venerdì 2 settembre 2016

MONDO

La Stampa 2.9.16
Erdogan censura Shakespeare “In scena solo testi turchi”
Bandite dai cartelloni anche le opere di Cechov, Brecht e Fo
I teatri di Stato: rafforziamo i sentimenti nazionali e religiosi
di Giordano Stabile


Anche Shakespeare minaccia la Turchia. Perlomeno lo «spirito nazionale» incarnato dagli autori locali. Quindi meglio toglierlo dal cartellone della più importante compagnia, il Turkish State Theatres, una vera istituzione culturale, che non stata risparmiata dall’opera di «pulizia» annunciata dal presidente Recep Tayyip Erdogan dopo il fallito golpe gulenista del 15 luglio. Qui la purga ha riguardato le persone ma anche le opere. E dalla stagione 2016-2017 sono spariti il Bardo inglese, Anton Cechov, Bertolt Brecht, e anche il nostro Dario Fo. Sostituiti dalle pièce di autori rigorosamente turchi.
La stagione si apre il 4 ottobre, prevede otto opere che saranno portate in 65 teatri in tutto il Paese. «Siamo umanisti nazionalisti - spiega Nejat Birecik, vice presidente dell’associazione dei teatri di Stato -. Apriremo la stagione in tutti i teatri solo con testi locali per contribuire all’unità e all’integrità della patria e rafforzare i sentimenti nazionali e religiosi». «Il sipario della Turchia si apre con il Teatro turco» è lo slogan della stagione, che ha eliminato anche alcune opere turche non in linea con il nuovo spirito, come «La storia ottomana in fotografia» di Turgut Ozakamn e «Il vicolo cieco» di Tuncer Cucenoglu, già bandite durante la campagna elettorale dell’anno scorso.
Per Orhan Aydin, un noto attore di teatro dissidente, è un atto «di fascismo». «Shakespeare, Brecht fanno parte della storia mondiale, sono autori immortali che hanno fatto grande anche lo State Theatres. Non ci sarebbe senza le loro opere. Come può rinunciarci?». E non ci sono solo le pièce cancellate ma anche «decine di attori, ballerini e registi» di altri teatri, finiti sotto inchiesta perché sospettati di «gulenismo»: «Birecik ha chiesto al teatro di Bursa di licenziare molti attori a contratto», per esempio. E basta un sospetto per finire nelle liste di prescrizione.
Le purghe hanno investito anche il mondo dell’arte mentre è notizia di ieri che altri 820 militari sono stati cacciati dalle forze armate, e 648 di loro messi in galera. I giornalisti in carcere, altro dato comunicato ieri, sono 108. E poi c’è l’arresto di una reporter americana, Lindsey Snell, bloccata mentre cercava di attraversare il confine sulla Siria per realizzare un reportage sui ribelli. Un fermo che rischia di rendere ancora più tesi i rapporti fra Ankara e Washington, ai minimi termini dopo il fallito golpe, la richiesta pressante di estradizione verso la Turchia dell’imam Fetullah Gulen, rifugiato in Pennsylvania e ritenuto la mente del colpo di Stato, e l’operazione contro i curdi dello Ypg, alleati dell’America in funzione anti-Isis, in Siria.
Con l’attacco a Shakespeare, però, secondo l’analista del Think Tank Clarion Project William Reed, la svolta conservatrice della Turchia post-golpe si incammina verso una direzione preoccupante. Una sorta di «repubblica islamica ottomana» che ricorda le prime fasi della rivoluzione khomeinista in Iran. Certo la Turchia, Paese sunnita e soprattutto ancora ufficialmente «laico», è diversa. Ma le politiche «contro le minoranze cristiana, ebrea, curda, yazida, alevita» stanno erodendo questo carattere secolare.
Anche i crescenti sentimenti anti-occidentali ricordano la rivoluzione in Iran. La crisi alla base Nato di Incirlik non è finita, e la mobilitazione popolare per farla chiudere o «nazionalizzarla» continua con proteste e sit-in. Prendersela con Shakespeare e Brecht è il sintomo di qualcosa di più ampio. Perché lo «spirito nazionale» che rimanda alla gloriosa storia ottomana rimanda a «un impero musulmano», l’ultimo che assegnava anche il titolo di Califfo al sovrano di Istanbul.

La Stampa 2.9.16
Il primo tentativo fallito
di Marta Ottaviani

Non si salva nemmeno John Steinbeck. Correva l’anno 2013, quando il Provveditorato agli studi della laica Smirne avanzò la proposta di censurare uno dei capolavori dello scrittore americano: «Uomini e Topi». Secondo il Provveditorato, il testo conteneva passaggi «contrari alla morale» e «diseducativi» per gli studenti.
Nel Paese scoppiò un putiferio, portato avanti con decisione dal sindacato insegnanti, secondi i quali non solo il romanzo non offendeva la morale di nessuno, ma era anche un testo fondamentale per la formazione culturale degli studenti. Andò a finire che il libro rimase in commercio così com’è, ma questo non bastò a smorzare la polemica. Alcuni sindacalisti puntarono il dito contro l’Akp di Recep Tayyip Erdogan, reo di voler imporre un vero e proprio giro di vite sulla divulgazione culturale del Paese. E che ha adesso, dopo il repulisti seguito al golpe fallito di luglio, ha sempre meno voci critiche con cui fare i conti.


Corriere 2.9.16
Il G20 dei record: così la Cina si prepara al mega-vertice di Xi
di Guido Santevecchi

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Il Sole 2.9.16
Una nuova governance globale
di Zhang Yanling

Ccpit international director, ex vicepresident di Bank of China

La gente ha gli occhi aperti puntati sul Summit G20 di Hangzhou per vedere se la Cina avrà la soluzione ai problemi della ripresa mondiale.
Voglio fare un passo indietro. A partire dal 2008, anno della crisi finanziaria, la Cina ha svolto un buon lavoro, ha contribuito dal 50 all'80% all'economia mondiale, e sta guidando il mondo intero mantenendo un livello di crescita sostenuta.
Il Summit del B20 per questo deve andare in parallelo con quello del G20, per offrire ai Capi di Governo suggerimenti da parte della comunità di affari.
Al centro del dibattito restano il ruolo della finanza e della supply chain della finanza, che oggi svolge un ruolo cruciale nell'intero processo globale. Ci sono parole e terminologie nuove con le quali abbiamo imparato a convivere.
Ma bisogna fare una premessa.
La finanza non può risolvere tutti i problemi del mondo. Abbiamo bisogno di una governance economica, una governance a tutto campo per trovare soluzioni reali, per assicurare una veloce ripresa economica.
Il mondo del G20 fa appello a una riforma della finanza e chiede anche innovazione nella finanza globale.
Parlando dei suggerimenti del B20 al G20 dobbiamo ricordare che non sono compulsory e che in questo senso bisogna che siano accettati come si fa in un gioco: al gioco bisogna giocare altrimenti non serve a niente.
Stesso discorso vale anche per il committment dei Capi di Stato, bisogna vedere se le raccomandazioni sono implementate oppure no.
Si dice, infine, che i businessmen creano il mondo, i politici lo gestiscono. Niente è più vero di questa affermazione.
Per questo i due ambiti devono interagire e scambiarsi continuamente punti di vista. Come B20, in qualità di Ccpit, Camera di commercio internazionale, come segretariato del Summit, abbiamo fatto un buon lavoro seguendo i principi dell'innovazione, guardando al futuro, a partire dal lavoro dell'advisory board orientato a comprendere la capacità di sviluppare i temi del G20.
Stesso discorso per i gruppi di lavoro: se guardate con attenzione vedrete che alcuni temi sono molto familiari, altri, invece, estremamente innovativi, proprio per catturare le prospettive del futuro.
(Testo raccolto da Rita Fatiguso)

Il Sole 2.9.16
Quelle aperture asimmetriche tra Europa e Cina
Il rapporto della Camera di commercio europea evidenzia gli squilibri a favore di Pechino negli scambi e negli investimenti
di R.Fa.


Pechino La Camera di commercio europea in Cina presenta il suo Position Paper 2016-17 a ridosso del B20-G20 di Hangzhou. Non è un caso. Le 435 pagine prodotte dal Centro studi guidato da Lance Noble sono un macigno contro le ambizioni della Cina di soppiantare il WTO con il G20. Il Paper riporta l’ormai ben nota considerazione dell’ultimo Survey sulla business confidence: il 55% degli intervistati dichiarava che avrebbe rafforzato gli investimenti in Cina se solo la Cina avesse migliorato le condizioni di market access.
«Pechino si sente molto lusingata nell'ospitare il G20, basta guardare le preparazioni intense di questi ultimi mesi – dice il presidente Joerg Wuttke -, è un pò lo stesso spirito delle Olimpiadi di Pechino o dell’Expo di Shanghai del 2010. Ovviamente, loro vogliono fare una bella figura, il problema è che qui bisogna vedere se siamo di fronte a qualcosa di concreto. Il WTO è avvertito dai cinesi come troppo vincolante».
Il tema di questo Position Paper è il piano quinquennale, ma Wuttke preferisce indicare nello squilibrio ormai consolidato tra Europa e Cina il vero punto di riflessione. Squilibrio tra investimenti, tra condizioni di accesso al mercato. «Abbiamo visto in questi anni molti cambi nelle relazioni tra Europa e Cina – dice il presidente della Camera di Commercio europea - prima c’è stato il flusso di investimenti in Cina, adesso si va nel senso contrario, dalla Cina all’Europa, in misura molto più consistente con esempi di acquisizioni come Pirelli per l’Italia e Kuka per la Germania. L’Europa e l’Italia sono molto più aperte. La Cina ha molti limiti. Abbiamo lanciato questo Position Paper con 900 case studies, 900 raccomandazioni che dimostrano come la Cina deve ancora aprirsi. Questo riflette le forze del commercio, non solo gli investimenti».
E si capisce. La Cina vende all’Europa un miliardo di merce al giorno, al contrario l'Europa “solo” 500 milioni. L’Europa vuole vendere di più alla Cina, ma tanti prodotti europei non hanno vie di accesso. «Questo Position Paper cerca di mostrare cosa possiamo fare. La Cina si aspetta entro la fine dell’anno che l’Europa si renda garante dell’applicazione dell’articolo 15, il che vuol dire – continua Joerg - che nel caso in cui ci siano casi di dumping aperti saranno definiti sulla base dei dati forniti dai cinesi. Gli europei potrebbero replicare che la Cina non è un’economia di mercato, perché non è un mercato aperto, ma la Cina potrebbe rispondere, a sua volta, che «comunque non ci interessa dare un’apertura totale».
I rapporti tra Europa e Cina hanno vissuto tempi migliori, insomma. E che ne sarà dello Status di market economy alla Cina? «Non si tratta di una questione di sì oppure no alla concessione dello Status di market economy entro la fine dell’anno, ci sarà, piuttosto, una soluzione positiva con un grande punto di domanda: come l’Europa potrà rafforzare i suoi meccanismi per difendere i posti di lavoro? Credo che si stia lavorando proprio su questo».

La Stampa 2.9.16
Pechino e Shanghai vietano le biciclette elettriche
Troppi morti, ma i cinesi continuano ad usarle: sono gli unici mezzi in grado di muoversi nel traffico. E le multe sono praticamente inesistenti
di Cecilia Attanasio Ghezzi

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Repubblica 2.9.16
Hong Kong sogna l’indipendenza Ora Pechino teme un “nuovo Tibet”
La regione si prepara alle legislative di domenica in stato d’assedio. La Cina vuole reprimere le tentazioni secessioniste, che tra i giovani raggiungono il 90 percento
C’è anche chi ha nostalgia della Corona britannica. I leader di Occupy: “È in gioco la libertà”
di Giampaolo Visetti


HONG KONG DAL QUARTIER generale della polizia, a Fanling, si alza una nuvola rossa. Il vento caldo sparge per il quartiere il gas al peperoncino testato dai reparti anti- sommossa, pronti a spruzzarlo sulla folla. Alla vigilia delle elezioni legislative, Hong Kong è blindata e si prepara al voto di domenica in uno stato d’assedio. Pechino, impegnata nella vetrina G20 del suo soft-power globale, non ammette sorprese imbarazzanti nell’ex colonia britannica. Gli agenti mobilitati sono 5mila, già schierati in ogni quartiere della metropoli. I dieci punti di transito per il Guangdong sono bloccati: sospesi «per aggiornamento tecnico » i visti turistici verso la Cina continentale. Al setaccio della censura anche il web, mai successo nella città- simbolo di libertà e capitalismo.
Un video della Lega della gioventù comunista, mostra immagini- shock di Siria e Iraq: alla fine chiede agli hongkonghesi se vogliono «ridursi a vivere in un posto come questo» e avverte di «fare attenzione alle rivoluzioni colorate sostenute dagli Usa». Lo spettro che si aggira sopra l’arcipelago non è più la democrazia, ma l’indipendenza. A quasi vent’anni dall’addio di Londra, Pechino teme che Hong Kong si trasformi in un esplosivo “nuovo Tibet”, o in una “seconda Taiwan” alimentata dal business e dall’Occidente. Il voto viene così presentato dai media di Stato come «una battaglia da non perdere contro i nemici che vogliono affossare la Cina».
L’ultimo scontro, dopo due anni di crescenti tensioni, scuote gli stessi candidati. Sei gli esclusi in extremis, accusati di non aver sottoscritto una dichiarazione di fedeltà a Pechino, riconoscendo che l’ex colonia «è parte inalienabile della Cina continentale». Per democratici e “localisti” la repressione conferma che il partito-Stato pre-seleziona i candidati, bandendo la libertà politica e di parola. Per l’establishment «fedele alla madrepatria» evocare indipendenza e autodeterminazione è un reato, viola la «Basic Law», la Costituzione cittadina, e il modello «un Paese, due sistemi », compromesso che fino al 2047 assicura a Hong Kong un regime speciale.
Le urne non si sono ancora aperte ed è già guerra legale. Indipendentisti e nostalgici che sognano il ritorno della Corona britannica pretendono di annullare le elezioni. Il governo cinese minaccia «azioni esemplari» contro «candidati ed eletti secessionisti», paragonati a «terroristi». L’incubo collettivo, nella capitale della finanza asiatica, è il caos, o una guerra civile peggiore di quella rischiata due anni fa, durante i 79 giorni della «rivoluzione degli ombrelli».
«Fino a ieri — dice il giurista Benny Tai, fondatore del movimento Occupy 2014 — l’indipendenza era un’utopìa marginale. Ora è una tentazione di massa, che assorbe anche i valori di democrazia e libertà: è il risultato dell’offensiva autoritaria di Pechino, che pretende di normalizzare la metropoli ben prima del previsto mezzo secolo ». La censura del potere filo-cinese ha cancellato i sostantivi «indipendenza » e «autodeterminazione » dai manifesti elettorali. Sequestrati i volantini che li usavano. «L’indipendentismo — dice il leader pro-Pechino Starry Lee — è come una brutta eruzione cutanea. Più gratti e più si irrita. Solitamente non è grave e passa, ma va capito in tempo se è già degenerata in un cancro da rimuovere con il bisturi ».
I sondaggi confermano che la frattura sociale è consumata. Per l’«Università cinese», favorevoli e tentati da un addio alla Cina sono al 40%. Per l’ateneo di Hong Kong solo il 31% dei residenti sono ancora «orgogliosi di essere cinesi», rispetto al 65% del 1997. I secessionisti, tra i 18 e i 29 anni, superano il 90%. «C’è il rifiuto del pugno anti- democratico di Pechino — dice il leader dei “localisti” Edward Leung, escluso dal voto — ma conta anche la voglia collettiva di un atto di sfida per un reale auto-governo ». Per scongiurare assedi alla Commissione elettorale il conteggio dei voti è stato trasferito nel palazzone Expo vicino all’aeroporto, sull’isola di Lantau, presidiato dall’esercito. Democratici e pro-indipendenza temono brogli diretti da Pechino e tornano gli appelli a mobilitarsi per «una rivoluzione ».
La tensione, nel centro degli affari già in crisi per la frenata cinese, è al massimo da mesi. A inizio anno il sequestro dei cinque librai accusati di aver introdotto nel continente testi politici vietati dal partito: catturati in città e all’estero dalla polizia cinese, restano «scomparsi ». Tra luglio e metà agosto la condanna per «raduno illegale» dei tre studenti, leader del «movimento degli ombrelli» che si oppose alla riforma elettorale-truffa imposta dal governo cinese. «Non siamo pentiti — dice Joshua Wong, 19 anni, anima della rivolta e ora fondatore del partito “Demosisto” — e questa vigilia elettorale prova che avevamo ragione. In gioco non c’è il potere, ma la libertà. Pechino vuole schiacciare Hong Kong per cancellare i valori democratici dalla testa di tutti i cinesi: pensare all’indipendenza, come ultima spiaggia, in simili condizioni è naturale ».
In palio ci sono i due terzi dei 70 seggi nel Legco, il consiglio legislativo metropolitano, necessari per approvare le nuove regole del finto «suffragio universale» concesso dal presidente Xi Jinping. La Cina comunista contro la liberale e sempre più filo-occidentale Hong Kong: per evitare, proprio mentre i Grandi sfilano al G20 di Hangzhou, che business e capitalismo adottino la bandiera di un loro «nuovo Tibet».

il manifesto 2.9.16
Dilma: «Non è un addio, tornerò, adesso opposizione dura»
Brasile. Dagli Usa ok per Temer. I paesi socialisti ritirano gli ambasciatori
di Geraldina Colotti


Da una parte dolci e champagne, dall’altra gli scontri con la polizia. La notte dopo l’impeachment ha mostrato così i due volti del Brasile: a favore o contro la destituzione della presidente, decisa dal Senato con 61 voti contro 20. Superato ampiamente il quorum dei 2/3 richiesto agli 81 senatori che hanno giudicato la prima presidente donna del paese per un inesistente falso in bilancio. Le mobilitazioni durano dal 12 maggio, quando Rousseff è stata sospesa dall’incarico per 180 giorni ed è andata a sostituirla il suo vice, Michel Temer, uno degli artefici del «golpe istituzionale».
Dopo l’assunzione di Temer come presidente ufficiale del Brasile, approvata dal Senato, le proteste si sono moltiplicate in una decina di Stati, anche se solo a San Paolo si sono registrati incidenti. La polizia in assetto di guerra non ha potuto impedire che la rabbia dei manifestanti si sfogasse contro i principali simboli dell’attacco a Rousseff, come il grande quotidiano Folha de Sao Paolo.
A San Paolo due diverse concentrazioni di manifestanti, a favore e contro la destituzione, si sono dirette al centro e per la terza notte consecutiva la polizia ha lanciato gas lacrimogeni per disperdere i sostenitori di Rousseff, che hanno risposto alle cariche. A Brasilia si sono mobilitati centinaia di simpatizzanti del Partito dei lavoratori (Pt), ora all’opposizione. Una gran folla ha accompagnato Dilma durante il suo breve discorso, cantando l’inno nazionale. E già nelle prime ore della notte, diverse centinaia di persone si sono riunite davanti al Congresso, al grido di «Fora Temer». Proteste contro «l’usurpatore» si sono verificate anche Rio de Janeiro e in altre capitali dell’interno, come Porto Alegre, Salvador e Vitoria.
Si consuma così, con una rottura istituzionale, la grave crisi politica della principale economia sudamericana, la più grave dalla fine della dittatura (1964-1985). E s’interrompe il ciclo dei governi “petisti”, durato – con Lula da Silva e poi con Rousseff – per 13 anni. Anni di progetti economici rivolti ai settori più deboli e di diritti civili. Anni di crescita in cui i cantori del moderatismo hanno voluto vedere un’improbabile conciliazione fra imprenditori e operai, affaristi e funzionari di un partito forgiato nei grandi ideali. Un punto su cui, nell’ultimo congresso – a crisi ormai conclamata – è tornato a esprimersi il Pt, auspicando un ritorno alle origini e una svolta a sinistra, qualora Dilma fosse tornata al suo posto: un’autocritica rispetto alle magagne messe in luce dalla mega-inchiesta Lava Jato, che indaga l’intreccio tra affari e politica intorno all’impresa petrolifera di Stato Petrobras. Un’apertura rispetto alla domanda di riforme strutturali avanzata in questi anni dai movimenti popolari, che avevano appoggiato Dilma sub condicione nel suo secondo mandato.
Rousseff avrebbe voluto indire un referendum per una riforma costituzionale, onde superare la frammentarietà del quadro politico che ha reso impossibile maggioranze stabili e ha agevolato il disastro. E così una formazione moderata come quella di Temer e dell’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha – il Pmdb – che non ha mai vinto un’elezione, è risultata il sempiterno ago della bilancia per la costituzione di maggioranze. E ha saputo approfittarne, togliendo il puntello alla presidente, sotto attacco dal giorno dopo aver vinto, con poco margine di scarto sul suo avversario di destra Aecio Neves (Psdb).
«Un gruppo di corrotti indagati è salito al potere, da oggi metteremo in atto la più ferma e instancabile opposizione che un governo golpista, omofobo e razzista può soffrire. Farò ricorso in tutte le istanze, il mio non è un addio ma un arrivederci a breve», ha detto Dilma, attorniata dai suoi. I difensori hanno già fatto ricorso alla Corte Costituzionale. L’unica consolazione, per ora, è che Dilma ha potuto mantenere i diritti civili: l’aula ha accettato infatti di stralciare la decisione dell’impeachment da quella dell’interdizione per 8 anni dai pubblici uffici, che sarebbe arrivata di conseguenza. Rousseff è nuovamente stata bocciata, ma senza la necessaria maggioranza dei 2/3.
Temer, che subito dopo l’investitura è partito per il G20 in Cina, ha ribattuto piccato. E mentre, da Cuba al Venezuela, dall’Ecuador alla Bolivia, l’arco dei paesi socialisti ritiravano gli ambasciatori, il governo «de facto» è stato riconosciuto subito dagli Stati uniti, che hanno mosso le loro pedine in questi mesi, e dall’Argentina di Maucirio Macri, i cui fili sono tirati dagli stessi terminali internazionali che muovono il gabinetto Temer. Schieratissimo anche il Paraguay mentre ha mantenuto i piedi in due scarpe la Colombia, perno dell’Accordo del Pacifico (insieme a Cile e Perù) a cui si volgerà l’asse neoliberista per minare la nuova integrazione latinoamericana e il ruolo dei Brics.
A fianco di Dilma, invece, l’ex presidente argentina Cristina Kirchner destinataria, insieme al presidente venezuelano, Nicolas Maduro, di una lettera di Lula da Silva in cui l’ex presidente denuncia i nuovi piani delle forze conservatrici contro l’arco progressista latinoamericano.