CULTURA
Repubblica 2.9.16
“Perché l’uomo è un animale empatico”
Un libro-conversazione del padre dei neuroni specchio Giacomo Rizzolatti racconta la scienza delle emozioni
colloquio di Antonio Gnoli
IL FESTIVAL DELLA MENTE
Giacomo Rizzolatti e Antonio Gnoli saranno domenica al Festival della mente di Sarzana. La XIII edizione diretta da Gustavo Pietropolli Charmet e Benedetta Marietti è in programma da oggi a domenica con 61 relatori e 39 appuntamenti
IL LIBRO In te mi specchio di Giacomo Rizzolatti e Antonio Gnoli (Rizzoli, pagg. 192 euri 18,50)
Uno degli effetti più sorprendenti della scoperta dei neuroni specchio riguarda la possibilità di indagare con maggiore efficacia i comportamenti sociali. Ciò che di solito era affidato alla psicologia e alla sociologia ha trovato una nuova sponda interpretativa nelle indagini sul sistema neurale. Non costituiremmo le nostre relazioni empatiche e interpersonali senza queste cellule nervose. Il loro venir meno o la scarsa capacità di attivarsi possono produrre differenti livelli di patologia e di deficit mentali. A questo punto può forse essere interessante affrontare in modo più preciso come certe dinamiche cognitive si intreccino con quelle sociali.
«È vero: conoscendo i meccanismi biologici, certi comportamenti sociali si possono indagare meglio e con maggiore profondità. Vorrei fare però subito
una precisazione. La nostra ricerca, le nostre scoperte hanno mostrato nuovi importanti meccanismi biologici, ma non hanno un’applicabilità immediata né tantomeno rappresentano la panacea a difficoltà interpersonali. A volte, quando mi capita di parlare in pubblico di fronte a un uditorio di non specialisti, ho la sensazione che chi mi ascolta voglia da me proprio questo. Che gli spieghi non la base neurale di certi meccanismi sociali, ma che gli suggerisca degli esercizi, delle procedure per stare meglio. Più o meno una seduta di yoga su base scientifica. Mi torna in mente un episodio. Un giorno sono venute da me due ragazze, mi hanno raccontato che le relazioni umane in molti uffici della loro azienda erano difficili, tra impiegati ma specialmente con i loro capiufficio, che spesso si consideravano persone uniche e si comportavano con i sottoposti in maniera dura e scostante. E mi hanno chiesto consigli per migliorare la situazione. Ho tentato di spiegare che i nostri dati indicano che l’empatia è una condizione fondamentale, alla base della nostra natura, ma l’empatia non si accende o si spegne come fosse l’interruttore della luce. Il suo grado di realizzazione dipende da numerose condizioni esterne. Non è detto che tutte siano presenti o realizzabili al momento. E soprattutto io non ho mai inventato esercizi per migliorare l’empatia».
Questo aneddoto tocca un problema vero: ogni grande (o piccola) scoperta ha una ricaduta sociale. In fondo, penso che sia questo il compito democratico della scienza.
«La scienza – per come la concepisco io – non è solo un deposito di conoscenze specialistiche. È un bene per tutti, un arricchimento culturale. Come i
Sonetti di Shakespeare, la Commedia di Dante o i quadri del Louvre. Una risorsa capace di migliorare le nostre capacità di ragionare, provare emozioni e non sottometterci a superstizioni antiche o moderne, vedi la follia della moda del “biologico” o la paura degli Ogm. In questo senso la scienza può avere anche ricadute sul benessere delle persone».
Quando parli di arricchimento culturale a cosa ti riferisci?
«Prendiamo per esempio il darwinismo. Ha cambiato la nostra visione del mondo. Non ha sminuito però la posizione dell’uomo nel creato, come pensano molti. Le scimmie non compongono sonetti né risolvono equazioni. Darwin ha descritto dei principi che si applicano agli animali e anche a noi, specie Homo sapiens. Oppure Freud: quando afferma che non siamo pure intelligenze, puri spiriti, ma un insieme di pulsioni, sta ponendo le basi per un modo nuovo e più corretto di pensare l’individuo. [...]».
Siamo arrivati ad affrontare il tema delle emozioni. Da dove si può partire?
«Nel mondo antico i filosofi definivano le emozioni “passioni”. E le vedevano con sospetto, momenti disturbanti della vita. Platone pensava che fossero una specie di “malattia dell’anima” contro la quale il saggio doveva combattere. Una posizione meno negativa assunse Aristotele. Per lui occorreva trovare un giusto equilibrio tra le passioni-emozioni e la ragione. Insomma, Aristotele toglieva loro la pericolosità, imbrigliandole in un discorso sulle virtù. A giudicare poi dal modo in cui le passioni-emozioni rientravano nei rituali dionisiaci, è difficile non riconoscere che il problema non era risolvibile con qualche ammonizione o divieto di natura teorica».
Cosa cambia con l’avvento della modernità?
«[...] Alla fine degli anni Sessanta del Novecento Paul Ekman si recò in Nuova Guinea per studiare se soggetti che non erano mai stati a contatto con la cultura occidentale fossero in grado di comprendere le emozioni degli occidentali. L’esperimento si svolse così: Ekman raccontò agli abitanti locali delle storie e chiese loro di scegliere, fra tre foto di volti di occidentali che esprimevano un’emozione, quale corrispondesse alla storia raccontata. Senza esitazioni i soggetti indicarono l’emozione giusta. Tornato a San Francisco ripeté l’esperimento contrario, chiedendo questa volta a studenti americani di collegare le espressioni dei guineiani alle storie raccontate. Di nuovo, i soggetti scelsero l’emozione giusta».
Quindi le emozioni non sono un fatto culturale, ma biologico?
«Credo che oggi tutti siano d’accordo che le emozioni, almeno quelle di base, siano universali e innate. Non c’è accordo però sul loro numero. In genere sono sette quelle incluse nel novero delle emozioni di base: paura, tristezza, gioia, disprezzo, disgusto, sorpresa e rabbia».
Ma ci sono anche emozioni legate a culture diverse?
«Possiamo dire che accade un po’ come nella musica. Una sinfonia non cambia, ha sempre le stesse note, ma ogni direttore d’orchestra la esegue in maniera personale, unica. Le emozioni di ordine superiore sono identiche nelle differenti culture, ma vengono espresse in maniera diversa, così come fanno i direttori d’orchestra rispetto alla partitura di un’opera. I giapponesi tendono a minimizzare l’espressione delle loro emozioni; altri popoli, le culture meridionali in particolare, ad accentuarla».
Oltre all’essere diffuse in tutte le culture, cosa caratterizza le emozioni di base?
«La durata nel tempo. Prendiamo per esempio la gioia. Un’esplosione di gioia dura alcuni secondi, raramente più di un minuto. Lo stesso vale per le altre emozioni di base. La loro breve durata le distingue da un altro aspetto non strettamente razionale dell’individuo: l’umore. Lo stato dell’umore che segue la gioia, la felicità, può protrarsi a lungo, anche ore. È interessante che, secondo lo stato dell’umore, cambia la nostra suscettibilità agli stimoli che causano le emozioni di base. Se siamo preoccupati, è facile che uno stimolo pressoché innocuo possa suscitare in noi uno scatto di rabbia. La cronaca chiama tale rabbia, quando produce effetti nefasti, “futili motivi”».
Repubblica 2.9.16
Paul Veyne
C’era una volta la tollerante Palmira
di Anna Lombardi
Il grande archeologo francese Paul Veyne ha scritto la storia della città distrutta dall’Is
Mischiavano l’aramaico al latino e al greco, si sentivano cittadini romani ma veneravano divinità esotiche, erano estremamente tolleranti verso ogni tipo di differenza, religiosa innanzitutto. Eccoli gli abitanti dell’antica Palmira, la città martoriata dall’Is: uomini e donne raffinatissimi, che indossavano abiti cuciti anziché drappeggiati – uno stile straordinariamente all’avanguardia per il gusto dell’epoca – e che, dopo essersi arricchiti grazie al loro talento di carovanieri, trasformarono un’oasi del deserto in città dallo squisito gusto ellenico.
A ripercorrerne la storia è un libricino di 100 pagine appena pubblicato in Italia da Garzanti, intitolato appunto
Palmira. Storia di un tesoro in pericolo, dell’archeologo francese Paul Veyne, l’erudito 86enne amico di Michel Foucault, già autore di testi raffinati come I greci hanno creduto ai loro miti? e Quando l’Europa è diventata cristiana.
Sembra quasi di vederlo l’anziano studioso che, all’indomani della distruzione del tempio di Bel a Palmira nell’estate del 2015 per mano dello Stato Islamico, decide sedendosi a tavolino di scrivere di getto, quasi a memoria, la storia di Palmira: «Sono voluto tornare al mio vecchio mestiere di professore, ossia fare la guida turistica nel tempo». Così l’antica città distrutta dai fanatici dell’Is torna a vivere nelle sue pagine, le pietre sostituite dall’abile intreccio di parole che riportano in vita non solo quelle testimonianze andate in polvere, ma la vita di ogni giorno, partendo proprio da quel tempio di Bel «eretto sul fondo di un lunghissimo colonnato che serviva a tranquillizzare il visitatore, segno di appartenenza alla “vera” civiltà ». Ma di cui presto si scoprivano particolarità stupefacenti che ne facevano «l’elemento distintivo di una cultura diversa, pericolosamente vicina alla barbarie nomade ».
Nel libro prendono vita luoghi, divinità, eroine del passato ed eroi del presente. Dalla mitica Zenobia, la regina che dalla provincia polverosa tentò di appropriarsi della corona imperiale sognando di entrare trionfalmente a Roma con il suo esercito, fino a Khaled al Assad, il direttore degli scavi per oltre quarant’anni che di Palmira conosceva ogni segreto, assassinato dai jihadisti perché “idolatra” e a cui Veyne dedica giustamente il libro.
«A metà strada tra il Mediterraneo e l’Eufrate, costruita strizzando l’occhio all’estetica ellenistica senza mai rinnegare le proprie radici», Palmira resta dunque una città straordinaria proprio per come ha saputo trasformarsi in sintesi di culture. Un «luogo dove soffia un fremito di libertà, di anticonformismo, di multiculturalismo»: quello che gli estremisti non le hanno perdonato. Un luogo di sperimentazione, anche artistica, la cui memoria era custodita anche in quei monumenti oggi distrutti. Capolavori come il bassorilievo del tempio di Bel su cui era rappresentata la processione di un gruppo di donne, avvolte dalla testa ai piedi in certi arabeschi di pieghe e di veli talmente astratti da far pensare alle audacie dell’arte contemporanea. Scrive Veyne: «Ostinarsi a conoscere una sola cultura, la propria, significa condannarsi a vivere una vita soltanto, isolati dal mondo che ci circonda ». Nel tempo trascorso fra l’uscita del libro in Francia e la sua traduzione italiana, Palmira, la città che ha sempre scelto di mischiarsi col mondo, è stata liberata. Duemila anni dopo, il suo messaggio di tolleranza è più forte che mai.
IL LIBRO Palmira di Paul Veyne (Garzanti, trad. di E. Lana pagg. 104 euro 15)
La Stampa 2.9.16
Festival di Venezia
Stravince la forza del cuore nel classico filmato melò
di Alessandra Levantesi Kezich
L’amore in tutte le sue declinazioni, come aspirazione al Bene, come attrazione che travolge, come sentimento che risana: inaugurata sulle note dolci amare del romantico La La Land, il concorso torna su questo tema universale della vita e dell’arte con due film che non potrebbero essere più diversi. Les Beaux Jours d’Aranjuez (da un verso del Don Carlos di Schiller) di Wim Wenders traduce sullo schermo un testo teatrale di Peter Handke: dialogo d’estate di un uomo e una donna che con sconcertante sincerità si confrontano su esperienze sessuali e guerra dei sessi, dissertando di eros e psiche. In realtà parlano di un paradiso perduto per sempre e non a caso fra loro passa e ripassa simbolicamente una mela, il biblico frutto del peccato originale. Reminiscente del cinema di Rohmer o forse di De Oliveira, Wenders sceglie un registro aereo e letterario, traendo suggestione dal magnifico paesaggio campestre, ma a dispetto del 3D il tutto resta troppo statico e voluto.
E su questa chiave di conversazione filosofica alla francese, stravince la forza del cuore di The Light Between the Oceans, ispirato al romanzo dell’australiana M. L. Stedman (Garzanti) la cui lettura ha folgorato Derek Cianfrance: cineasta che già in Blue Valentine e The Place Beyond the Pines aveva dimostrato la sua vocazione a penetrare nei recessi di coscienze divise fra imperativo morale e pulsioni affettive. Qui - soprattutto nella prima parte, quando le anime vulnerate del guardiano del faro Michael Fassbender e di sua moglie Alicia Vikander si fondono al calore della passione contro uno scenario di mare e solitudine - Cianfrance affonda nel melò con una potenza di linguaggio degna di Cime tempestose. Poi, nello snodarsi degli eventi, la maniera prevale: ma che maniera! E che attori!
Corriere 2.9.16
Festival di Venezia
Wim Wenders in gara: la mia opera in 3D sull’utopia dei sentimenti
di Giuseppina Manin
Venezia Com’è stata la prima volta? Dov’eri? Cosa hai provato? E poi tutti gli altri uomini con cui sei stata… L’uomo interroga la donna che gli siede accanto in un giardino di paradisiaca bellezza. Lei risponde senza censure, senza schivare i dettagli, anche i più scabrosi. Il gioco della verità non fa sconti né prigionieri. E quella che sembra una conversazione amorosa si trasforma in una confessione spietata su sesso, amore e disamore. Sullo stare insieme anche quando i bei giorni sono passati e non torneranno più. Les Beaux Jours d’Aranjuez, film di Wim Wenders nato dalla pièce di Peter Handke che cita i versi del Don Carlos di Schiller e ammicca ai disperati Beaux Jours di Beckett. Wenders, che da tempo voleva tornare a lavorare con l’amico austriaco, suo complice sullo schermo per Prima del calcio di rigore, Falso movimento, Il cielo sopra Berlino, ha scelto questo testo nato per il teatro, che definisce «Una riflessione a due voci sul tempo e il desiderio». E l’ha trasformato in puro cinema grazie anche all’uso sapiente di un 3D capace di calare lo spettatore nella profondità naturale di ciò che accade, coinvolgendolo nel fitto dialogo tra i due protagonisti, Sophie Semin e Reda Kateb. Lei che nella vita è la moglie di Handke, lui che a Handke giovane somiglia in modo singolare. E lo scrittore compare a sua volta nel film, sia nel suo doppio impersonato da Jens Harzer, l’autore che gioca pirandellianamente coi suoi personaggi, sia in carne e ossa, cappello di paglia e cesoie in mano. «Peter vive in campagna, è un buon giardiniere. Doveva esserci» assicura Wim. Altro magnifico cameo quello di Nick Cave, struggente interprete di Into my Arms. E infine il jukebox. «Il coro greco della storia, le cui canzoni s’intrecciano con la vita, vanno a completare il dialogo tra lui e lei». Non esistono amori felici è la morale del duello dei sessi. «L’amore resta un’utopia, per questo è così prezioso. Come faremmo al cinema senza l’amore e la morte?».
La Stampa 2.9.16
Festival di Venezia
Quando tra di noi arrivano gli alieni la fantascienza racconta il presente
In “Arrival”, alla Mostra in concorso, il mondo si divide tra violenza e dialogo Altro che astronavi e marziani: la storia futuribile somiglia molto all’attualità
di Alberto Mattioli
Oddìo, sono arrivati i marziani. Al cinema non è esattamente una novità, ma stavolta hanno fatto le cose in grande: dodici delle loro enormi astronavi ellittiche, simili a cozze però tutte lisce e di un grigio molto minimal-chic, sono atterrate in altrettanti punti del mondo, che ovviamente impazzisce. Mentre le folle sono in preda al panico, l’Onu ai reciproci ostruzionismi e le tivù a dirette alluvionali, si pone il problema di cosa fare con l’alieno: parlargli o sparargli?
Il film è stato molto ben accolto ieri al Lido. S’intitola Arrival e il regista è il canadese Denis Villeneuve, uno che con la fantascienza ci sa fare tanto che sta lavorando al remake di Blade Runner, speriamo bene, e a Venezia non è venuto. I suoi extraterrestri emettono suoni indecifrabili ma minacciosi come parlamentari grillini. Gli americani decidono però di provare il dialogo.
Il tosto colonnello Forest Whitaker arruola un’équipe di cervelloni nella quale spicca la linguista poliglotta interpretata da Amy Adams (stre-pi-to-sa), la quale ha anche una storia complicata e dolorosa alle spalle. Quando finalmente si fanno vedere dentro l’astrocozza, gli alieni risultano dei grandi polpi con sette tentacoli. E, sorpresa, «parlano» spruzzando dalle spire getti di un liquido scurissimo, tipo nero di seppia, che forma strani disegni circolari.
Inutile dire che la professoressa Adams riesce a decifrare i geroglifici (e contemporaneamente ritrova l’ex marito scienziato, padre della sua bimba morta). Purtroppo non segue dibattito come nelle nostre civili consuetudini, anzi si rischia una guerra devastante. I cinesi decidono di attaccare gli alieni prima che gli alieni attacchino loro. Il mondo verrà salvato in extremis, quando i vari Paesi capiranno che è meglio mettersi d’accordo per colloquiare insieme con i vicini stellari.
Insomma, trionfano pace e buona volontà, e questo è il momento più fantascientifico (per inciso, c’è da notare che a Hollywood, China is the new Ussr, e appena c’è un cattivo ha subito gli occhi a mandorla). Aggiungete al ricco menu tutta la tragedia personale della superprof, molte divagazioni sul Tempo che per noi è lineare (prima-adesso-dopo) ma magari nell’Universo è circolare come nel Parsifal, qualche benedetta spruzzata d’ironia, molta suspence. In questa Mostra piena di fantasmi, cannibali, esorcisti, trasmigrazione di corpi e insomma di soprannaturale ci stanno bene anche gli alieni, e del resto sul concorso incombe anche La region salvaje del messicano Amat Escalante, «parabola sociale» che parte dalla caduta di un meteorite.
Però, a guardarci bene, il vero tema di Arrival, e forse la ragione per la quale ha tanto colpito, non è per nulla fantascientifico e nemmeno futuribile: che fare, quando arriva l’Altro (e di altri, non alieni ma quasi, in questa vecchia Europa ne stanno arrivando decisamente tanti)? L’alternativa è sempre quella descritta dal film, con risultati imprevedibili in entrambi i casi. Con il suo pensiero politically correct, doverosamente progressista, inevitabilmente liberal, Hollywood non ha dubbi: meglio parlare.
La stessa Adams, in conferenza stampa, ha descritto il suo personaggio come «un’eroina del dialogo in uno scenario in cui c’è chi vorrebbe scatenare una guerra dall’esito incerto». Qui, è chiaro, si dimentica che la guerra ha la sgradevole caratteristica di poter essere iniziata da una sola parte in causa, mentre per fare la pace bisogna che siano d’accordo entrambe. Però il messaggio del film è che, prima di passare ai fatti, sarebbe bene esaurire ogni possibile riserva di parole, provando il dialogo anche quando sembra impossibile, e sembra che l’Altro non possa o non voglia capirci. Una volta di più, la miglior fantascienza immagina il futuro per raccontare il presente.
Corriere 2.9.16
Festival di Venezia
Amy Adams tra gli alieni: un film contro la paura
Eroina del dialogo tra extraterrestri e umani in «Arrival» Una metafora sulla volontà di capire chi è diverso da noi
di Stefania Ulivi
Venezia Decrittare il linguaggio degli alieni? Una passeggiata per Amy Adams. Il vero scoglio, rivela, è stato il mandarino che il suo personaggio, la linguista Louise Banks, si trova a parlare in una scena di Arrival , il film di fantascienza con cui Denis Villeneuve ( La donna che canta , Sicario ) è in concorso al Lido. «Avevo due settimane di tempo per imparare quattro battute. Con troppa superficialità, fidandomi della mia esperienza d’attrice, ho contato di farcela. Invece è una lingua così piena di sfumature, inafferrabile, e al momento di girare non ero pronta, mi sono fatta prendere dal panico, non ricordavo più nulla», racconta l’attrice che oggi sarà nuovamente al centro della scena con un altro titolo in gara, l’atteso Nocturnal Animals di Tom Ford.
Al contrario, in Arrival (uscirà per Warner il 24 novembre) la sua Louise sembra essere l’unica a mantenere i nervi saldi di fronte all’isteria planetaria causata dall’apparizione, dalla Russia agli Emirati Arabi, dalla Cina agli Usa, di dodici alcune navicelle extraterrestri. Enormi ciottoli neri sospesi — ispirati all’asteroide Eunomia, ha spiegato il regista canadese che qui a Venezia arriverà solo nei prossimi giorni, quando potrà abbandonare il set del sequel di Blade Runner che sta girando in Ungheria con Ryan Gosling — guidati da esseri misteriosi, gli eptapodi, con cui la studiosa è incaricata, dal governo Usa, di stabilire una comunicazione. È una donna che non ha più nulla da perdere: la perdita della figlia Hannah a causa di rara forma di tumore l’ha segnata. A Amy Adams è bastato dare un’occhiata alla sceneggiatura (liberamente tratta dal racconto Story of your life di Ted Chiang) per accettare. «Louise mi ha conquistata sin dall’inizio: vediamo scorrere il suo passato drammatico e capiamo l’umanità che ha dentro e la spinta verso la comprensione degli altri» spiega. «È un’eroina del dialogo in una situazione in cui c’è invece chi vorrebbe scatenare una guerra dall’esito incerto».
Non lo considera un film di fantascienza. «Il tema di base è la volontà di capire come antidoto alla paura dell’altro. Louise cerca l’ umanità di questi esseri. Lei è una scienziata geniale, simile a tante donne che cercano un equilibrio, un senso alla loro vita».Con Villenueve racconta di essersi intesa alla perfezione. Un po’ un alieno lo è anche lui, canadese del Québec, a suo agio tra gli studios hollywoodiani con un’opera di fantascienza su generis («Più un film sui ponti che sui muri», ha spiegato). In cui trasforma il supereroe Jeremy Renner in pacato scienziato impegnato a fare calcoli. E dove al posto delle distruzioni apocalittiche mette teorie antropologiche e linguistiche e riflessioni sul tempo.
Cosa succederebbe se sapeste che voi o i vostri cari stanno per morire? Vorreste conoscere il futuro in anticipo? «Sono la regina dell’ansia, conoscere il mio destino non credo mi calmerebbe neppure se fosse tutto positivo — risponde Adams —. Ma il film ci dice che l’importante è vivere, apprezzare ogni momento».
La Stampa 2.9.16
La Cina investe nel cinema europeo
Oggi alla Mostra del Cinema di Venezia è stato firmato un accordo che porterà 600 milioni di dollari di investimenti cinesi nel cinema in Europa, in particolare in Italia, grazie al neonato Sino-Italian Film Culture Development Fund. «Siamo onorati di poter dare un significativo contributo alle giovani generazioni di cineasti italiani ed europei», ha affermato Jiang Bo, presidente della Shanghai Film Art Academy