottor André Taubert ne vede tutti i giorni. A capo dell’Unità contro la radicalizzazione a sfondo religioso di Amburgo, Taubert è un pioniere della consulenza sistemica per ragazzi sulla strada del jihad. In poche parole, combatte il Califfato parlando con le famiglie convinto che nell’80% dei casi i terroristi siano semplicemente persone con problemi. E che la religione c’entri poco.
Al momento ha sottomano una cinquantina di casi, 150 nel 2015, quasi tutti poco più che adolescenti e già in contatto con qualche militante dell’Isis, «solitamente il venerdì, fuori dalla moschea», racconta Taubert. «La fase più pericolosa è quando iniziano a isolarsi dai parenti e dagli amici di sempre. Sono loro che ci chiedono di intervenire». Anche Mohamed Daleel, rifugiato siriano di 27 anni arrivato in Germania nel 2014, che si è fatto esplodere vicino a un concerto ad Ansbach, poteva essere uno dei suoi ragazzi. In un’intervista del 2013 all’emittente bulgara Bnt, Daleel aveva detto di non nutrire nessuna speranza in un futuro migliore: vuole restare in Germania, ma la domanda di asilo viene bocciata; tenta più volte il suicidio; viene ricoverato in una clinica psichiatrica; a causa di questa instabilità mentale il provvedimento di espulsione non viene applicato. In un video prima dell’attentato Daleel giustifica l’aggressione come una risposta ai crimini commessi dalla coalizione internazionale in Siria.
Anche Sonboli aveva avuto problemi psichiatrici, due mesi di ricovero per depressione e dipendenza da videogiochi. Vittima di bullismo a scuola, affascinato dagli omicidi di massa, su Facebook scrive messaggi offensivi verso i compagni di scuola fino all’ultima sanguinosa vendetta. Uno nato a Monaco, famiglia apparentemente integrata. L’altro arrivato dopo aver perso tutto, la moglie e il lavoro. Due storie diverse accomunate da rabbia e senso di esclusione, secondo Taubert elementi molto comuni, compresa la fragilità mentale. «Sono convinto che se venissero diagnosticati almeno la metà dei ragazzi che seguo rientrerebbe in un quadro di depressione, disturbo borderline o di autismo». E quando sotto c’è un problema di questo tipo, la radicalizzazione è ancora più rapida, tanto che si parla di turbo-radicalization .
Come nel caso di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza che avrebbe deciso di diventare un terrorista nel giro di tredici giorni: 31 anni, tunisino, in libertà vigilata dal 27 gennaio per aver scagliato contro una persona una paletta di legno in seguito a un incidente stradale, Boulhel non era un musulmano convinto, beveva alcol, mangiava maiale, aveva una vita sessuale sfrenata e secondo l’avvocato dell’ex moglie era un violento e narcisista. La cronologia del suo pc racconta di lunghe visite a siti porno sostituiti, negli ultimi tempi, dalle decapitazioni degli islamisti e dal video dell’attentato di Orlando. Dalla sua casa a M’saken, Tunisia, il padre racconta ai media che si era rivolto a uno psichiatra già quando Bouhlel, a 19 anni, chiuse i genitori fuori casa. Il dottor Chemceddine Hamouda, che lo ebbe in cura, spiega che Mohamed «soffriva di disturbi psichiatrici seri, di tipo psicotico, aveva problemi con il suo corpo e che l’attentato è il mix esplosivo di indottrinamento e personalità disturbata», eventualità non così rara a giudicare anche dai dati di uno studio della polizia inglese, secondo il quale, su 500 giovani che hanno sposato la causa dell’Isis, oltre il 44% avrebbe un problema di tipo mentale o psicologico accertato.
«Se la domanda è se siamo di fronte a gente disturbata o a jihadisti convinti», per Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism Center della George Washington University, «la questione è soprattutto politica. Puntare i riflettori sulla malattia mentale può aiutare a sminuire il problema dell’ideologia islamista. In certi Paesi, come l’America, fa comodo». Non in Francia. «La Francia è un Paese in guerra — continua Vidino — e non si può certo dichiarare guerra a un gruppo di pazzi».
In America, prima di scagliarsi contro 52 ragazzi di un locale gay di Orlando, Omar Mateen chiama il 911 e dichiara fedeltà al Califfo. I giorni successivi però i titoli dei giornali sono tutti sulla sua presunta omosessualità e più che i suoi rapporti con l’Isis preferiscono indagare quelli con il padre, immigrato dall’Afghanistan, conduttore di un talk show filotalebano su YouTube, che nel condannare la strage spiega che «non spettava a suo figlio punire i gay, ma a Dio».
Secondo Marco Lombardi, docente di Sociologia presso l’Università Cattolica di Milano e responsabile dell’Italian team for security, terroristic issues and managing emergencies, «la forza dell’Isis è quella di richiamare una quantità di profili più ampia rispetto alle organizzazioni del passato dove, dalle Brigate rosse ad Al Qaeda, c’era una selezione che escludeva i “pazzi” in quanto incontrollabili. Isis invece non fa differenze, rivendica qualunque attentato e dà una buona motivazione a tutti, da chi insegue l’avventura a chi è arrabbiato con il mondo, a chi pensa al suicidio e cerca un motivo in più per farlo. Non solo. Per rifarsi della perdita di avamposti in Siria e in Libia, Isis starebbe puntando molto sui soggetti mentalmente fragili perché sono i più facili da mobilitare e ben si inseriscono nella strategia dei mille tagli, quella di tanti piccoli attentati, anche improvvisati, con cui stremare il nemico direttamente in casa». Secondo Lombardi le persone con problemi mentali sarebbero il 20% dei militanti jihadisti. Non pochi, «perché per un alienato che non ha nulla da perdere, scoprire un’identità, il non sentirsi più solo e perfino ottenere la gloria, sono obiettivi facili. Tutto questo è fantastico per lui».
Non è un caso che nei video di propaganda del Califfo ad uso interno non vi siano decapitazioni, ma scene serene di vita comune, uomini sorridenti che dopo aver lustrato le armi regalano profumi alle mogli. Il clima è quello di una grande famiglia tipica delle società socio-centriche di Africa e Medio Oriente, così lontane dalle case mononucleari dell’ego-centrica Europa. Proprio desiderio di appartenenza e socializzazione sarebbero la chiave, specialmente quando a radicalizzarsi è un adolescente. «Quando un adolescente si radicalizza, i familiari pensano che l’Isis gli abbia fatto il lavaggio del cervello e il dialogo si interrompe. Quando poi capiscono che il problema è un altro, e che anziché litigare sull’ideologia è meglio trovare il tempo per cenare insieme, qualcosa inizia a cambiare. È fondamentale spezzare l’isolamento in cui questi ragazzi tendono a sprofondare fino a giustificare la frattura tra loro e il resto del mondo con l’essere buoni musulmani o meno». Fino a farsi giustizia da soli.
Nell’ultimo anno, in Germania, il grido di «Allah Akbar» ha accompagnato una decina di aggressioni sui treni. In alcuni casi c’era un legame con l’Isis, come nella vicenda di Sofia, quindicenne marocchina che dopo aver ricevuto l’ordine via chat, esce di casa e pugnala un poliziotto. Di altri emerge più che altro l’instabilità mentale, come nel caso di Paul H., disoccupato tedesco che aggredisce con un coltello i passeggeri nella stazione dei treni di Grafing. Un morto, tre feriti e per Paul il ricovero diretto in clinica psichiatrica. «Il nesso tra malattia mentale e violenza — spiega Massimo Biondi, responsabile del reparto di Psichiatria presso il Policlinico Umberto I di Roma — è molto debole. Senz’altro esiste un 3% di persone con disturbi mentali che mostra comportamenti aggressivi e antisociali, ma questo è vero anche nel resto della popolazione. Certo è che così come i sadici trovavano espressione nel nazismo e come certi ultrà sono persone che amano fare a botte, oggi l’islam radicale offre a tutti un buon motivo per attuare le proprie pulsioni violente. Con in più la forza del richiamo identitario verso la religione delle origini».
Proprio la seconda e la terza generazione di migranti risentirebbero maggiormente dell’identità perduta e sarebbero, per l’Isis, il principale bacino di reclutamento. «Chi migra per primo incassa la difficoltà di adattamento e di integrazione — spiega Lombardi — mentre i figli vivono la fase della mediazione e fanno di tutto per realizzare il sogno dei padri . La terza generazione invece deve fare i conti con la disillusione».
Secondo il professor Dinesh Bhugra, esperto di migrazioni e salute mentale presso il King’s College di Londra, proprio la terza generazione presenta anche la più alta incidenza di malattie mentali, in particolare psicosi, come nel caso dei turchi in Germania, 7-12 volte più a rischio dei primi arrivati. Rispetto alla popolazione ospitante però, anche la prima generazione migrante presenterebbe più casi di schizofrenia, in particolare quando proviene da Africa e Medio Oriente. Lo stesso disturbo d’adattamento, forma minore di depressione tipica di chi migra, vedrebbe un’alta correlazione con la tendenza al suicidio. Dati che peggiorano quando si ha un passato di guerra e violenza. Dopo l’attentato del kamikaze siriano ad Ansbach e quello su un treno a Würzburg, dove un richiedente asilo dell’Afghanistan di 17 anni si è scagliato con ascia e coltello contro quattro passeggeri, l’Europa si è svegliata con un nervo scoperto: migliaia di rifugiati psicologicamente provati e potenzialmente pericolosi, «specialmente i minori non accompagnati — ha spiegato Julia Reinelt, responsabile del Violence Prevention Network di Berlino —. Non sappiamo ancora molto sui legami tra salute mentale e radicalizzazione, però molti di quelli che arrivano simpatizzano per le stesse persone da cui fuggono. Sembra assurdo eppure solitudine, difficoltà di adattamento e sofferenze psicologiche possono fare brutti scherzi».
Secondo uno studio della Camera federale tedesca degli psicoterapeuti, almeno la metà dei rifugiati soffre di un disturbo mentale. Soprattutto disturbo post-traumatico da stress, curato solo nel 4% dei casi, e depressione.
Mentre in Germania molti ospedali distribuiscono brochure antistress dove si consigliano cubetti di ghiaccio sulla pelle e di monitorare il proprio umore su un diario giornaliero, in Italia, proprio sul sito del «Corriere» ( Migranti sotto stress ), già a marzo molti psichiatri confermavano le statistiche tedesche. Dalla sindrome di Dublino (chi è costretto a restare in un Paese dove non vuole restare, condizione prevista dagli accordi di Dublino) a quella di Ulisse (sentirsi «nessuno» in un territorio straniero), variazione estrema del lutto migratorio, il ventaglio di stress e sofferenze è ampio e peggiorato dall’assenza di una rete sociale di contenimento e da un sistema di accoglienza emergenziale.
«Migrare corrisponde a sette tipi di lutto — spiega lo psichiatra Joseba Achotegui che ha scoperto la sindrome di Ulisse — famiglia, lingua, cultura, cibo… Chi migra porta con sé una vulnerabilità molto specifica che, se non viene intercettata, rappresenta un alto fattore di rischio per ulteriori forme di disagio». «Anche se gli studi sono ancora pochi — spiega Patrick James, del National Consortium for the Study on Terrorism, finanziato dal governo Usa — quando l’ideologia radicale fa presa su una mente fragile, il rischio di emulazione e violenza è maggiore». Di certo, mentre proseguono le indagini su come fattori psicologici incrociano variabili socio-ambientali, per ora la connessione tra sofferenza mentale e violenza, il Califfato sembra averla capita meglio di chiunque altro.

Corriere La Lettura 4.9.16
C’era anche Annibale l’11 settembre?
Quindici anni dopo le Torri Gemelle, Affinati aggiorna il volume pubblicato nel decennale per spiegare ai ragazzi romani della sua scuola (che confondevano Bin Laden con le guerre puniche) che cos’era successo. Mentre i giovani afghani di terrorismo ne sapevano fin trop
di Eraldo Affinati


Cinque anni fa, quando mi accinsi a scrivere L’11 settembre di Eddy il ribelle per raccontare ai nostri adolescenti la tragedia delle Twin Towers, insegnavo alla Città dei Ragazzi di Roma e molti miei studenti, minorenni afghani, lottavano contro i brutti ricordi. Difficile dimenticare i racconti di Mohamed, i cui genitori erano morti sotto le bombe di Mazar-i-Sharif. Dopo aver letto Rosso Malpelo di Giovanni Verga, nel punto in cui il bambino scava con le unghie insanguinate dentro la miniera di zolfo cercando il corpo del padre travolto dal pilastro, certe immagini erano tornate a riaffacciarsi. Impossibile scacciare dalla mente anche la cicatrice che Ismail aveva sull’avambraccio: una linea biancastra sottilmente attorcigliata sulla pelle scura che lasciava intendere quasi più dello sguardo serio e concentrato di chi me la mostrava.
I compagni di classe italiani, provenienti dalle borgate nei pressi della famosa comunità educativa, cresciuti nel marasma urbano di Ponte Galeria, nella vertigine in cemento armato di Corviale, nei casamenti desolati lungo i fossi delle marrane alla Maglianella, invece, di fatto ignoravano quanto accaduto a New York nel 2001; oppure ne possedevano un’immagine talmente incerta da poterla confondere con le guerre puniche che io cercavo di schematizzare alla lavagna. Forse pochi anni prima, alle scuole medie, qualche professoressa di buona volontà aveva proiettato in classe i filmati dei Boeing che si schiantano contro il World Trade Center, ma se chiedevi lumi in proposito rischiavi di sentirti riassumere le regole d’ingaggio di una partita interstellare da giocarsi alla PlayStation. Così la situazione diventava paradossale: mentre Alì e Hafiz, scampati alla violenza talebana, del terrorismo ne sapevano più di me e lo tenevano a distanza come fosse uno spettro minaccioso, per Valerio e Romoletto la data dell’11 settembre richiamava alla memoria soltanto lo sventurato inizio dell’anno scolastico.
La cosa più strana era che i primi, ancora traumatizzati, si tenevano tutto per sé, quasi fosse un segreto personale e non un evento collettivo, e i secondi, annichiliti dall’atrofia spirituale che i loro genitori gli avevano introiettato, non domandavano di più. La scelta dell’ambientazione fantascientifica era quindi legata al tentativo, consapevolmente velleitario, di trovare una chiave che potesse attirare il pubblico più giovane, anche perché i miei allievi, dal momento in cui gli confidai la decisione presa, collaborarono all’ideazione tematica dandomi consigli preziosi durante la stesura del testo.
Eddy, il protagonista, è un ragazzo ribelle che vive nel pianeta Fulgor. S’intrufola nei database degli insegnanti. Stacca gli spinotti dei compagni più bravi. Inclina sui crateri di Capo Fox con una vecchia Hornet. Bacia le macchine amorose. Insomma si tratta del classico ripetente, al quale un paio d’anni dopo la composizione del racconto, avrei dedicato un apposito elogio. Quando il preside lo sospende, lui per protesta scappa dal suo pianeta a bordo di un’astronave insieme a Matuzalem, l’amico più caro. Per molti ragazzi occidentali di oggi i miti delle generazioni trascorse non sono più tali: la politica assomiglia a un confronto inconcludente fra adulti rancorosi pronti a offendersi col sorriso radioso, salvo riconciliarsi subito dopo; lo scontro generazionale è sconosciuto, dal momento che il nemico, in senso lato, risulta assente e può rinascere solo dentro di loro. L’unico sentimento in cui i nostri figli sembrano continuare a credere è l’amicizia, vera o presunta, che infatti quando viene tradita deve essere vendicata.
Eddy e Matuzalem, così diversi da risultare complementari, uno istintivo, l’altro assai più riflessivo, vivono insieme una grande avventura che il giorno fatale li porta sui cieli di New York. Da lassù saranno testimoni dell’attacco alle Torri. Quando Matuzalem scompare, Eddy scende sulla Terra per ritrovarlo. Solo una ragazza di Brooklyn, Nadine Do Nascimiento, crede in ciò che egli dice. Eddy prima s’innamora di lei, poi vola in Afghanistan dove, nella speranza di raggiungere il vecchio compagno, si unisce ai nuovi profughi insieme ai quali arriva in Italia. Per il giovane alieno la Terra è un pianeta assurdo, dove gli uomini si uccidono senza ragioni plausibili. Tuttavia nel cammino compiuto insieme ai migranti il ragazzo conosce la povertà, sperimenta la miseria, prova il dolore. È come se riparlasse con lo spirito dell’amico scomparso.
Per scrivere L’11 settembre di Eddy il ribelle sono andato sul posto: non solo a Ground Zero, ma anche sulla tomba di Herman Melville, nel cimitero di Woodlawn. L’autore di Moby Dick , suprema riflessione sul male umano, morì il 28 settembre 1891, 110 anni prima dell’11 settembre 2001. Magia dei numeri. Nell’ultima parte del libro compaiono anche le scuole Penny Wirton, che io e mia moglie Anna Luce Lenzi abbiamo fondato allo scopo di insegnare la lingua italiana agli immigrati. A conti fatti, l’aula scolastica, intesa come crocevia del confronto fra coetanei di estrazione diversa, secondo l’auspicio di Malala Yousafzai, bambina al tempo in cui gli aerei si schiantarono sui grattacieli di Manhattan, può rappresentare una concreta risposta alla stagione del terrore inaugurata quindici anni fa.

Corriere La Lettura 4.9.16
Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo
Atomi scissi destini spezzatI
di Stefano Gattei


Due vite divise, «spezzate» da scelte irreversibili, quelle di Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo. Membri del gruppo di ricerca che portò nel 1934 alla scoperta delle proprietà dei neutroni lenti (primo passo verso la bomba atomica), per uno scherzo del destino sono entrambi assenti dalla celebre foto che ritrae i «ragazzi di via Panisperna» insieme a Enrico Fermi nel cortile dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma. Majorana fa perdere le sue tracce nel 1938. A nulla portano le ricerche, volute da Mussolini; Sciascia ipotizza un ritiro in monastero; altri lo identificano con un clochard esperto di scienze; altri ancora suggeriscono una fuga nella Germania nazista. I più pensano al suicidio, seguendo una delle poche tracce, lasciata forse proprio per sviare le ricerche. Ora l’indagine scrupolosa di Giuseppe Borello, Lorenzo Giroffi e Andrea Sceresini La seconda vita di Majorana (Chiarelettere, pp. 186, e 16,90) mostra come il fisico abbia trascorso la seconda parte della vita in Sudamerica, tra Argentina e Venezuela, da anonimo «sig. Bini». La prima parte della vita di Pontecorvo termina invece nel 1950, durante una vacanza. Ricompare nel 1955 in Unione Sovietica: Bruno Maksimovičc Pontekorvo è il massimo esperto delle particelle più elusive della fisica, i neutrini, e i suoi studi gettano le basi per ricerche che porteranno ad almeno tre premi Nobel. Morirà nel 1993 a Dubna, la «città della fisica» russa, dopo aver ripreso i contatti con l’Occidente. Racconta la sua storia, densa di punti oscuri, Frank Close nel bellissimo Una vita divisa (traduzione di Giorgio P. Panini, Einaudi, pp. 423, e 35). Due «linee di universo» complesse, quelle di Pontecorvo e Majorana: per un breve tratto sovrapposte, poi divise per sempre, segnate da scelte estreme dettate dall’intreccio novecentesco di scienza e politica.

Corriere La Lettura 4.9.16
Utopia o Distopia , i due volti di Thomas More (1478-1535)
Pro
L’apertura alla libertà religiosa e lo sforzo di limitare la violenza
Attenzione al contesto
Alcune esasperazioni collettiviste vanno lette in controluce rispetto alla brutalità e alle ingiustizie della società del tempo
di Marco Rizzi


Cinque secoli fa, nel 1516, usciva la prima edizione dell’ Utopia del filosofo inglese Thomas More (1478-1535): un testo in latino nel quale l’autore descriveva una società ideale. More (detto in Italia Tommaso Moro) fu lord cancelliere del re Enrico VIII, ma poi rifiutò l’atto di supremazia della monarchia inglese sulla Chiesa cattolica e venne decapitato. Il Papa Pio XI lo canonizzò nel 1935

Quando nel 1516 apparve la prima edizione dell’ Utopia di Thomas More, l’Europa era alla vigilia del profondo rivolgimento che l’anno successivo sarebbe stato innescato dall’affissione delle tesi di Lutero. Già da tempo, però, il tema della riforma della Chiesa era all’ordine del giorno nel dibattito dei circoli umanistici di cui More, amico e corrispondente di Erasmo da Rotterdam, che gli dedicherà l’ Elogio della follia , era esponente di spicco. Non stupisce che la descrizione dell’isola di Utopia e delle sue sagge istituzioni da parte di Raffaele Itlodeo, l’immaginario interlocutore di More, si concluda con una lunga sezione sui costumi religiosi degli abitanti.
Gli utopiani praticano una grande varietà di culti, a seconda delle città presenti sull’isola: dalla venerazione degli astri a quella dei grandi uomini del passato, infine a concezioni più spirituali. Tutti, però, concordano sull’esistenza di un essere supremo, creatore del mondo e artefice della provvidenza che lo guida, chiamato nella lingua locale Mitra, pur dissentendo sulla sua precisa identificazione. Le celebrazioni si svolgono in edifici maestosi, ma abbastanza oscuri, in modo che la debole illuminazione favorisca il raccoglimento e la preghiera. I riti sono organizzati in modo da consentire la partecipazione degli appartenenti a ciascuna delle fedi presenti sull’isola, accomunate nel culto del supremo essere divino. Per questo non vi sono immagini nei templi di Utopia, ma ciascuno può soddisfare in forma privata tra le mura domestiche le esigenze particolari del proprio credo.
La grande varietà religiosa si combina con un principio inderogabile, stabilito dal fondatore dell’isola, Utopo: ciascuno può seguire la religione che meglio crede; il proselitismo è ammesso, ma solo a condizione che avvenga per via di convinzione, senza violenze verbali o materiali; chi suscita controversie di carattere religioso viene punito con l’esilio o con la riduzione in schiavitù (pratica che ai tempi di Moro era l’unica alternativa alla pena di morte per ladri e vagabondi). In questo modo, Utopo agiva a vantaggio della stessa religione, perché non si può essere certi che la varietà dei culti non sia stata voluta dalla somma divinità per soccorrere il debole intelletto umano. La religione migliore, ammesso che ne esista una, potrà imporsi con l’evidenza della sua verità; al contrario, se affidasse alle armi il suo destino, ne uscirebbe sicuramente sconfitta, dato che i peggiori sono anche più ostinati e pervicaci. Persino chi nega l’immortalità dell’anima e la provvidenza, quindi l’esistenza di premi e punizioni nell’aldilà, viene tollerato, anche se risulta escluso dalle funzioni pubbliche, in quanto interessato solo alla vita materiale ed esposto alla cupidigia che induce a violare il divieto di proprietà privata alla base della società di Utopia.
Una sottile ambiguità percorre l’intero testo di More, che quando parla in prima persona mostra più di un dubbio sulla praticabilità di quanto racconta Itlodeo (che poi vuol dire qualcosa come «chiacchierone»). In realtà, alcune esasperazioni collettiviste vanno lette in controluce, rispetto alla violenza e all’avidità della società del tempo. E però il modello religioso proposto dall’Utopia, fatto di tolleranza e fiducia nella ragione dell’uomo, coincide con quello della tradizione umanistica di More e di Erasmo, che vedeva nel monoteismo provvidenzialista la concezione teologica originaria alla base di tutte le esperienze religiose autentiche, culminanti nel cristianesimo. L’interesse, se non l’entusiasmo, manifestato dagli utopiani per quest’ultimo, però, non si fonda sulla dimensione intellettuale, quanto invece sulla vita comune praticata da Cristo e dai suoi discepoli e — chiosa Itlodeo-More — «ancora si pratica presso le più genuine associazioni cristiane» quali erano, ad esempio, i «fratelli della vita comune» cui anche Erasmo era legato.
Pure per un intellettuale come More, il tratto decisivo dell’esperienza cristiana passa dalla vita concreta, anche senza inseguire l’utopia comunisteggiante. Messo alle strette dal re d’Inghilterra Enrico VIII, More accetterà di morire per non sacrificare la sua coscienza religiosa all’opportunismo politico.

Corriere La Lettura 4.9.16
Utopia o Distopia , i due volti di Thomas More (1478-1535)
Contro
Tutto pubblico e nulla privato Ecco il germe del totalitarismo
Comunismo ante litteram
Anticipa due forme di controllo dell’individuo in auge nel sistema sovietico: l’incentivo alla delazione e il passaporto interno
di Luciano Pellicani


Il principio fondamentale della «miglior forma di società» che Thomas More disegnò in Utopia , nella quale «di privato non c’era nulla», era che «tutto era di tutti». Conseguentemente, nell’isola di Utopia erano assenti sia la proprietà privata che il denaro: due istituzioni che, a giudizio di More, rendevano impossibile realizzare la giustizia e perseguire il bene comune. Ed era ugualmente assente lo Stato, stigmatizzato come «una cospirazione di persone doviziose che non facevano che occuparsi dei propri interessi e che immaginavano e inventavano ogni arte e maniera per conservare anzitutto, senza tema di perderlo, ciò che avevano accumulato disonestamente e, in secondo luogo, per serbare per sé, e al prezzo più basso, e volgendolo al proprio utile, quanto tutti i poveri avevano prodotto con la loro fatica».
Per contro, in Utopia non esisteva la divisione classista tra i ricchi e i poveri, fra la sfacciata opulenza dei nobili e la squallida misera della plebe. E ciò accadeva poiché tutti avevano un impiego utile e tutti godevano direttamente dei frutti del proprio lavoro quotidiano nei campi. Il che faceva di Utopia «un’unica famiglia» cementata dalla massima solidarietà e priva di distinzioni di classe, «essendo i beni egualmente divisi fra tutti».
Con una vistosa e inquietante eccezione, però. Infatti nella «migliore forma di società» immaginata da More esisteva la schiavitù! Le cose procedevano in questo modo. Coloro che commettevano una colpa particolarmente grave erano condannati ai lavori forzati e chi «si rifiutava o lavorava stancamente non era punito con i ferri ma stimolato dalle sferzate». Coloro, invece, «che si davano molto da fare non erano maltrattati e soltanto di notte, dopo un appello nominale, venivano chiusi in dormitori e la loro vita veniva rattristata solo dalla incessante fatica». La Legge utopiana prevedeva, inoltre, che «quando un privato aveva bisogno di operai andava in piazza a prelevare uno schiavo»; e prevedeva anche che «era consentito usare la sferza onde punire l’infingardaggine servile». In aggiunta, ogni regione era tenuta a marchiare gli schiavi «con un proprio contrassegno di cui era delitto liberarsi, pur come il lasciarsi cogliere fuori dal loro territorio o a confabulare con schiavi di altra regione». La schiavitù, dunque, in Utopia , aveva una duplice funzione: era uno strumento per punire i trasgressori delle leggi e, nello stesso tempo, esonerava i cittadini dallo svolgimento dei «servizi più bassi e faticosi».
Ma anche i cittadini di Utopia erano sottoposti a un occhiuto controllo che riduceva ai minimi termini la loro libertà. È vero che la Legge tollerava la pluralità delle religioni e che era tenuta in grande considerazione la «libertà dello spirito e della cultura»; ma è vero anche che «quando qualcuno veniva preso dal desiderio di vedere amici che abitavano in un’altra città o anche nella città stessa, ne otteneva il permesso senza alcuna difficoltà dai sifogranti o dai tranibori. Il gruppo dei viaggiatori così si allontanava portando con sé una lettera del Principe che attestava la concessione del permesso e fissava anche la data del ritorno... Chi usciva senza permesso dai confini del proprio territorio, qualora venisse sorpreso senza il rescritto del Principe, veniva trattato in modo disonorevole, ricondotto nel proprio paese come un fuggitivo e punito severamente; se poi ripeteva questo reato, era castigato con la schiavitù... e non gli si veniva dato cibo prima che avesse assolto alla sua quantità di lavoro». C’è di più. C’è che il sistema utopiano prevedeva severissime sanzioni per chi tentava la fuga, «la morte per il servo, la servitù per il libero». E prevedeva un premio per i delatori.
Come si vede, More, in nome della eguaglianza e della giustizia sociale, ha anticipato due istituzioni che diventeranno centrali nel sistema sovietico: l’incoraggiamento della delazione e il passaporto interno, entrambi essenziali per tenere sotto controllo i sudditi. E More ha anche anticipato quello che fu il cardine del totalitarismo comunista: il principio secondo il quale «tutto è pubblico e nulla è privato» (Lenin). Così il sogno dell’Utopia divenne l’incubo della Distopia.

Il Fatto 4.9.16
Controstoria dell’arte
Mille anni fa quella occidentale inseguiva
l’ideale bizantino: i volumi sono imperfezioni. Poi arrivò la matematica
Le tesi degli iconoclasti Nella mente divina non c’è prospettiva, tipica della nostra percezione imperfetta del mondo
Alla fine del 1300 l’Italia riuscì a far rinascere lo spazio pittorico solo grazie al contributo dei filosofi e teologi musulmani
di Simone Verda

qui

Repubblica Cult 4.9.16
Il nemico geniale
Da Matisse e Picasso a Freud e Bacon ecco come le rivalità alimentano la creatività. E la storia dell’arte
Uno studio appena pubblicato dal critico australiano Premio Pulitzer Sebastian Smee spiega come la contrapposizione tra maestri sia una componente fondamentale della ricerca dell’ispirazione Senza l’ammirazione (e l’invidia) di Caravaggio per Annibale Carracci non sarebbero nati i capolavori della pittura che conosciamo
di Tomaso Montanari


«È stato qui, e mi ha tirato una fucilata», mormorò John Constable in un giorno di primavera del 1832, rientrando nella sala della Royal Academy dove il suo quadro con l’-I-naugurazione del Ponte di Waterloo era esposto accanto ad una marina di William Turner.
Cos’era successo? Constable aveva lavorato per un decennio a quella grande tela in cui il paesaggio urbano si faceva pittura di storia, una sorta di summa artistica nella quale aveva condensato i risultati di una lunghissima frequentazione di Canaletto, e di Claude Lorrain. Nulla di tutto questo preoccupò Turner, che fu invece colpito dai rossi brillanti delle bandiere e delle coperture delle barche che affollavano il Tamigi al centro del quadro del rivale: la sua Veduta di mare a Helvoetsylus era così grigia, al confronto. Così, con un gusto teatrale che finì di mandare in bestia Constable, egli entrò nella sala con la tavolozza, e aggiunse un tocco di rosso «non più grande di uno scellino» in mezzo al suo mare, andandosene soddisfatto.
Questo famoso episodio potrebbe avere un posto d’onore in un ideale prequel del bellissimo libro che Sebastian Smee (critico d’arte del Boston Globe, e Premio Pulitzer nel 2011) ha appena dedicato a The Art of Rivalry (Random House, New York). Se il rapporto tra Constable e Turner potrebbe ambire a figurare come archetipo delle quattro coppie di artisti di cui si occupa Smee (Lucian Freud e Francis Bacon, Édouard Manet e Edgar Degas, Henri Matisse e Pablo Picasso e infine Jackson Pollock e Willem De Kooning) non è per la violenza della loro contrapposizione, ma per la fecondità della loro rivalità: non per la frase memorabile di Constable, insomma, ma per quell’ineffabile misto di umiltà e competitività, riconoscimento del valore dell’altro e senso di sé, che spinse Turner a ritoccare la propria tela.
Con la grazia che contraddistingue tutto il libro, Smee chiarisce, infatti, che la sua idea di rivalità «non ha nulla a che fare con il cliché macho dei nemici giurati, degli acerrimi competitori, o dei rancorosi testardi che si contendono senza quartiere la supremazia artistica, o anzi la supremazia tout court. Al contrario, è un libro sulla duttilità, sull’intimità, sull’apertura all’influenza altrui. Sulla suscettibilità. È un libro sulla seduzione, e dunque in certa misura anche sulle rotture e i tradimenti». In questa ricerca della sfumatura, della contraddizione e della complessità storica e psicologica che Smee è felicemente antimediatico: siamo lontanissimi dai luoghi comuni sulla violenta inimicizia tra Bernini e Borromini, o dalla mitologia fiorita sul, pur autenticamente storico, «sdegnio grandissimo tra Michelangelo Buonarroti e Leonardo» (Vasari).
Ciò non vuol dire che quelle quattro rivalità siano state altrettante lune di miele. Basta ricordare la clamorosa storia del doppio ritratto che Degas dipinse a Manet e a sua moglie: un quadro che oggi termina incongruamente a metà del profilo di madame Manet, perché il suo illustre marito lo vandalizzò a coltellate in un momento di rabbia per come l’amico l’aveva ritratta. Eppure, anche un gesto tanto inequivocabile ha una spiegazione complessa, e perfino sfumata: l’incontrollabile iconoclastia di Manet era causata dall’irritazione per la crudeltà con cui Degas aveva ritratto il decadimento fisico di sua moglie? O, al contrario, da gelosia maritale? O, ancora, da invidia artistica?
Il vertice di questa felice ambiguità è forse rappresentato dal manifesto del 2001 con cui Lucian Freud cercò di recuperare il meraviglioso ritratto che aveva eseguito a Francis Bacon, e che era stato rubato in una mostra berlinese nel 1988: una grande scritta “Wanted” sovrasta la riproduzione del ritratto, e dunque del volto, di Bacon. Con un doppio effetto: ironizzare sulla “criminalità” artistica del rivale, ma anche dichiarare – mettendo a nudo il fondo del proprio animo – quanto gli mancasse (letteralmente quanto “voleva”) l’amico, morto nel 1992.
Smee sostiene che un libro come il suo ha senso solo per l’arte moderna, perché solo dopo l’Impressionismo la ricerca della grandezza artistica si sarebbe identificata con l’originalità, traducendosi in un corpo a corpo tra artisti della stessa generazione. In realtà questo è vero almeno fin dal primo Rinascimento: semmai il problema è che per gli artisti di quell’epoca non abbiamo nemmeno un centesimo della capillare documentazione biografica che in Art of Rivalry è montata in modo così efficace. Se l’avessimo, credo che la coppia più promettente per una biografia parallela di artisti rivali sarebbe quella che segna, per l’appunto, l’inizio dell’arte moderna nella periodizzazione italiana: Annibale Carracci e Caravaggio. Sappiamo con certezza che il secondo incontrò il primo (o almeno una sua opera) nel 1599, nella piccola chiesa romana di Santa Caterina dei Funari. Qui la Santa Margherita di Annibale deflagrò come una bomba: simile a quella che era esplosa centosettant’anni prima nella Cappella Brancacci di Firenze, quando le ombre e i corpi di Masaccio avevano spazzato via i colori estenuati del gotico morente. Ora, invece, esplodeva il contrasto tra la esausta pittura dell’ultimo manierismo romano e quella, naturalissima, di Annibale.
«Collocato il quadro sull’altare – scrive un biografo di entrambi – per la novità [ecco spuntare l’ossessione dei moderni!] vi concorsero i pittori, e fra’ vari discorsi loro, Michel Angelo da Caravaggio, dopo essersi fermato lungamente a riguardarlo, si rivolse e disse: “Mi rallegro che al mio tempo veggo pure un pittore!”». L’ammirazione alimentava la rivalità, la quale a sua volta spingeva a scalare le vette della qualità: proprio parlando della Santa Margherita un allievo del Carracci ricorderà che «il Caravaggio ci moriva sopra, in riguardarla». Solo guardando i loro quadri è oggi possibile comprendere che i due non smisero mai di studiarsi: in una gara che era il tentativo di superarsi a vicenda, ma anche un continuo, mutuo riconoscimento.
E sono sempre le opere a suggerirci che tante altre coppie di artisti furono unite da rivalità feconde come l’amore: rivalità nutrite – usiamo le parole ispirate di Smee – da «quella intimità che i manuali di storia dell’arte non raccontano».

Repubblica Cult 4.9.16
L’analisi
Perché la nostra è una civiltà basata sulla competizione
I conflitti hanno permesso alla specie umana di conquistare il mondo, dominare la natura e costruire sistemi complessi
di Massimo Ammaniti


La rivalità è un’arte, dal titolo del libro di Sebastian Smee, oppure è un pericolo per la coesione della famiglia e della società? Nella storia dell’umanità la rivalità fraterna fra Caino e Abele ha segnato profondamente le generazioni successive, perché si è affermata la stirpe di Caino, mentre quella di Abele si è estinta senza lasciare tracce.
Forse se fosse sopravvissuta la stirpe di Abele la stessa storia sarebbe stata diversa: guerre, violenze, distruzioni, stragi non avrebbero contrassegnato i comportamenti umani, ma si sarebbe affermato un atteggiamento più cooperativo.
Ma un interrogativo è legittimo, senza competizione e rivalità la specie umana sarebbe stata in grado di conquistare il mondo, dominare la natura, costruire una civiltà complessa? Sono interrogativi fantascientifici a cui è impossibile rispondere anche perché la lotta per la sopravvivenza non spiega l’evoluzione della specie umana, che dipende da meccanismi più complessi spiegati dalla teoria neodarwiniana.
La rivalità è fondamentale in campo animale e in campo umano, basta osservare i cuccioli dei mammiferi per scoprire che il gioco preferito è la lotta, si rotolano e si attaccano vicendevolmente, per affermare la propria supremazia all’interno della propria famiglia.
E in campo umano che succede? Già fin dai primi anni di vita si assiste alla competizione fra bambini, ad esempio basta osservare bambini di uno, due anni in un asilo nido per scoprire che si tirano i capelli fra loro oppure si mettono le dita negli occhi per impossessarsi di un giocattolo. Come scriveva lo psicoanalista francese Serge Lebovici, i bambini sono cattivi ma non malvagi, in altre parole possono essere aggressivi se vogliono farsi valere, ma non si compiacciono di far male agli altri.
Ma forse il terreno in cui la rivalità e la lotta per la supremazia si manifestano appieno è il rapporto fra fratelli, non solo fra Caino e Abele, ma anche ai giorni nostri con esempi famosi, solo per citarne alcuni, come Madonna e i suoi fratelli oppure Michael Jackson e i suoi fratelli.
E la psicologia spiega che fratelli e sorelle pur assomigliandosi, anche perché condividono il patrimonio genetico, spesso finiscono ai ferri corti. Due studiosi del comportamento infantile e genetisti, Judy Dunn e Robert Plomin, autori del libro Vite separate. Perché i fratelli sono così diversi?
(Giunti Editore) hanno cercato di rispondere a questa domanda, le differenze sono maggiori delle somiglianze pur essendo cresciuti nella stessa famiglia.
Non sarebbero tanto le esperienze condivise in famiglia a pesare sul carattere di ogni figlio, quanto le esperienze non condivise, ad esempio essere stato sacrificato rispetto al fratello maggiore oppure essere stato trascurato dopo la nascita della sorellina. Sono esperienze che lasciano il segno proprio perché dipendono dall’atteggiamento dei genitori e generano risentimenti e desideri di rivalsa fino ad una vera e propria lotta per la supremazia.
Stranamente la psicoanalisi ha affrontato il tema della rivalità in senso verticale, come sottolinea anche la psicoanalista e femminista inglese Juliet Mitchell, ossia come il figlio maschio si contrapponga al padre con cui entra in rivalità per il possesso della madre, e la figlia con la madre. Quello che è rimasto invece in secondo piano è la rivalità orizzontale fra fratelli, che è l’altra faccia del conflitto edipico, ossia i fratelli che lottano fra loro per l’amore dei genitori e per accedere alla sessualità, naturalmente sul piano delle fantasie. E come è stata ipotizzato da Juliet Mitchell accanto alla Legge del Padre, occorre prendere in considerazione anche la Legge della Madre, che vieta l’uccisione e l’incesto fra i propri figli, perché rischierebbero di perdere il suo amore.
Ma perché Freud ha tenuto in secondo piano la rivalità fra fratelli? Secondo alcuni storici della psicoanalisi bisognerebbe risalire all’infanzia di Freud e alla nascita del fratellino Julius, verso cui provava desideri di annientamento.
La morte di Julius, quando Sigmund aveva 18 mesi, avrebbe suscitato in lui autoaccuse e sensi di colpa che avrebbero poi ostacolato l’approfondimento della rivalità fraterna nella teoria psicoanalitica.

Repubblica Cult 4.9.16
I tabù del mondo
Se il desiderio si trasforma in una trappola
La mantide religiosa incarna la femmina assassina e mostra il nesso tra godimento sessuale e morte Lacan usa la sua immagine per spiegare che l’angoscia non sorge dal confronto con la nostra libertà ma quando ci sentiamo ridotti ad oggetti passivi e siamo dati in pasto alle pulsioni dell’Altro
Questo cannibalismo atroce che fa tremare l’immaginario maschile si ritrova nei fantasmi della letteratura popolare e in quelli dei nevrotici studiati da Freud
di Massimo Recalcati


Uno strano e inquietante insetto ha da sempre catturato attorno a sé l’interesse degli studiosi più diversi. Si tratta della Mantide religiosa. Il suo nome antico di Mantis, che significa “profetessa”, è già significativo di un certo alone di sacralità che la circonda. Rogers Callois, fondatore nel 1938 con Georges Bataille e Michel Leiris del celebre Collegio di Sociologia, né ha, in pagine memorabili contenute ne Il mito e l’uomo, scolpito il ritratto. La caratteristica principale di questo insetto femmina, dalle proporzioni infinitamente più grandi di quelle del maschio, è quella di divorare il proprio partner durante o dopo l’accoppiamento sessuale. Ma il suo “carisma” non si realizza solo in questo modo. Al suo sguardo era attribuito sin dall’antichità un potere magico. Nella Roma imperiale si diceva che se qualcuno cadeva malato era colpa dello sguardo della Mantide che era caduto sullo sventurato. Ma il punto cruciale che ha reso questo insetto un oggetto di studio costante nei secoli resta indubbiamente la convergenza inquietante di appetito sessuale e voluttà alimentare.
In un articolo del 1784 scritto da J.L.M. Poiret viene resa nota l’osservazione della Mantide che decapita il maschio prima di accoppiarsi con lui per divorarlo interamente dopo la copula. Questo cannibalismo atroce non può non fare tremare l’immaginario maschile. Gli etologi si sono interessati alle ragioni di questo comportamento. Per alcuni l’orrenda decapitazione del maschio prima del rapporto sessuale è finalizzata ad incentivare i movimenti spasmodici del coito rendendo l’erezione più turgida. Ma l’insaziabilità della Mantide si manifesta altresì nel fatto che proprio durante il coito inizia il divoramento del suo amante. Decapitato e divorato il povero mantide si trova senza alcuna voglia ad essere protagonista di uno dei peggiori incubi di Dario Argento. Si tratta di un cannibalismo primordiale che mescola insieme la pulsione sessuale alla pulsione orale. Ella non gode dell’organo sessuale del maschio ma del suo corpo intero.
Nella lettura popolare di tutti i tempi il motivo degli spettri femminili che divorano i loro amanti è assai ricorrente. Si tratta di creature demoniache che hanno solitamente l’aspetto di donne di estrema bellezza che seducono le loro vittime prima di nutrirsi del loro corpo. La stessa vagina si presta in questi racconti a diventare una sorta di arma micidiale che anzichè provocare il piacere del maschio lo può inghiottire minacciosamente. Callois riporta a questo proposito un racconto eschimese dell’Ottocento dove un celibe viene sedotto da una bellissima giovane. Nella notte d’amore trascorsa insieme, l’uomo finì però per sprofondare letteralmente nel corpo di lei fino a scomparire del tutto. Al risveglio mentre la bella preda uscì dall’igloo per urinare, espulse dalla sua vagina lo scheletro del suo povero amante! Freud stesso aveva rintracciato la frequenza dell’immagine della vagina dentata nei fantasmi sessuali dei nevrotici a cui, per esempio, riconduceva il sintomo dell’eiaculazione precoce. Il tabù della Mantide inscena quello della femmina assassina che avvelena, contagia, inghiotte, divora il maschio che vorrebbe godere di lei. Ma più in generale mostra il nesso profondo che unisce il godimento sessuale alla morte. È un tema ampiamente sviluppato da Freud: esiste una prossimità profonda tra il pieno soddisfacimento sessuale e l’esperienza della morte.
Jacques Lacan nelle lezioni di apertura del Seminario X (1962-63) dedicato al tema dell’angoscia ha rievocato lo spirito maledetto della Mantide religiosa. Volete sapere quando si prova l’angoscia? Volete sapere in che condizione ci si trova quando si è angosciati? Lacan porta i suoi allievi a seguirlo in un sentiero stretto. Diversamente da quello che pensavano Freud, Heidegger e Sartre l’angoscia non è senza oggetto, non è percezione del nulla o della nostra libertà. Egli rievoca la Mantide per contestare l’idea di matrice esistenzialista che l’angoscia ci confronti con la nostra libertà più propria e con il dilemma della scelta. Dalla Mantide Lacan trae un altro insegnamento sull’angoscia: essa sorge non quando siamo confrontati con la nostra libertà ma, al contrario, quando ci sentiamo ridotti ad oggetti passivi del desiderio dell’Altro che si para dinnanzi a noi come un enigma invalicabile. È quello che avviene in un bambino inerme di fronte all’onnipotenza dell’Altro che si prende cura di lui. Cosa vorrà da me? Cosa mi farà? Mi divorerà, mi ucciderà o mi risparmierà? L’angoscia appare quando siamo confrontati con il carattere radicalmente enigmatico del desiderio dell’Altro. La figura della Mantide religiosa si presta più di ogni altra ad incarnare questo carattere. Provate, dice Lacan ai suoi allievi sbigottiti, ad immaginare di essere di fronte ad una Mantide e pensate di avere stampata sul vostro volto l’immagine del mantide maschio e, dunque, di conoscere la sorte spaventosa che vi attende. Immaginatevi cioè di essere “presi” come oggetto del godimento dell’Altro.
Ecco questa condizione è all’origine dell’angoscia: essere gettati in pasto al desiderio dell’Altro, assoggettati, subordinati, sovrastati dal desiderio dell’Altro. In questo senso l’angoscia non segnala affatto la nostra libertà ma il sentirsi inchiodati all’immagine dell’oggetto del godimento dell’Altro – del mantide maschio - senza alcuna possibilità di fuga.
SUL SITO “I tabù del mondo” è anche uno speciale sul sito di Repubblica. it

Il Sole Domenica 4.9.16
Russia fine anni Venti
L’immensa pazienza di un popolo
Per lo scrittore in viaggio nell’Urss la capacità del Paese di resistere a guerre e calamità è il vero pilastro nell’architettura sociale
di Stefan Zweig


Negoreloe, prima terra russa. Sera tardi. Già così buio che la celebre stazione rossa con la scritta “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” non si riesce più a scorgere. Ma pur con tutta la migliore volontà non riesco nemmeno a vedere le Guardie Rosse armate ferocemente fino ai denti rappresentate in maniera tanto pittoresca e demoniaca dai viaggiatori affabulatori che ci hanno preceduto: soltanto un paio in uniforme dall’aria ragionevole e molto affabile, senza fucile né armi luccicanti. La sala di legno della frontiera è come tutte le altre, ma dalle pareti, invece dei sovrani, ti guardano i ritratti di Lenin, Engels, Marx e di qualche altro leader. Il controllo è preciso, accurato, rapido e molto cordiale; già dai primi passi in terra russa si percepisce quante menzogne ed esagerazioni ci siano ancora da abbattere. Non accade niente in maniera rigida, severa e militaresca più che in altre frontiere; senza altri passaggi, ci si trova all’improvviso in un nuovo mondo. È proprio vero, la prima impressione s’imprime immediatamente, una di quelle prime impressioni che così spesso avvolgono una situazione nota ma che solo più tardi riconosci come premonitrice. In tutto siamo in trenta o quaranta che oggi valicano la frontiera russa; la metà di questi sono passeggeri in transito, giapponesi, cinesi, americani corrono a casa con la ferrovia della Manciuria senza fare soste; quindi restano matematicamente tra le quindici e le venti persone che con questo treno hanno come meta la Russia. È l’unico treno al giorno che da Londra, Parigi, Berlino, Vienna, la Svizzera e il resto dell’Europa ha come destinazione il cuore del Paese, la capitale Mosca. Non si può fare a meno di pensare alle ultime frontiere attraversate, ci si ricorda di quante migliaia e decine di migliaia di individui ogni giorno entrano nei nostri microscopici staterelli, mentre qui, venti persone in tutto stanno per accedere a questo vastissimo impero, un continente. Due o tre arterie della ferrovia che corrono diritte uniscono tutta la Russia con il nostro mondo europeo, e ognuna di queste viaggia a un ritmo lento ed esitante. Ci si ricorda allora dei valichi di frontiera ai tempi della guerra, dove solo una manciata di persone che passava un minuzioso controllo riusciva a varcare la linea invisibile da Stato a Stato, e si comprende istintivamente qualcosa della situazione attuale: la Russia è una fortezza assediata, una zona di guerra economica separata dal nostro mondo, diversamente regolato, da una sorta di barriera continentale simile a quella che Napoleone inflisse all’Inghilterra. Nel momento in cui abbiamo fatto cento passi tra l’entrata e l’uscita di queste due porte, abbiamo valicato un muro invisibile.
Prima ancora che il treno si metta in movimento in direzione di Mosca, un cordiale compagno di viaggio mi ricorda che bisogna spostare l’orologio di un’ora, dal tempo occidentale a quello dell’Europa orientale. Ma quel rapido gesto, quella minuscola rotazione, ce ne accorgeremo presto, è di gran lunga insufficiente. Non appena si giunge in Russia, non si deve soltanto adattare l’ora sul quadrante, bensì tutta la propria percezione di tempo e spazio. All’interno di questa dimensione, infatti, tutto avviene con altri pesi e altre misure. Il tempo, dal confine in poi, subisce un rapido tracollo di valore, così come anche la percezione della distanza. Qui i chilometri si contano in migliaia invece che in centinaia, una gita di dodici ore vale un’escursione, un viaggio di tre giorni e tre notti è relativamente breve. Il tempo qui è una moneta di rame che nessuno risparmia e accumula. Il ritardo di un’ora a un appuntamento è considerato ancora cortese, una conversazione di quattro ore vale una chiacchierata, un discorso pubblico di un’ora e mezzo è una breve dissertazione. Ma già solo dopo ventiquattro ore in Russia, la capacità di adattamento interiore ci ha fatto l’abitudine. Non ci sorprenderà più il fatto che un conoscente di Tbilisi viaggi fino a qui per tre giorni e tre notti per stringere la mano a qualcuno; otto giorni dopo si affronterà con la stessa tranquillità e naturalezza un’inezia di quattordici ore di viaggio in treno solo per fare una certa “visita” e per meditare in tutta serietà se non sia il caso di fare un viaggio nel Caucaso – solamente sei giorni e sei notti.
Il tempo qui ha altri parametri, lo spazio altre proporzioni. Come con i rubli e i copechi, si impara velocemente a fare i conti con questi nuovi valori, si impara ad aspettare e a essere noi stessi in ritardo, a perdere tempo senza lagnarsi, e in questo modo ci si avvicina inconsapevolmente al mistero della storia russa e della sua essenza. Giacché il genio e il pericolo di questo popolo sta prima di tutto nella sua immensa capacità di attesa, nella sua per noi incomprensibile pazienza, che è tanto vasta quanto la terra russa. Questa pazienza è sopravvissuta a ogni epoca, ha sconfitto Napoleone e l’autorità zarista, e anche adesso agisce come il più potente e robusto pilastro nella nuova architettura sociale di questo mondo. Infatti, nessun altro popolo europeo sarebbe stato in grado di sopportare ciò che questo si è abituato da mille anni a subire, e subendo quasi con gioia la propria sorte; cinque anni di guerra, poi due, tre rivoluzioni, sanguinose guerre civili da Nord, da Sud, da Est, da Ovest che si sono abbattute contemporaneamente su ogni città e villaggio; infine, pure la terribile carestia, la carenza di alloggi, il blocco economico, l’espropriazione dei beni – una summa di sofferenza e martirio, di fronte alla quale la nostra sensibilità non può che inchinarsi con deferenza. Tutto ciò la Russia ha potuto tollerarlo soltanto grazie a questa sua eccezionale resistenza nella passività, attraverso il mistero di una capacità di sopportazione illimitata, attraverso un Nitschewo («non fa niente») ironico ed eroico al tempo stesso, e una tenace, muta e profondamente devota pazienza, la sua vera e incomparabile forza.

Questo testo è tratto dall’inedito di Stefan Zweig Viaggio in Russia , testo inedito, esito di un viaggio che l’autore austriaco fece nel 1928.
Il libro, a cura di Vittoria Schweizer, è edito da Passigli, Firenze, pagg. 102, € 10 e sarà nelle librerie dall’8 settembre

Il Sole Domenica 4.9.16
Melodrammi mediterranei
Stranieri nel mare «nostrum»
di Umberto Curi


«Ciò che sta in mezzo alle terre» – questa la definizione etimologica originale del Mediterraneo. Ed emerge così subito un paradosso, già “scritto” nella radice linguistica. Il Mediterraneo è quel mare che si definisce in rapporto alla terra, la cui peculiare identità marina è dunque legata ai modi della sua relazione con le terre, al suo stare per l’appunto in mezzo alle terre. Quel medius va tuttavia specificato. La sua funzione va chiarita. Si può «stare nel mezzo» per dividere, per separare, per segnare un limes. O, al contrario, per agire come con-fine, dove ciò che più conta non è il finis, ma il cum, dove allora il mare compare come luogo di contatto e relazione, anziché come barriera invalicabile. Dal punto di vista storico e culturale, soprattutto alle origini della tradizione occidentale, il Mediterraneo è stato soprattutto il tramite di un dialogo incessante di lingue e civiltà, di costumi e stili di vita.
L’Odissea è il diario di bordo che registra la molteplicità degli approdi a cui può condurre la navigazione in quel mare che sta in mezzo alle terre. Lotofagi e ciclopi, sirene e maghe astute, popolazioni ostili e ospiti generosi, offrono un’esemplificazione paradigmatica di una identità costruita sulle differenze, di una unità che presuppone ed esalta la molteplicità. E non è dunque un caso se la figura delineata da Omero come esploratore della ricca varietà di forme connesse a questo mare possa essere poi indicata da Dante, a distanza di quasi due millenni, come eroe del sapere, come indomabile ricercatore di virtù e conoscenza.
Accomunando sotto il titolo Mediterraneo le tre opere che hanno costituito il cartellone dell’Arena Sferisterio di Macerata (Otello, Il Trovatore, Norma), il direttore artistico Francesco Micheli ha evidentemente inteso richiamarsi ad un’accezione culturale, anziché meramente geografica, del mare che i Romani chiamavano nostrum. È vero, infatti, che sul Mediterraneo si affacciano i tre paesi – Italia, Francia e Spagna – nei quali sono ambientate le vicende che sono al centro dei tre melodrammi. Ma la contiguità spaziale non motiverebbe a sufficienza la scelta di un titolo che evoca invece, pur se indirettamente, una problematica che è di palese attualità, ma è soprattutto di grande interesse sul piano strettamente filosofico.
Non solo i luoghi, ma le storie narrate, i personaggi descritti, le passioni e gli interrogativi, i conflitti e gli amori, che si ritrovano nei melodrammi maceratesi stanno da questa parte del mare, si riferiscono più o meno esplicitamente ad una tradizione che si è costituita con la confluenza tra il filone greco-latino e la componente giudaico-cristiana. Ma proprio per questo carattere, per i molteplici vincoli che saldano in un’unità culturale i tre scenari delle opere, essi pongono il problema del rapporto con l’altra sponda del mare, con la storia, i valori, le tradizioni che letteralmente ci fronteggiano, sfidano la solo apparente autosufficienza della nostra civiltà.
Mediterraneo vuol dire allora, in questa prospettiva, porre la questione del rapporto con l’altro, misurarsi con una figura controversa e quasi indecifrabile, temuta e talora perfino odiata, quale è la figura dello straniero. Emerge, in questo passaggio, tutta l’imbarazzante miseria di un dibattito politico-culturale inchiodato sulla sterile contrapposizione di due formule, entrambi unilaterali e infine prive di contenuto. Fra il respingimento e l’accoglienza, fra l’odiosa immagine di un rifiuto violento e la patetica impotenza di una pur encomiabile opzione di principio, si apre lo scenario di una cultura – quella di questa sponda – che ha sostanzialmente rimosso una tematica delicata e complessa, quale è quella dell’alterità, limitandosi a balbettare stereotipi evanescenti e inservibili.
L’uso dell’espressione «straniero», enfatizzando la radice latina extra-, implica una caratterizzazione esclusivamente negativa, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del nostro paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione). Il primo effetto semantico di tale rappresentazione linguistica è l’oscuramento di ogni differenza tra le molteplici identità linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l’umanità che “viene da fuori”, o che è, appunto, dall’ “altra parte”. L’atteggiamento largamente dominante tende a cancellare il dato fra tutti più importante, vale a dire che lo straniero è ambivalente – è l’ambivalenza. È inevitabile vivere la sua presenza, il suo arrivo, come una minaccia. Ma è altrettanto inevitabile avvertire, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo, e di cui non potrei fare a meno.. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l’arrivo, a spalancargli le porte della mia casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con la massima fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se si trattasse di una benedizione. Sempre minaccia e dono – non l’una cosa o l’altra. Anzi: l’una cosa proprio in quanto è l’altra.
Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell’unicità. Più ancora: di fronte a lui, mostrano tutta la loro radicale insufficienza le categorie logiche con le quali siamo abituati a «mettere in ordine» il mondo. La rassicurante e familiare logica dell’ aut-aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et-et.
La figura stessa dello straniero esige la riformulazione dell’apparato concettuale che è alla base della nostra quotidianità. Con la sua sola presenza mette in discussione gli ingredienti fondamentali della mia vita “ordinaria”, la logica e il linguaggio con i quali essa è organizzata. E tuttavia la consapevolezza del carattere maxime pericolosum dell’incontro con lui non cancella l’inderogabilità del rapporto, in una certa misura lo rende anzi ancora più necessario. Nella minaccia in lui incarnata sono immanenti una promessa e una sfida, alle quali non posso sottrarmi.

Il Sole Domenica 4.9.16
Ildegarda di Bingen (1098–1179)
Badessa tra i leopardi
Le vivide «Visioni» della santa benedettina, un ricco palinsesto di animali, edifici, citazioni e allusioni bibliche e apocalittiche
di Gianfranco Ravasi


Non esitava a tessere un rapporto epistolare amichevole, lei monaca benedettina, con Federico Barbarossa, nonostante la Chiesa detestasse l’imperatore. Ma non temeva di attaccarlo quando egli aveva sostenuto l’elezione di due antipapi contro il legittimo Alessandro III, il senese Rolando Bandinelli. Stiamo parlando della “Sibilla renana”, come fu definita Ildegarda di Bingen, monaca benedettina, nata in Assia nel 1098, donna di straordinaria genialità, paradossalmente alimentata anche da una sorta di emicrania permanente che la rendeva un’ardita visionaria, badessa dal polso fermo e fin autoritario, viaggiatrice e predicatrice sorprendentemente autonoma in un mondo maschilista. Eppure, mentre era ancora in vita, nel 1147 (morirà nel 1179), nientemeno che un papa, il pisano Eugenio III, leggerà durante il sinodo di Treviri brani del suo capolavoro, Scivias.
È proprio quest’opera, articolata in tre libri di visioni e rivelazioni, a costituire il pannello centrale del trittico di scritti ildegardiani – gli altri sono il Libro dei meriti della vita e il Libro delle opere divine – che ora vengono tradotti dal latino e didatticamente proposti e rielaborati da Anna Maria Sciacca. La studiosa accompagna il lettore attraverso il necessario apparato introduttorio ed ermeneutico perché chi legge queste pagine è come se si affacciasse su un abisso di luce, dove si ergono palazzi quadrangolari, si ramificano numerologie da decrittare, si agitano leopardi, leoni, lupi, orsi, cervi, agnelli e strisciano serpi e granchi, si procede lungo tappe cosmiche. Ma soprattutto si aprono orizzonti mistico-teologici disegnati su un palinsesto di citazioni o allusioni apocalittiche bibliche. Confessa, infatti, Ildegarda: «Per volontà divina il mio spirito nella visione sale fino alle stelle, in alto sopra le differenti regioni, in luoghi lontani da dove resta il mio corpo».
Parole che descrivono il significato etimologico dell’“estasi” per cui il carnale si trasfigura in spirituale. Basti soltanto ascoltare questa invocazione incastonata nella X visione di Scivias: «Signore, dammi per tua forza il dono del fuoco, che in me estingua la passione della perversità, per bere con giusti sospiri all’acqua della fonte viva, che mi faccia godere della vita eterna, io che sono cenere e polvere, che guarda più alle opere delle tenebre che a quelle della luce». Il testo scritto o dettato rivela questo intreccio dinamico che potrebbe essere espresso con un bellissimo e curioso aggettivo usato da Ildegarda, symphonialis: è la “sinfonia”, l’armonia che sa incrociare il mondo e la persona, la materialità e l’anima, il finito e l’assoluto, il transito dalla turbida nubis, la nebulosa torbida del peccato, allo splendore cristallino dello spirito puro ove echeggia la voce divina rivelatrice.
In questa linea l’abbadessa era riuscita nelle sue varie opere a spaziare senza imbarazzo anche nell’orizzonte della botanica trasformandosi in una sorta di erborista; conseguentemente non aveva esitato ad applicarsi alla farmacopea vegetale approdando alla medicina, tant’è vero che una delle sue opere s’intitola Liber subtilitatum diversarum creaturarum, bipartito in un trattato di Physica e in un De causis et curis; era affascinata dalla poesia, dalla musica e persino da forme teatrali e si era consacrata pure all’esegesi di testi cristiani classici come la Regola di s. Benedetto e il Simbolo di fede di s. Atanasio. Ma, spezzate le reti pur fulgide della sua razionalità, si slanciava verso i cieli dell’intuizione e della contemplazione pura. È appunto questo il caso delle sue visioni, un arcobaleno mistico che proprio in Scivias – titolo enigmatico, probabile anagramma del latino Scito vias Domini, “conosci le vie del Signore” – si dispiega in tutte le sue iridescenze cromatico-tematiche. Non per nulla il codice archetipo della tradizione manoscritta di quest’opera – conservato a Wiesbaden nella Hessische Landesbibliothek fino al 1945, quando fu distrutto da un incendio (per fortuna esisteva una fotoriproduzione) – è costellato da 35 miniature che cercano di cristallizzare in scene pittoriche l’incandescenza visionaria dell’autrice, dimostrando, così, quella “sinfonialità” tra visibile e invisibile, tra esperienza terrena e ascesi trascendente.
Non siamo, perciò, in presenza della pura e semplice attestazione di una vicenda spirituale personale ma di una parabola apocalittica che cerca di rispondere ai quesiti radicali sul senso dell’essere e dell’esistere umano ma che si affaccia anche sul divino. Infatti l’itinerario simbolico dell’opera s’incrocia col mistero cristiano: dalla Trinità all’incarnazione di Cristo, dalla Chiesa, corpo di Cristo, alla Gerusalemme celeste, dall’eucaristia alle Scritture, dalle virtù all’escatologia. Proprio per questo, da un lato, è necessario lasciarsi conquistare, trasportare e persino cullare dalle immagini, ma d’altro lato, bisogna trapassarle e allertare l’intelligenza per seguire la filigrana teologica sottesa che la stessa Ildegarda si premura di esplicitare. Ecco un esempio dedicato al tema trinitario: «La luce senza origine, cui nulla manca, è il Padre. La forma d’uomo di color zaffiro, senza macchia d’imperfezione, invidia e iniquità, indica il Figlio ... Tutta questa luce, ardente di un fuoco dolcissimo, privo di ogni forma di arida e tenebrosa mortalità, rappresenta lo Spirito Santo, grazie al quale l’Unigenito di Dio fu concepito secondo la carne ... Lo Spirito infonde nel mondo la luce del vero splendore».
Ci siamo soffermati sull’opera più nota, Scivias, ma di Ildegarda in questo volume sono raccolti altri due testi. Innanzitutto il Libro dei meriti della vita che mette in scena il conflitto tra i vizi che irretiscono e conquistano la creatura umana, e le virtù che vi si oppongono. Lo sguardo della santa – canonizzata nel 2012 da papa Benedetto XVI che l’ha proclamata anche Dottore della Chiesa– si proietta sull’oltrevita, puntando soprattutto sul purgatorio, l’unico stato aperto alla descrizione, essendo temporale e quindi transitorio e narrabile, mentre inferno e paradiso, essendo sotto il regime dell’eterno, sono solo pensabili ma non rappresentabili. Anche per la catarsi purgatoriale è, comunque, la visione il canone descrittivo, come accade pure per la sequenza malefica dei vizi affidati a ben 35 visioni.
Il trittico offerto da Anna Maria Sciacca si conclude col Libro delle opere divine, anch’esso affidato all’approccio visionario e destinato a illustrare l’azione divina a partire dall’incipit della creazione fino all’explicit dell’escatologia. Un’imponente architettura cosmica regge queste pagine (si leggano i passi descrittivi dei venti la cui rosa è, però, simboleggiata attraverso un pittoresco bestiario), un atlante che ha il suo asse centrale nel Creatore. Dalla lettura della trilogia ildegardiana si esce ammirati e frastornati al tempo stesso, ed è curioso tentare – come è stato fatto e lo si ripete ora in questo volume – una comparazione sinottica con la Divina Commedia ove i contatti, però, più che essere diretti sono da ricondurre alle matrici e alle fonti comuni a cui l’abbadessa e Dante attingevano per i loro differenti percorsi intellettuali, poetici e spirituali.
Ildegarda di Bingen, Visioni , a cura di Anna Maria Sciacca, prefazione di Enrico dal Covolo, Castelvecchi, Roma, pagg. 454, € 39

Corriere La Lettura 6.9.16
Il tutù e il grembiule


Il 6 settembre 1948 usciva nelle sale inglesi Scarpette rosse . Diretto da Michael Powell e Emeric Pressburger, il film propone una trama degna del più romantico dei balletti: un misterioso impresario aiuta due giovani talen-tuosi, un compositore e una ballerina, a ottenere il successo. I due si sposano ma lei non vuole togliere il tutù per infilare il grembiule. Sarà un paio di scarpette stregate a separare la giovane dal suo amore più profondo: quello per la danza.

Corriere La Lettura 6.9.16
Vegetti Finzi: la fantasia dei bambini per affrontare il dolore
L’incontro con Moni Ovadia
di Maurizio Bonassina


Se manca la stella, non sempre è un dramma. Anzi, può essere una fortuna. Silvia Vegetti Finzi lo dichiara nel libro Una bambina senza stella . Il testo, ora alla seconda ristampa (Rizzoli, pp. 229, e 18,50), racconta una favola triste ma educativa, incorniciata nello scenario della Seconda guerra mondiale. Un cognome paterno ebreo, Finzi, provoca una serie di abbandoni: le retate si avvicinano, la bambina (per cautela) viene affidata a una balia e poi, di lascito in lascito, alla famiglia — quella che rimane — in una sequenza di separazioni che sembrano un rimprovero alla vita stessa. La stella dell’epurazione ebrea le viene così risparmiata. Ma la stella della fortuna non accompagna la piccola Silvia. Il libro è autobiografico: la solitudine, il disagio, la mancanza della famiglia segnano il tempo della protagonista. Così però si cresce e si diventa grandi, sembra dire la scrittrice. Tanto che, nel corso degli anni, Silvia Vegetti Finzi diventa una guida, come psicoanalista e psicoterapeuta, per le famiglie moderne: quelle che coccolano i figli, che non hanno problemi con il pane quotidiano, che non lasciano neanche un’incertezza nella vita dei loro bambini. Ma così si rischia di non crescere, afferma la psicologa: «A voler fare troppo bene, si può fare del male». Ecco allora il senso: se manca la «stella» (quella dell’agio, della vita priva di angosce) l’esistenza si presenta spoglia: «E tuttavia nelle difficoltà si cresce, la fantasia prende il posto del dramma quotidiano, i piccoli diventano uomini». Il testo (scritto con grazia e mai con severità professionale) verrà presentato al festival di Mantova sabato 10 settembre (Basilica palatina di Santa Barbara, ore 14,45, titolo: «Le risorse segrete dell’infanzia»). Con l’autrice ci sarà Moni Ovadia. «È un artista eclettico — sottolinea Vegetti Finzi — che sa spostarsi tra musica, cinema e teatro. Genio e invenzione: lo stesso timbro che nasce dal dolore infantile. Il dolore dei bambini (un’ingiustizia assoluta che però esiste) non conosce prescrizione ma può essere una palestra per la vita. Produce anticorpi per le generazioni future. I bambini reagiscono alla sofferenza con l’immaginazione. La creatività nasce nell’infanzia, spesso nella solitudine, e diventa arte».

Repubblica 4.9.16
Da bimbo maltrattato a spia e scrittore Le Carré racconta le sue mille vite
Il padre violento e la mamma che lo lasciò, lo scontro con la Thatcher e la scelta di una vita ritirata: uno degli autori più famosi del mondo si confessa
Sono fedele alla tradizione secolare della scrittura non meccanizzata. Le idee arrivano in una passeggiata, sul treno e al caffè
di Enrico Franceschini


LONDRA. Picchiato dal padre, abbandonato dalla madre, adottato per così dire dal servizio britannico, salvato dalla scrittura, dissidente per vocazione. Potrebbe riassumersi così l’autobiografia di John le Carré, uno dei più grandi scrittori del dopoguerra, che ha deciso di raccontare se stesso nel suo prossimo libro.
Per quanto si sapesse già molto dell’autore di “La spia che venne dal freddo” e tanti altri best- seller tradotti in tutto il mondo, le sue memorie aggiungono rivelazioni e particolari illuminanti sulla vita e sull’arte di un romanziere che abita da 40 anni in un’isolata villa sulla costa della Cornovaglia, concede rare interviste, sta lontano dai talk show televisivi, dai festival di letteratura e dai corsi di scrittura creativa.
In David Cornwall, questo il suo vero nome, c’è sempre stato qualcosa di enigmatico, e la nuova opera conferma il senso di mistero a partire dal titolo: “The pigeon’s tunnel” (Il tunnel dei piccioni). Si riferisce – come spiega lui stesso nella lunga anticipazione del volume pubblicata ieri dal
Guardian – a un club di tiro al piccione a Montecarlo che visitò insieme a suo padre quando era bambino. I piccioni venivano immessi in un tunnel, da cui sbucavano prendendo il volo e finendo nel mirino dei tiratori. Quelli che sfuggivano alle fucilate ritornavano sul tetto del casinò che organizzava l’evento, dopodiché venivano infilati di nuovo nel tunnel per un altro volo verso una probabile morte. «Per quale motivo questa immagine mi abbia perseguitato per così tanto tempo è qualcosa che il lettore può giudicare meglio di me», scrive le Carré.
Il difficile rapporto con il genitore è uno dei passaggi più intimi del libro. L’84enne scrittore descrive il padre Ronnie come «un imbroglione, un sognatore e un avanzo di galera», che picchiava selvaggiamente la madre. «Picchiava anche me, ma solo ogni tanto e senza troppa convinzione», aggiunge, ricordando che Ronnie gli telefonava da varie prigioni all’estero chiedendogli soldi. La mamma lo abbandonò quando aveva 5 anni: «Non ricordo di avere provato affetto per nessuno durante la mia infanzia, tranne che per mio fratello maggiore (Rupert, diventato un noto giornalista, da tempo corrispondente estero del quotidiano Independent, ndr.), che a tratti era come il mio unico genitore». Una carenza di affetti che può avere influito sui suoi comportamenti da adulto: «Non sono stato né un marito né un padre modello e non ho interesse a cercare di sembrare tale», confida le Carré.
Degli anni in cui lavorò per l’Mi6, il servizio di spionaggio britannico, afferma: «Mi sento uno scrittore a cui a un certo punto è capitato di essere una spia piuttosto che una spia che a un certo punto si è messa a scrivere». Confessa che preferisce rimanere fedele «alla tradizione secolare della scrittura non meccanizzata», trovando meglio l’ispirazione con penna e quaderno, «durante passeggiate, sul treno e al caffè». Scrivere, ribadisce, è comunque quello che gli «piace fare», dividendo la sua vita tra il periodo prima della pubblicazione di “La spia che venne dal freddo”, il romanzo che gli ha dato fama e successo, e tutto quello che è venuto dopo.
Nelle memorie le Carré non risparmia dettagli sui suoi incontri con personaggi famosi. Ricorda un invito a colazione da Margaret Thatcher, in cui chiese all’allora premier britannico di fare di più per la causa dei palestinesi: «Mi rispose freddamente che i palestinesi avevano addestrato i guerriglieri nord-irlandesi dell’Ira, i quali avevano assassinato un suo amico». Il magnate dei media Rupert Murdoch voleva sapere da lui chi fosse responsabile della morte dell’editore rivale Robert Maxwell, misteriosamente affogato dopo essere caduto in mare dal suo yacht: quando Le Carrè risponde di non saperlo, Murdoch perde interesse e se ne va. Lo scrittore esprime scarsa simpatia per Kim Philby, l’agente segreto britannico che faceva il doppio gioco per l’Urss e fuggì a Mosca, mentre è più solidale con Edward Snowden, l’ex-agente della Cia autore delle rivelazioni sul Datagate: «Siamo diventati troppo mansueti riguardo alle violazioni della privacy». La sua, finora, l’ha difesa puntigliosamente. Fino a quando ha deciso di scrivere un libro di memorie.