venerdì 2 settembre 2016

ITALIA

La Stampa 2.9.16
Decine di tecnici e imprenditori nel mirino della procura di Rieti
Si stringe il cerchio, primi sequestri anche per le abitazioni private. E chi eseguì la ristrutturazione della scuola tira in ballo la direzione lavori
di Antonio Pitoni

qui

La Stampa 2.9.16
Quei 90 milioni inghiottiti dalla rete delle consulenze
Una sede esterna solo per i documenti da sequestrare
di A. Pit.


Follow the money. Il filo sul quale viaggia l’inchiesta della Procura di Rieti è, a conti fatti, proprio quello dei soldi: come sono stati assegnati e a chi, come dovevano essere spesi e come sono stati realmente utilizzati. Un flusso di denaro di circa 90 milioni di euro erogati a enti e privati in due distinti piani stralcio, come raccontato nei giorni scorsi da La Stampa, che ha alimentato la ricostruzione post sisma del 1997. E una lunga serie di lavori che ha interessato edifici pubblici e privati nei comuni di Accumoli e Amatrice colpiti dalla scossa del 24 agosto.
Non ci sono solo il crollo della scuola Capranica e i danni subiti dall’Ospedale Grifoni o dalle caserme dei carabinieri e del corpo forestale. Né il dramma dell’Hotel Roma e delle decine di persone morte sotto i resti delle abitazioni private. Le indagini, coordinate dal procuratore capo Giuseppe Saieva, sono partite dall’ultimo terremoto, ma gli investigatori stanno riavvolgendo il nastro di quasi vent’anni. Non è un caso che, nelle ultime ore, il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Rieti abbia acquisito negli uffici della Regione Lazio e della Provincia di Rieti, tutta la documentazione relativa agli interventi di ristrutturazione e miglioramento sismico successivi proprio al ’97. A Palazzo d’Oltre Velino, sede della Provincia reatina, l’attenzione delle Fiamme Gialle si è concentrata sugli stanziamenti di cui, dalla fine degli anni ’90, hanno beneficiato enti pubblici e privati cittadini. Oltre a tre diversi interventi nel comune di Amatrice successivi al terremoto di L’Aquila del 2009: circa 800 mila euro per le riparazioni e il miglioramento sismico dell’istituto alberghiero; altri 300 mila per analoghi lavori sulla caserma all’epoca occupata dai carabinieri del comune del Reatino, per i quali sono arrivati altri 80 mila euro dal bilancio provinciale; 200 mila dall’accordo di programma del 2012 tra Comune e Provincia per i lavori sulla scuola Capranica.
Indagini che, sebbene datate, non comporteranno - almeno questa è la linea della Procura di Rieti - rischio di prescrizione. Al riguardo si seguirà quello che è stato ribattezzato «modello San Giuliano», richiamando il tragico crollo del 2002 della scuola nel comune molisano in provincia di Campobasso: il termine di prescrizione, per tutti gli eventuali reati accertati, inizierà a decorrere dal giorno del terremoto. La mole di documenti e reperti che gli inquirenti prevedono di acquisire sarà tale, come del resto aveva già anticipato lo stesso Saieva, da rendere necessaria una sede esterna alla Procura. Sede che sarebbe già stata individuata nella frazione reatina di Lisciano, per custodire tutto il materiale raccolto e che potrebbe ospitare anche il quartier generale dell’inchiesta. Gli uomini della tributaria stanno inoltre ricostruendo nel dettaglio le modalità dell’assegnazione degli appalti e degli incarichi tecnici, passando sotto la lente eventuali rapporti sospetti tra politici e imprenditori. Non è escluso che la Procura possa chiedere rinforzi oltre i confini del capoluogo sabino per potenziare l’organico delle forze dell’ordine impegnate nelle indagini. Anche l’Anac sembra intenzionata ad allargare il campo delle indagini a tutti gli edifici pubblici che hanno beneficiato di finanziamenti pubblici per le ristrutturazioni.

Il Sole 2.9.16
Il sismologo
Boschi: «Dopo L’Aquila una replica prevedibile, ma non si è fatto nulla»
di Mariano Maugeri


Norcia (e non solo) è ben oltre la soglia di una crisi di nervi. Le voci allarmanti si rincorrono: sono sussurri, non grida, ma si amplificano con forza dirompente del passa parola. In troppi sono convinti che la sequenza sismica, con oltre 3.200 scosse seguite a quella del 24 agosto, sia tutt’altro che in fase discendente. Enzo Boschi, sismologo dell’università di Bologna ed ex capo dell’Ingv ai tempi del terremoto dell’Aquila, uscito immacolato dalla sentenza di appello sulla Commissione grandi rischi, analizza per il Sole 24 Ore le mappe sismiche sfornate dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. «Capisco la paura della gente dell’Appennino, ma ricordo che dopo il terremoto dell’Aquila di scosse di assestamento se ne contarono oltre 54mila. E nel ’97, dopo quello che colpì l’Umbria e le Marche, arrivammo a quota 40mila. È un processo naturale: la crosta terrestre si sta liberando dell’energia accumulata».
Il professore da anni ripete inascoltato la sua lezione di sismologia. Spiega: «Dopo l’Aquila era certo che ci sarebbero state repliche di notevole intensità sull’Appennino centrale. Ci si doveva preparare per tempo e mettere in sicurezza le case e gli edifici pubblici. Amatrice era uno degli obiettivi possibili. Invece si sono buttati via sette anni». Sull’emergenza di Norcia è meno pessimista: «In Umbria hanno costruito bene, la scossa del 24 agosto è come se li avesse collaudati: quello che funziona resta in piedi. Capisco la paura degli sfollati. Le scosse si ripeteranno, questo è certo, saranno di discreta entità e l’esperienza non ci fa escludere la possibilità di scosse altrettanto intense di quella di magnitudo 5.4».
Boschi confessa che le immagini post terremoto non riesce più a guardarle: «Sono scene di guerra, peggio di un bombardamento. È inaccettabile assistere alla morte di mamme, bambini e vecchi. L’ingegnere è responsabile del progetto che firma. Esiste l’ordine degli ingegneri, perché non si assumo provvedimenti nei confronti di chi ha costruito in quel modo? O forse è il solito meccanismo italiano: di fronte ai quattrini i controlli si allentano e si è pronti a chiudere sempre un occhio, se non tutti e due».
Di sottovalutazioni è lastricata la storia dei sismi italiani. Fu così anche in Emilia. Racconta Boschi: «La prima grande botta di magnitudo 5.9 arrivò nella bassa modenese il 20 maggio del 2012. Nessuno fece nulla e non si riunì neppure la Commissione grandi rischi. La scossa devastante colpì nove giorni dopo, il 29 maggio. E lì purtroppo ci furono i 24 morti».
Alla storia dei terremoti si accoppia quella dei soccorsi e dei salvataggi. Boschi ritorna con la memoria agli anni dell’Aquila, quando Guido Bertolaso e la Protezione civile «riuscirono a mettere in sicurezza 70mila persone in un giorno». Il professore su questo argomento è netto: «A quei tempi la Protezione civile aveva una leadership chiara e forte. Criticabile da molti punti di vista, ma imbattibile sul piano dell'operatività».
Dell’abbaglio più celebre, a proposito di previsioni di terremoti, fu vittima il professor Mario Monti, che s’improvvisò sismologo mentre era alla guida del suo governo. «Il nove giugno del 2012 - racconta Boschi - rilanciò una notizia della Protezione civile secondo la quale una forte scossa tellurica avrebbe colpito l'area tra Finale e Ferrara». A dieci giorni dal sisma in Emilia quell’affermazione alimentò una comprensibile catena di critiche e smentite. Il terremoto per fortuna non ci fu, eccetto una scossa di lieve entità tra Belluno e Pordenone, 150 chilometri a nord dal luogo indicato dal premier.

il manifesto 2.9.16
Sisma e crisi
Le macerie sui Palazzi della politica
Alla faglia geologica si è aggiunta una vera e propria faglia democratica. Abbandono delle aree interne a favore dello sviluppo costiero, subordinazione delle politiche di risanamento ai vincoli della spesa pubblica, svuotamento delle autonomie locali a favore della centralizzazione: tante facce di un unico fenomeno, il modello di sviluppo capitalistico all’italiana
di Aldo Carra


Sembrava fino a pochi giorni fa che l’agenda politica dei prossimi tre mesi fosse stata già scritta: tema referendum, svolgimento con parti già assegnate agli attori politici ed unica incognita la dimensione che avrebbe assunto il No dentro il Pd. Ma il terremoto ha mandato in frantumi anche questo copione.
Già dopo le elezioni amministrative, quando tutti aspettavano una calda direzione del Pd ed una resa dei conti con la sinistra, la strage di Dacca aveva cambiato il clima interno ed attenuato lo scontro. Adesso il terremoto apre nel panorama politico, e non solo dentro il Pd, una fase nuova.
La cui evoluzione è imprevedibile tanto che qualcuno addirittura ipotizza lo spostamento del referendum. In ogni caso il referendum ha perso centralità ed altri temi si stanno imponendo all’attenzione.
Il manifesto ha già ospitato interessanti contributi che mettono in agenda il tema del modello di sviluppo. Questa mi sembra la strada giusta che dobbiamo seguire nell’interesse generale del paese ed in quello più specifico della sinistra.
La morte della politica di cui si era già cominciato a parlare, adesso, è ancora più evidente nel contrasto clamoroso tra cittadini attivi, corpi professionali specializzati, sentimenti profondi di solidarietà umana che si sono sprigionati come se le energie naturali liberatesi dalle viscere della terra avessero sprigionato una carica di energia collettiva ed una classe politica che le sue più belle figure le ha fatte quando ha taciuto.
Invece dopo una brevissimo silenzio essa ha parlato, ha riempito schermi e pagine stampate di banalità, dichiarazioni vuote e sempre uguali, paragoni vergognosi tra risorse per immigrati e risorse per terremotati. Squallide recite di parti in commedia per differenziarsi dagli altri e dai propri sodali (vedi posizioni dentro la Lega).
Così alla faglia geologica si è aggiunta una vera e propria faglia democratica.
Qualcuno con brutale sincerità e viscido sorrisetto ha detto che il terremoto sarà occasione per una ripresa dell’economia. Non siamo al livello di chi si fregava le mani per la gioia mentre l’Aquila crollava, ma restiamo ancora fermi all’idea di una economia che gira intorno alla produzione materiale, all’economia del Pil – anche i disastri fanno Pil – ed alle nozioncine keynesiane.
Siamo dove eravamo, insomma. Non certo dove dovremmo essere. E perciò davanti ad una frattura che cresce tra coscienza collettiva e livello e qualità della politica.
Dovremmo, invece, chiederci perché non abbiamo fatto passi avanti rispetto al passato (i terremoti non si possono fermare, ma le loro conseguenze si possono ridurre), pur essendo un paese in cui zone sismiche e frequenza dei fenomeni sono state studiate abbastanza da poter attuare politiche di manutenzione e messa in sicurezza efficaci.
È solo un caso o una dimenticanza? No. Quanto è accaduto è la risultante di tanti fattori ben noti: abbandono delle aree interne a favore dello sviluppo costiero, subordinazione delle politiche di risanamento ai vincoli della spesa pubblica, svuotamento delle autonomie locali a favore della centralizzazione e tanti altri fattori ben analizzati negli articoli di questi giorni.
Queste cose messe insieme non sono che tante facce di un unico fenomeno: il modello di sviluppo capitalistico all’italiana, la sua torsione finanziaria ed efficientista, sposata con l’intreccio tra politica, affari, clientele che nelle realtà locali trovano l’acqua in cui nuotare.
Le macerie sono il crollo di questo modello. Modello di spesa pubblica sbagliato perché non è che non si sia speso, ma si è speso male e per obiettivi di breve termine ed elettoralistici. Ed è lo stesso modello adottato a livello nazionale con politiche di incentivi mirate solo a raccogliere consensi.
Ma proprio in questi giorni emerge, con tragica contemporaneità, anche il crollo di questa idea di politica economica: miliardi di euro sprecati per ottenere risultati occupazionali e di crescita inferiori a quelli di paesi che non hanno speso niente e fiducia delle imprese e delle famiglie in calo.
Abbiamo dato alle imprese quello che chiedevano, ma esse non hanno investito e non hanno creato lavoro. L’economia non è il libro cuore o il mercatino del baratto domenicale! Le iniezioni di fiducia a forza di dichiarazioni e spot durano poco!
Insomma qui sta crollando tutto, anche la fragile costruzione renziana di una politica senza spessore culturale e visione strategica. Ma il grande comunicatore avrà gioco facile a tenere la scena con tutto quello che ci sarà da fare per recuperare così i consensi che rischiava di perdere su altri terreni, referendum compreso.
Ma avrà gioco facile anche per un altro motivo: per l’assenza totale di un campo di sinistra che fornisca una lettura organica della relazione eventi ambientali-politica-affari-sistema economico e soprattutto che sia presente nei media nazionali e nei territori con proprie forze, proposte, idee.
Voglio sperare che la sinistra politica sia immersa in una pausa di riflessione, che stia ragionando su come prepararsi ad una funzione attiva nei territori nella fase di ricostruzione che si apre, su come starci per edificare insieme alle persone una nuova politica fatta di partecipazione di progettazione condivisa, di controllo dal basso delle fasi e del rispetto delle regole.
Insomma impegnata a discutere e ragionare su come costruire una leva di cittadini impegnati, di nuovi amministratori locali, una nuova classe politica che riparta dal basso e dai problemi. Voglio sperarlo perché questo compito non possiamo lasciarlo solo ai 5stelle.

La Stampa 2.9.16
Topi, rifiuti, pressioni. I 70 giorni di Virginia divorata dalla capitale
Dalla vittoria alle polemiche sugli stipendi d’oro
La sindaca paga l’assenza di empatia con i romani
di Mattia Feltri


Il problema della portavoce perfetta è che non c’è più la voce. Virginia Raggi era stata scelta da Gianroberto Casaleggio per ragioni non strettamente politiche: bella presenza, capacità di parlare, buona inflessione (a differenza del rivale interno, Marcello De Vito, di sfacciato timbro romanesco), e poi è donna, particolare che fa tanto modernità. E dunque Virginia doveva essere l’insuperabile prodotto del laboratorio a cinque stelle.
Un prodotto scelto senza dar peso alle competenze, proposto al mondo con abbondante anticipo per il buon esito delle primarie online, il semplice e altissimo collettore della volontà popolare, magari reinterpretata dallo stesso Casaleggio o dai ragazzi del direttorio, ma a portata di mano, una di noi. Qui era stato scritto che lei aveva vinto alla grande come avrebbe vinto alla grande chiunque altro, purché portasse il marchio di purezza di Beppe Grillo, e che Roma è città fra le più complicate d’Italia: in particolare, era curioso che una così vasta comunità, cinica, disincantata, anarchica a suo modo, convinta che le regole siano aggirabili, o interpretabili, o meglio trascurabili, portasse in Campidoglio una forza politica al grido onestà-onestà.
Ma fosse soltanto questo il punto di discrepanza fra popolo e sindaco. In Raggi sorprende la totale mancanza di empatia coi cittadini della cui volontà dovrebbe essere sommo custode, e con cui dovrebbe vivere in comunione: ieri alle cinque di mattina ha comunicato via Facebook le dimissioni del capo di gabinetto, e poi più nulla. Non una parola nemmeno sulle dimissioni successive, rassegnate a catena, non una riga sul sito istituzionale del Comune e nemmeno su quello di propaganda di Grillo, che in apertura ha conservato per tutto il giorno le invettive contro la campagna per la fertilità del ministro Beatrice Lorenzin. È il paradigma di come Internet, lo strumento della democrazia diretta, diventa con una magica giravolta lo strumento della lontananza.
Non c’è più la voce, Casaleggio, e l’impressione è che non sia nelle corde della portavoce perfetta il più ovvio presupposto di un sindaco romano: fare l’occhiolino al popolo, starci in mezzo, l’arringa e la pacca sulla spalla, se necessario con un tocco d’astuzia, e si sarebbe giurato che fosse la forza principale dei cinque stelle; persino Gianni Alemanno e Ignazio Marino, il primo a spalar la neve, il secondo per Roma in bicicletta, hanno galleggiato perché non si ritirarono nella casa di cristallo (altro che di vetro). Non è un difetto del movimento: Chiara Appendino a Torino, ma anche Federico Pizzarotti a Parma e Filippo Nogarin a Livorno, hanno una sintonia con la città che va oltre le loro prove da amministratori. Virginia Raggi è fedele a un parossismo orizzontale senza picchi e profondità. Esordisce in consiglio comunale leggendo cantilenante un testo prefabbricato, affronta l’emergenza dei rifiuti coinvolgendo Manlio Cerroni (l’uomo di Malagrotta, la più grande discarica d’Europa), indicato per settimane e mesi come l’anticristo dell’ecologia. E poi distribuisce stipendi inaspettatamente succosi, chiama consulenti dal Nord Italia, infine si ritrova pressoché senza giunta a quasi novanta giorni dalle elezioni e a settanta dall’insediamento. E parrebbe tutto normale, niente che richieda uno scatto, un’eccezione alla lontananza anche malmostosa da Politburo, un affaccio al balcone, una diretta streaming, qualcosa. Al di là di questi esordi molto più difficoltosi del previsto, stupisce che nessuno si ponga il problema di una città che conserva memoria della propria grandezza, abituata a divorare chiunque, bestie ben più grosse, figuriamoci una giovane donna povera di aggettivazione, di pathos, di romanità pura, una barchetta che va dove la porta l’onda, e infatti si presentò come un sindaco disposto a mollare tutto, se soltanto glielo avesse chiesto Beppe Grillo. Beh, se le cose non cambiano alla svelta, probabilmente Roma - coi suoi milioni di abitanti e le sue migliaia di anni, col suo spirito capoccia, la sua esuberante e comprensibile prosopopea - finirà presto col pronunciare l’eterno flaianesco «scànsate».

La Stampa 2.9.16
I corrispondenti dei giornali stranieri
“Per risollevarsi risolva i problemi dei cittadini”
di Francesca Paci


Raccontano i colleghi della stampa estera di essere rimasti sorpresi loro stessi dall'attenzione delle rispettive testate per l’elezione di Virginia Raggi nel plebiscito del 19 giugno, quando all’indomani del trionfo pentastellato «The Guardian» titolava sul «sindaco per tutti i romani», «Le Monde» salutava l’avvento della prima donna al Campidoglio e «El País» vedeva nel risultato delle amministrative la nascita dell’«alternativa al governo». Da allora gli occhi stranieri sono puntati su di lei.
«Appartengo al gruppo degli attendisti, bisogna dare tempo alla Raggi, ma certo questa partenza non è delle più felici», nota Michael Braun corrispondente di «Die Tageszeitung» e della radio pubblica tedesca. Gli strali del Pd contro la città allagata alle prime piogge lo fanno sorridere, sul resto segue il day by day: «E’ presto per darla per spacciata. L’impressione è però che le sue forze siano assorbite più a risolvere i problemi interni dei 5 Stelle che quelli dei romani. S’intuiscono difficoltà di governance, pare che la giunta non riesca a costituirsi ma la storia è aperta, può avere un esito virtuoso o il suo opposto».
Anche Olivier Beaube della Afp preferisce aspettare: «Non è possibile fare un bilancio a due mesi dall’insediamento. C’è stata l’estate, ci sono le difficoltà della giunta, ma c’è anche da dire che la Raggi ha risolto almeno temporaneamente l’emergenza rifiuti a Roma. La politica si nutre delle polemiche e la governance di Roma è emblematica, ma per una valutazione bisogna attendere». Il tema interessante, secondo Beaube, è l’autonomia della sindaca: «C’è lei ma dietro di lei sono in tanti. Il nodo è sapere che margine di manovra abbia».
I pareri sono tutti molto simili, i corrispondenti stranieri stanno alla finestra. Una collega veterana dell’Italia che preferisce esprimersi in forma anonima sottolinea quanto le difficoltà iniziali fossero già scritte: «La partenza difficile della Raggi era prevedibile. Sui rifiuti ha reagito un po’ estemporaneamente, ma bisogna dire che ha affrontato l’emergenza tamponando e magari approfittando dell’assenza di gran parte dei romani. Ora ci sono queste dimissioni, pare che ci si stia un po’ perdendo sulla questione in realtà marginale delle Olimpiadi. L’importante invece è il debito che si accumula e su cui sarebbe dovuta partire una negoziazione con il governo. Insomma, stiamo a vedere, ma diamole il tempo necessario».

Corriere 2.9.16
La reazione di Raggi. Le lacrime: «Basta o mollo»
È resa dei conti con il mini direttorio
La sindaca al centro di una guerra intestina. Taverna la rivolta per le scelte del sindaco
di Ernesto Menicucci

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Corriere 2.9.16
M5s si conferma il peggior nemico dei propri piani su Palazzo Chigi
di Massimo Franco


Sostenere, come fa il Movimento 5 stelle, che in Campidoglio non si è aperta una crisi ma è in atto un’operazione di trasparenza, significa minimizzare in modo sospetto. Cinque dimissioni in un solo giorno, tra cui quella dell’assessore al Bilancio e del braccio destro del sindaco, mostrano una situazione di vera difficoltà. Per Virginia Raggi, si tratta di inciampi seri: soprattutto perché sembrano la conseguenza in primo luogo di conflitti all’interno del movimento di Beppe Grillo.
Faide interne, figlie del modo in cui la giunta si è formata circa due mesi fa; della voglia della sindaca di avere le mani libere dall’ipoteca di alcuni sottocapi romani che non l’hanno mai amata; e di una vistosa inesperienza. La rapidità e il clamore col quale l’Amministrazione capitolina sta barcollando, tuttavia, non mette in buona luce nemmeno le opposizioni. La fretta con la quale la Raggi viene bollata da sinistra e da destra come inadeguata e in bilico lascia perplessi. Da quando si è insediata, soprattutto il Pd l’ha bersagliata con accuse di ogni tipo.
Sapendo che per i seguaci di Grillo la capitale d’Italia è la vetrina e il piedistallo verso un possibile salto al governo nazionale, non le è stato perdonato nulla: al punto, sembra, da sollevare qualche perplessità in Matteo Renzi, poco convinto dell’opportunità di attaccare la prima cittadina con tanta virulenza da subito. E non solo perché è stata eletta con un consenso così alto da metterla al riparo dall’opposizione. Il problema è che le punta il dito contro chi ha lasciato in eredità a Roma un disastro in termini finanziari, giudiziari e di immagine.
La Raggi finora ha avuto il privilegio di potersi candidare e vincere, e poi di vivere di rendita grazie ai disastri altrui: una rendita che entro un anno potrebbe esaurirsi, certo, ma per ora appare difficile da archiviare. Politicamente, i suoi avversari in Campidoglio possono poco. Il modo in cui sia il Pd e Sinistra italiana, sia Fratelli d’Italia ironizzano su quanto sta accadendo, non riesce a cancellare la loro profonda debolezza e il discredito dei partiti tradizionali a livello locale. Le dimissioni di ieri dicono che il nemico in grado di far male ai Cinque stelle sono loro stessi.
L’unico vero acceleratore di una crisi in Campidoglio potrebbe essere l’acuirsi dello scontro interno. «Tutti parlano di caos e di bufera, ma questo è solo l’inizio», chiosa il vice-presidente della Camera, Luigi Di Maio. «Ci siamo fatti tanti nemici: il sistema dell’acqua, dei rifiuti, il No alle Olimpiadi. Verremo combattuti da tutte le parti». L’impressione è che il vertice del M5S sia rimasto spiazzato; e che la Raggi voglia avere più controllo sulla giunta. Ma non è scontato né che ne sia capace, né che glielo permettano.

Corriere 2.9.16
Tra fughe e riunioni segretissime. Così il Campidoglio rischia il pantano
La falsa partenza del Movimento e l’incertezza cronica che lo mina alla radice
di Pierluigi Battista


Non sarà il requiem troppo precoce per un’illusione sbocciata appena due mesi fa, come già ci si precipita a dire con un certo furore da tifoseria, ma certo questa storia brutta, bruttissima del capo di gabinetto e dell’assessore al Bilancio che lasciano la sindaca Raggi sembra un esempio da manuale di harakiri politico. Magari la giunta 5 Stelle troverà nuove soluzioni e nuovi nomi. Resta però indelebile la sensazione che il nuovo governo romano di Virginia Raggi sia partito sovraccarico di pesi, dilaniato da faide, lacerato tra le diverse fazioni che incarnano le anime multiformi di un Movimento finora tenuto assieme dal carisma di Beppe Grillo. Insomma, la sensazione sconcertante che i portatori della rivoluzione e del nuovo, gli apostoli della discontinuità con il passato del malgoverno capitolino non siano affatto liberi dai vincoli degli apparati, di un Direttorio lottizzatore, dei gruppi di potere che con il Campidoglio espugnato sognano l’occasione di una vita. Una partenza peggiore, la sindaca Raggi non poteva metterla in scena. Poi arrivano anche le dimissioni dei vertici Atac e del nuovo vertice Ama. Ma non è così catastrofico, anzi: per come hanno lasciato Roma sommersa dai rifiuti e paralizzata da un trasporto pubblico vergognoso, la rottura con il passato sembra quasi una discontinuità salutare.
Ma il capo di Gabinetto e l’assessore al Bilancio con deleghe importantissime dovevano essere il benvenuto in una nuova stagione. Ma la nuova stagione deve ancora cominciare, e se la sindaca Raggi non si decide a prendere lo scettro del comando non avrà mai inizio, e finirà in un pantano.
Ieri militanti e consiglieri 5 Stelle sembravano aver perso tutto lo smalto, la sicumera e persino l’arroganza dei primi giorni dopo il clamoroso plebiscito che li ha scaraventati al comando del Campidoglio. Quell’occupazione fragorosa dell’aula Giulio Cesare, con le sparute opposizioni silenti, schiacciate, umiliate. Quella presenza quasi militare dei vertici del Movimento. E il grido ritmato «onestà, onestà» mentre la sindaca portava suo figlio in giro a mostrare i luoghi in cui la madre avrebbe trascorso il suo tempo a mettere in riga Roma, a liberarla dai potenti che l’avevano saccheggiata e sfigurata. Tutto questo sembrava ieri già appartenere a un’antica era geologica. E sono passati neanche due mesi. Ieri le truppe grilline si sentivano assediate. Devote al mito della trasparenza, si acquattavano in riunioni segretissime dove veniva allestito il rituale della resa dei conti da consumarsi al riparo da sguardi indiscreti. Le opposizioni incalzavano, ribaltando lo schema dei mesi scorsi, e i Cinque Stelle si asserragliavano nella fortezza del silenzio. Hanno reagito come se non governassero questa città. Così come dopo le elezioni di giugno non hanno agito come se dovessero governare questa città, ma si sono rannicchiati nelle loro ossessioni sugli emolumenti (come «gli scontrini» d’antan), sulla purezza da conservare, sulla rivoluzione da radicalizzare. Perdendo tempo sulle nomine come nemmeno ai tempi del manuale Cencelli, disegnando geometrie di potere e di sottopotere incompatibili con il ruolo di tecnici competenti che il magistrato Raineri e l’assessore Minenna avrebbero dovuto sostenere per dare sostanza e credibilità a una svolta che Roma attendeva con angoscia quasi, regalando alla sindaca Raggi un consenso enorme, quasi sproporzionato: per dire la disperazione che le esperienze delle giunte precedenti, di destra e di sinistra, avevano depositato. E anche ieri così, come se la spaccatura di una Giunta appena formata fosse una questione da regolare all’interno delle pareti di casa.
Virginia Raggi ha spiegato (alle 4 del mattino, con un commento su Facebook) di aver agito sulla Raineri dopo il parere dell’Anac. E non poteva consultarla prima, l’Anac? E come è possibile che soltanto pochi giorni fa, di fronte ai borbottii che si levavano per gli emolumenti troppo cospicui che avrebbero gratificato il capo di Gabinetto Raineri, Virginia Raggi abbia detto che la competenza ha un prezzo, salvo poi fare una marcia indietro clamorosa senza nemmeno valutare la sequenza di reazioni a catena che ne sarebbe seguita? Ecco, è questa incertezza ondivaga, questo andirivieni frastornante che nessuno si sarebbe aspettato da un Movimento giovane e irruente e che invece rischia di impantanarsi anzitempo nelle furbizie della non decisione, come sta accadendo per la candidatura romana alle Olimpiadi del 2024, procrastinando, temporeggiando. Concedendo molto alla furbizia di piccolo cabotaggio. Sembra talmente presa dai problemi interni, la sindaca da appena due mesi, da non riuscire nemmeno a comunicare qualche risultato positivo. Come lo stupore di molti romani che tornando dalle vacanze hanno visto la città più pulita e i cassonetti meno intasati di schifezze e si sono chiesti increduli e scettici: durerà?
Non è durata nemmeno la luna di miele che solitamente si concede agli esperimenti nuovi e alle persone che rappresentano una novità. La fuga di ieri, assessori ma anche vertici delle partecipate, dà l’impressione di un esperimento già molto in affanno, e non per la cattiveria dei media, ma per autocombustione interna. Ieri, nelle segrete stanze, si sono sentite urla altissime tra i maggiorenti del Movimento. E Paola Taverna ha approfittato della situazione difficile per dare un’altra stilettata alla Raggi, sua nemica giurata. La quale Raggi, però, o cambia subito, in tempi strettissimi, decisamente strada, o riprende nelle sue mani il bastone del comando e offre ai romani la sensazione di qualcosa per cui valga la pena andare avanti. Oppure verrà risucchiata nelle sabbie mobili di un esperimento fallimentare. Per il Movimento 5 Stelle sarebbe una catastrofe, e questo 1 settembre ne è un primo assaggio. Per Roma e per i romani anche, e questa dovrebbe essere la cosa che conta di più.

Il Sole 2.9.16
Il diritto della Capitale a essere governata
di Paolo Pombeni

qui


Repubblica 2.9.16
L’innocenza perduta
di Massimo Giannini


SE ROMA è lo “stress test” che misura la capacità di governo del Movimento 5 Stelle, i segnali che arrivano dalla Capitale non sono confortanti per il Paese. Diciamo la verità, nessuno poteva pretendere che la giunta guidata da Virginia Raggi, in poco più di un mese, potesse ripulire la città eterna di tutti i suoi atavici mali: mafia e monnezza, buche e pantegane. Ma allo stesso modo nessuno poteva immaginare che il Campidoglio pentastellato, dopo appena settanta giorni, facesse saltare cinque poltrone in un colpo solo. E non poltrone qualsiasi. Un capo di gabinetto, i tre manager che guidano Atac e Ama (le due municipalizzate più disastrate d’Italia) e soprattutto un super-assessore al Bilancio che era il vero (e forse unico) fiore all’occhiello di questa giunta: quel Marcello Minenna, trasferito a forza dalla Consob, che aveva in mano il portafoglio e il patrimonio di Roma, gravato da un debito monstre di quasi 13 miliardi. Un fatto grave. Anche al di là delle ovvie invettive del Pd, che farebbe bene a non maramaldeggiare troppo sulla Capitale, visto che ha allegramente e colpevolmente contribuito a ridurla com’è.
SEGUE A PAGINA 29
MA SE persino Paola Taverna parla di «perdita gigante», vuol dire che qualche ingranaggio più “strutturale”, nella macchina del potere pentastellato, si è rotto davvero.
E se non piangessimo i morti di un terremoto vero, che ha distrutto vite e destini, dovremmo parlare di un sisma politico, che squassa il movimento e apre una faglia profonda proprio nel luogo simbolo in cui Grillo tenta di dimostrare quello che, finora, rimane indimostrabile e indimostrato: e cioè che il Movimento, elaborato il lutto di Gianroberto Casaleggio, è ormai entrato nell’età adulta, ed è ormai pronto a guidare l’Italia.
Purtroppo, per un Paese ormai “tripolare” che avrebbe un urgente bisogno di alternative politiche tutte ugualmente credibili e spendibili, le cose non stanno affatto così. L’alternativa non esiste più a destra, perché tra le macerie del berlusconismo si vedono avanzare solo fantasmi. Ma non esiste ancora nei 5 Stelle, perché tra le “anime” del grillismo si vedono crescere solo miasmi. Cosa è successo, infatti, a Roma? E perché queste cinque dimissioni in un solo giorno sono inquietanti? Per due ragioni di fondo.
La prima ragione è di merito. Questa “rottura” multipla, che indebolisce drammaticamente una squadra già di per sé non eccelsa (almeno rispetto alle attese), non avviene su temi concreti, che riguardano la vita di tutti i giorni di quattro milioni di cittadini. Raineri o Minenna non se ne vanno perché non c’è accordo con la Raggi o con gli altri assessori su come risolvere il problema dei rifiuti, o su come rendere più efficiente il trasporto urbano, o sui lavori che sarebbero necessari se si accettasse la candidatura alle Olimpiadi. Dal poco che trapela dalle “segrete stanze” del Movimento (e già questa formula obbligata ne tradisce la vocazione originaria), i due dimissionari pagano una “crisi di rigetto” che, fin dalla vittoria elettorale alle amministrative di giugno, sta avvelenando l’organismo pentastellato. È in corso, dicono, un regolamento di conti: da una parte c’è la sindaca e i suoi fedelissimi, sempre più chiusi dentro al “raggio magico”, dall’altra ci sono gli “esterni” e i “tecnici”, sempre più esclusi e scontenti. Perché litigano? I cittadini romani, e noi tutti, vorremmo saperlo. E invece non lo sappiamo. Perché nessuno spiega niente. E quello che vediamo e abbiamo visto finora non è un dibattito serrato e concreto su come si abbatte il debito, su come si riduce l’addizionale Irpef, su come si migliora il decoro urbano, ma l’ennesima, estenuante querelle sulle nomine e sugli stipendi degli amministratori. Come avrebbero fatto i dorotei o i craxiani di una volta. E com’era già successo agli stessi parlamentari grillini dopo il successo elettorale del 2013, quando sprecarono il primo anno a Montecitorio non a illustrare agli italiani come si finanzia davvero il reddito di cittadinanza, ma a sbranarsi tra loro sugli scontrini e le ricevute del ristorante.
E qui emerge la seconda ragione, che invece è di metodo. I Cinquestelle hanno avuto un merito oggettivo: hanno cambiato i modi e i tempi della comunicazione politica, anche attraverso l’uso “orizzontale” della Rete. Ora, quello che è appena accaduto nella Capitale ha una portata politica evidente. E dunque dovrebbe essere raccontato con assoluta chiarezza all’opinione pubblica. Non può bastare un post sulla pagina Facebook della sindaca, pubblicato alle quattro del mattino, in cui la Raggi si limita a dare una lettura banalmente burocratica delle dimissioni del suo capo di gabinetto, senza dire nulla di quelle del super assessore al Bilancio. Salvo poi parlare del dovere della “trasparenza”. Gestito così, il Campidoglio non è una casa di vetro. Diventa una corte di Bisanzio. Un concentrato di veleni e di arcana imperii di cui nessuno sa e capisce nulla. Una guerriglia sotterranea tra un maxi e un mini direttorio, un conflitto permanente tra correnti palesi e occulte, che in qualche caso fanno rimpiangere i partiti vecchi e rissosi della Prima Repubblica.
Dov’è finita la “diversità” pentastellata? Dove sono finite l’“innocenza” e la “purezza” del Movimento, il “non partito” con il “non statuto”, che nasce e cresce dal basso e che in virtù dei sacri principi fondativi (“uno vale uno”, “i leader non esistono”) rivoluziona la politica e rifonda la democrazia? Per adesso, il “grillismo reale” precipita in un vortice di impreparazione e di presunzione. Si avvita in una spirale di velleitarismi e di personalismi. Ribellarsi alle élite è giusto. E il Movimento, con i suoi quasi 9 milioni di elettori alle politiche del 2013, ha dato corpo esattamente a questa legittima istanza di “ribellione democratica”. Ma governare è un’altra cosa. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista lo sanno bene. Quando in gioco c’è non solo il Campidoglio, ma in prospettiva addirittura Palazzo Chigi, il motto “meglio inesperti che disonesti”, per quanto rassicurante, non può più bastare.
Con questo articolo Massimo Giannini torna a scrivere per “ Repubblica”

Corriere 2.9.16
Il congresso in carcere del Partito Radicale (con Dell’Utri e Sollecito)
In platea c’è Totò Cuffaro
di Francesco Di Frischia

qui

La Stampa 2.9.16
I dissidenti messi alla porta dai radicali
Bonino diserta
di Ugo Magri


La resa dei conti tra radicali è già finita, anzi non è nemmeno incominciata. I critici dell’ortodossia sono di fatto fuori dalla casa madre, cioè dal partito transnazionale riunito a congresso nel carcere di Rebibbia. Subito processati, condannati e messi alla porta. Maurizio Turco, depositario numero uno dell’eredità pannelliana, ha trattato i nemici interni come personaggi che Marco «giustamente» teneva alla larga. Nella sua relazione introduttiva li ha umanamente e politicamente massacrati. Cosicché quando è stato messo ai voti se farli rappresentare o meno nell’ufficio di presidenza, solo una dozzina di mani si sono alzate in difesa dei dissidenti. Contro Riccardo Magi, Marco Cappato e Roberto Cicciomessere si è espressa una maggioranza «bulgara», la quasi totalità dei 242 iscritti presenti in sala.
A proposito di sala: chi immagina che il congresso si svolga in un’atmosfera cupa o stralunata, tipo i concerti di Johnny Cash a Folsom Prison, è fuori strada. Niente guardie carcerarie con la carabina in pugno. Le pareti sono tappezzate da icone del leader radicale scomparso, le poltroncine in velluto come a teatro. Radio Radicale trasmette l’evento in diretta audio e video. L’eccezionalità del luogo si coglie da certi dettagli, come la presenza di ex carcerati celebri (Totò Cuffaro e Raffaele Sollecito), o di politici ancora dietro le sbarre (Marcello Dell’Utri e Ottaviano Del Turco). Con loro, a seguire i lavori, una quarantina di detenuti. Non ergastolani però: il ministro della Giustizia ha negato loro il permesso anche se, tiene a chiarire lo stesso Andrea Orlando, molto rispetta la battaglia dei Radicali contro le pene che non rieducano. Applauditi pure il direttore del Dap, Santi Consolo, quello di Rebibbia, Mauro Mariani, e pure il cappellano del carcere, don Sandro Spriano.
Il clima da simposio si è dissolto non appena ha preso il microfono Turco. Fendenti contro quanti «pescano nel torbido» e contestano la legittimità della sua leadership: «Le vostre menzogne vengono ormai riconosciute, avete trattato Pannella da morto anche quando era vivo, se ha scelto me per amministrare il partito è perché non di voi si fidava». Secondo Turco, le liste alle ultime Comunali presentate da Magi e Cappato (con l’avallo di Emma Bonino, clamorosamente assente) sono addirittura «un agguato alla storia radicale». C’è chi «vuole inseguire Renzi con il piattino in mano, ma noi non lo ostacoleremo», garantisce. Un invito a togliere il disturbo. Per le repliche, bisognerà attendere: Magi, l’avversario scomunicato, è numero 63 nella lista degli oratori. Ma promette lo stesso battaglia: «Le idee non si chiudono in cassaforte...».

Repubblica 2.9.16
Radicali, al via il congresso ma è lite sul futuro
L’ombra della scissione sul meeting di Rebibbia, il primo senza Marco Pannella. in sala da Orlando a Dell’Utri, da Giachetti a Cuffaro
Turco ai quarantenni ispirati dalla Bonino “La presentazione delle liste è stata un’imboscata” “Dividerci? Non ostacoleremo chi ha la fregola di inseguire Renzi con il piattino in mano”
di Alessandra Longo


ROMA. C’è Totò Cuffaro detto Vasa Vasa che fa gli onori di casa, c’è Raffaele Sollecito, che parla da ex detenuto e non dimentica: «In carcere sei spazzatura». Ci sono Marcello Dell’Utri, Ottaviano Del Turco, ergastolani, spacciatori, assassini, deputati, militanti degli anni del divorzio e dell’aborto, malati di Sla, e a pochi metri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Nel nome di Marco Pannella, si fa il primo congresso senza Marco, il primo congresso di un partito (che forse non c’è più) ospitato in un carcere, il primo congresso almeno formalmente convocato dagli iscritti.
Si entra a Rebibbia: guardie all’ingresso, divieto di cellulare per tutti tranne che per i giornalisti, catering preparato dai detenuti, tramezzini e lasagne. Sul tavolo della presidenza una mano che impugna la rosa, scultura in sapone, intagliata in cella. Solo per Pannella si poteva allestire tutto questo: mondo di dentro e mondo di fuori. Qui sta la grandezza di chi per tutta la vita ha fatto la battaglia per i diritti e la dignità della persona. Con il limite, però, di tutti i grandi che non lasciano testamento. La galassia radicale adesso combatte per l’eredità politica. È quasi trasgressivo pronunciare davanti a Rita Bernardini il nome di Emma Bonino: «Non posso non ricordare la distanza di Emma da Marco nell’ultimo periodo». È durissimo Maurizio Turco, il tesoriere del Partito radicale transnazionale: «C’è chi ha trattato Marco da morto anche quando era vivo. Trovate irrituale, addirittura illegittima, la convocazione di questo congresso? Beh mi dispiace per voi ma è finito il Chiagni e Fotte. Marco non c’è più». «Cos’è, ci stai minacciando? », sibila dalla platea Roberto Cicciomessere. Turco azzanna i quarantenni “ispirati” dalla Bonino, quelli che hanno partecipato alle ultime elezioni, i Magi, i Cappato: «La presentazione delle Liste Radicali è stata un’imboscata, non a noi, ma alla nostra storia».
Violente incornate di metà pomeriggio. Prima il clima era stato solenne, persino imbarazzante nei toni. Sergio D’Elia, ex G8 a Rebibbia, introduce il ministro Orlando, uomo «schivo, umile, serio»: «Le sono grato per lo straordinario discorso che lei ha tenuto in morte di Pannella». Orlando ricambia «colpito, commosso »: «Mi sento coinvolto nella vostra discussione politica». Lui, erede di una tradizione di sinistra di ispirazione marxista, che «contrapponeva talvolta i diritti sociali ai diritti civili», ha capito molte cose frequentando i radicali da ministro e ora tifa per loro: «Mi auguro una ripresa forte della vostra voce».
Tifa il ministro, tifano i 60 detenuti in sala fra cui Giampaolo Contini, sardo, in attesa di sapere se dovrà scontare l’ergastolo. «Ci sentiamo orfani senza di lui — dice Berenice, dentro per traffico di cocaina — l’ho conosciuto a Rebibbia. Ricordo che ci disse: “I delinquenti sono fuori, non dentro”». Marco il leader, Marco il collante. Roberto Giachetti, doppia tessera, la vede dura: «Solo lui poteva tenere insieme questo mondo». Solo lui poteva prendersi uno come Totò Cuffaro che sembra un vecchio radicale in mezzo ai suoi sodali: «Qui mi baciano tutti ma non per interesse ». Con pazienza, e qualche difficoltà, i detenuti ascoltano il capo del Dap Santi Consolo discettare di Schopenhauer e di eristica, di Aristotele e della «fame di conoscenza». Sembra lui, il nuovo segretario dei radicali: «A Rebibbia bisogna cercare ciò che unisce e non ciò che divide». Una parola, pensano Cappato e Turco mentre il direttore del carcere Mauro Mariani lancia il suo accorato appello: «Raccogliete la fiaccola della battaglia di Marco! ». E don Spriano, cappellano, la butta nel suo campo: «Voi avete bisogno dell’anima di Marco e della sua lotta profetica». Peccato che poi, al calar della sera, finisca un po’ a pesci in faccia. Scissione? Sentite Turco: «Non ostacoleremo chi ha la fregola di inseguire Renzi con il piattino in mano».

Il Fatto 2.9.16
Lo psicodramma radicale. Il partito spaccato in due
A Rebibbia inizia il primo Congresso del dopo-Pannella: la scissione sempre più probabile
di Gianluca Roselli

qui

il manifesto 2.9.16
I neonazisti di re Artù
A Revine Lago il raduno nazionale del Veneto fronte skinheads. Favoleggiando in chiave razzista sul mito di Camelot. Tra «difesa dell’uomo bianco» e ossessione del gender, «omaggio a Franco Freda»
di Marinella Mandelli, Saverio Ferrari


Dal 1 settembre a domenica 4 settembre a Revine Lago (Treviso), in un’area privata, si svolge «Ritorno a Camelot», il raduno neonazista, che favoleggiando riguardo al mitico regno di Re Artù da restaurare si ripete ogni cinque anni, alternando concerti e conferenze. A promuoverlo il Veneto fronte skinheads, in occasione del trentesimo della sua fondazione, capostipite in Italia del movimento naziskin.
Il titolo dell’edizione di quest’anno è «Noi siamo Europa», sottotitolo «Un’origine e un destino sotto attacco». Il contenuto è ben spiegato dal manifesto che pubblicizza l’evento: «Decenni di politiche di annientamento identitario, di false integrazioni, hanno portato l’intera Europa sull’orlo di una guerra civile endemica e senza quartiere» a causa di «scellerate politiche immigratorie e sociali», terminando con i versi di una canzone dei Peggior Amico, storica band degli skinheads vicentini e degli ultrà veronesi, «Voi figli di una terra che non amate più/ sull’orlo della fossa seduti a guardare giù/ con la vostra umanità, con la vostra carità/ sputerete insieme agli altri/ sulla nostra civiltà». Non per nulla un’altra canzone della stessa band si intitolava «Colpevole di essere bianco».
«Il campo dei Santi»
Quella della difesa dell’”uomo bianco” rappresenta l’ossessione dominante. Ricordiamo che nell’edizione del 2011, sempre a Revine, aveva inviato un messaggio Piet “Skiet” Rudolf, leader di Volkstaat, un’organizzazione che in Sudafrica lotta per l’indipendenza dei boeri, contro il “predominio nero”. È l’internazionalismo in stile white power. In questo quadro la principale iniziativa nell’ambito del raduno, denominata «Il campo dei Santi», si ispira al romanzo fanta-razzista dallo stesso titolo dello scrittore francese Jean Raspail, tradotto nel 1998 dalle edizioni AR di Franco Freda (AR sta per radice di Ariano). Nel romanzo si immagina una migrazione di milioni di persone dalla pelle scura sulle coste della Francia. Il governo, con atteggiamento buonista, ne favorisce l’accoglienza. Ma la nuova popolazione prende il potere, mentre gli autoctoni sono costretti a fuggire.
«Il campo dei santi» rappresenterebbe l’ultimo ridotto della civiltà bianca, facendo proprio un brano dell’Apocalisse: «Quando i mille anni saranno trascorsi, Satana sarà sciolto dalla sua prigione e uscirà per sedurre le nazioni che sono ai quattro angoli della terra, Gog e Magog, per radunarle alla battaglia: il loro numero è come la sabbia del mare. E salirono sulla superficie della terra e assediarono il campo dei santi e la città diletta».
A condurre il dibattito ci sarà Silvia Valerio, ventiquattro anni, sorella di Anna Valerio, che nel 2012, a trentaquattro anni, sposò l’allora 71enne Franco Freda. Silvia a diciannove anni ebbe il suo breve momento di celebrità in una nota trasmissione televisiva dichiarandosi disposta a offrire la propria verginità al presidente iraniano Ahmadinejad, esemplare, secondo lei, di «vera maschilità».
Le due sorelle Valerio hanno appena dato alle stampe un libro, ancora per le edizioni AR, Nessuno è innocente. «La storia vera di Freda e di Ventura», secondo le note redazionali, che consistette nel servirsi «di armi sempre più spregiudicate», che non poterono «non contemplare, alla fine, il tritolo», anche se «con la macelleria di Piazza Fontana» Freda e Ventura, tengono a precisare le due sorelle, non ebbero «niente a che fare».
Tocca ricordare che, alla fine dei tanti processi per Piazza Fontana, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il ruolo operativo di Ordine nuovo e ha indicato tra gli autori materiali della strage del 12 dicembre 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano proprio Freda e Ventura.
Solo che, per un paradosso giudiziario, i due non erano più punibili perché in precedenza, nel processo sottratto a Milano e trasferito a Catanzaro e a Bari, erano stati condannati solo per le bombe sui treni dell’agosto precedente.
Da Hitler a Mario Merlino
A discutere di storia troveremo Antonio Serena e Gabriele Gruppo. Il primo proveniente dall’Msi, poi transitato nella Lega e infine in Alleanza nazionale, che lo elesse deputato nel 2001 (si dimise dal partito nel 2003 per la visita di Fini in Israele), è un ammiratore delle gesta del capitano nazista Erich Priebke, nonché autore di una serie di libri sui “misfatti” della Resistenza. L’ultimo, pubblicato nel 2015, s’intitola Benedetti assassini. Gli eccidi partigiani nel bellunese. Gabriele Gruppo, invece, è il responsabile delle edizioni Thule, specializzate nella pubblicazione delle opere di Hitler.
Secondo lui «il nazionalsocialismo fece della Germania un’isola felice di prosperità sociale ed economica».
Sul tema «Famiglia, giustizia, società», dibatterà Italo Linzalone, di Azione tradizionale, che nel 2013 cercò di organizzare a Vicenza un convegno su Priebke, poi vietato. Al suo fianco comparirà il professor Gianluca Marletta, particolarmente scatenato contro l’influenza dell’”ideologia gender” nelle scuole e autore di Unisex. Cancellare l’identità sessuale, la nuova arma della manipolazione globale. Nella stessa sede è preannunciato un intervento del comitato Josué libertad, attivo negli ambienti neofascisti di tutta Europa per chiedere la liberazione di Josué Estébanez de la Hija, un ex militare spagnolo condannato a venticinque anni nel 2007 per l’uccisione a Madrid, in metropolitana, di Carlos Javier Paolmino, un militante di sinistra di sedici anni.
A Revine si parlerà poi di economia e agricoltura con Manuel Negri, consigliere comunale del centrodestra di Reggiolo (Re) ed esponente di Progetto nazionale, indagato per aver partecipato nel 2015 all’azione organizzata in varie località dal Veneto fronte skinheads, consistente nel depositare sagome umane tricolori (le vittime italiane dell’immigrazione…) davanti a varie sedi della Caritas, con volantini contro lo ius soli e slogan come «guerra ai nemici della nostra terra».
Sarà della partita anche Nicola Gozzoli dell’associazione Lega della terra, collaterale a Forza Nuova. Lega della terra è la traduzione letterale di Landbund, dal nome del partito agrario tedesco che avversò la Repubblica democratica di Weimar e sostenne il Partito nazionalsocialista alle elezioni del 1933.
A conclusione del tutto, non sappiamo bene a quale titolo, interverrà Mario Merlino, settantadue anni, ex delfino di Stefano Delle Chiaie in Avanguardia Nazionale, infiltratosi come “agente provocatore” a Roma nel gruppo anarchico XXII Marzo poco prima della strage di Piazza Fontana.
Rock against communism
Il collante emotivo della quattro giorni di Revine sarà come sempre la musica. Il programma dice che si avvicenderanno sul palco «le migliori band del panorama musicale R.a.c (Rock against communism) europeo».
Così è, in effetti. Oltre alle italiche Gesta Bellica, Hobbit, Garrota, DDT (Dodicesima Disposizione Transitoria), Malnatt, Acciaio Vincente, Linea Ostile, Ultimium, Onda nera, Topi Neri, Razza Fuorilegge, La Vecchia Sezione, arriveranno dalla Gran Bretagna Stevie, Skrew you e Stigger, dalla Finlandia Mistreat, dalla Scozia Nemesis, dalla Germania Sachsonia (che si autodefinisce senza giri di parole Nazi Rock’n Roll) e Kraft durch froide (dal nome dell’organizzazione ricreativa del nazionalsocialismo), dall’Ungheria Oi-Kor, dalla Slovacchia Kratky Proces e Jolly Rogers dalla Spagna.
Bestie predatrici
Camelot, un nome di miti e di fiabe, reinterpretato dall’estrema destra. Come cantano i Gesta Bellica «La leggenda narra che re Artù tornerà/ re di una volta e per l’eternità/Il re guerriero ci guiderà/ a riconquistare la libertà/Ricordi quel mito di sangue e di onore?/ Per la giustizia si torna a lottare/ Ritornino i tempi degli uomini veri, torni re Artù e i suoi cavalieri!».
«Sangue e onore» ancora una volta. Blut und Ehre, il motto della Hitler-Jugend, la gioventù hitleriana. «Io voglio», disse Hitler nel 1933, «una gioventù brutale, tiranna, intrepida e crudele. Non deve avere nulla di debole e delicato. La libera, splendida bestia predatrice deve ancora una volta emergere brillando dai suoi occhi».
A questo modello guarda ancora il Veneto fronte skinheads. La «Polveriera Europa» può ancora esplodere. Una «guerra civile endemica» può ancora scoppiare. O almeno è quello che i nostri skinheads neri sognano per tornare a essere “bestie predatrici”.

Corriere 2.9.16
Le spine del jobs act e il lavoro sfuggente
di Dario Di Vico


La criticità del mercato del lavoro è davanti agli occhi di tutti. Manca però la capacità di affrontare i nodi aperti con un approccio che lasci da parte slide/invettive e invece analizzi dossier per dossier le scelte che hanno funzionato e quelle che no. È un metodo poco praticato dalla società politica italiana ma che può risultare efficace. Prendiamo il caso della cassa integrazione, una sorta di avamposto dell’occupazione. Un punto di osservazione prezioso per capire le tendenze. Si era detto che prima di nuove assunzioni avremmo avuto un riassorbimento dei livelli di Cig, in proporzioni che nessuno però si avventurava a prevedere. Non sembra che le cose siano andate così e i segnali di nuove richieste che arrivano dal settore dell’auto suggeriscono cautela e diffidenza.
Il guaio però è che nelle settimane scorse sono circolati studi e tabelle di segno divergente a dimostrazione evidentemente di difficoltà/ritardi a monte, nella registrazione degli input. Vedremo, nell’attesa terremo le dita incrociate perché purtroppo le ristrutturazioni industriali (dolorose) non sembrano finite. Lo stesso metodo pragmatico applicato al dossier Garanzia Giovani ci suggerisce di mettere da parte le polemiche sul bilancio di questa esperienza (personalmente ho molti dubbi): conviene far tesoro di cosa ha rappresentato ovvero una sorta di stress test delle nostre politiche attive del lavoro. Materia nella quale siamo dei neofiti. Per la prima volta (!) è stata creata un’infrastruttura informatica ovvero una rete nazionale alla quale conferire i dati dei giovani in cerca di lavoro. Sono stati registrati più di 1,1 milioni di ragazzi ma ne sono stati accompagnati al lavoro 40 mila. La sproporzione è evidente ma conviene partire da questo dato per migliorare. Abbattere Garanzia Giovani sarebbe un errore e del resto già la Ue ha qualche remora a rifinanziarla perché ci sono stati Paesi che l’hanno usata molto peggio di noi.
In autunno partirà anche la prima sperimentazione delle competenze della nuova agenzia nazionale del lavoro (Anpal), l’assegno di ricollocazione. Si tratta di un progetto ambizioso, figlio della cultura della flexsecurity . A settembre sarà messo a punto il modello di procedura e già a novembre dovrebbe fruire dell’assegno un campione di qualche migliaio di disoccupati espulsi dalla produzione. La platea potenzialmente interessata al provvedimento è di un milione di persone e il numero è sufficiente a spiegare l’estrema attenzione di cui ci sarà bisogno nella fase di implementazione. Di progetti ambiziosi impigliatisi nella burocrazia ne conosciamo abbastanza e lo stesso varo dell’Anpal non è sfuggito per lunghi mesi a questa regola cinica e bara. Più controverso si presenta il rendiconto dell’esperienza dei voucher, il cui utilizzo è esploso. Erano stati lanciati per favorire l’emersione di attività non contrattualizzate e invece sono stati abusati anche nei settori più tradizionali per polverizzare le relazioni di lavoro. Si è creata così una contraddizione: il Jobs act si muoveva in direzione della stabilizzazione di rapporti precari e il voucher, sul versante opposto, creava «coriandoli» di lavoro. Come mai? C’è chi sostiene che questa divaricazione si è prodotta perché il mercato comunque chiede flessibilità e il Jobs act fornisce una sola risposta, rigida e generosamente finanziata dalla fiscalità generale. I tecnici del governo replicano che il jobs act si è scontrato con l’incertezza del ciclo economico e anche il boom del voucher si spiega con un aumento dell’incertezza e della sfiducia da parte delle imprese. Insomma non è questione di strumentazione poco adatta ma di scarsa quantità della ripresa. E la riprova verrebbe dai flussi delle partite Iva: sono in calo le nuove aperture e in crescita le chiusure. Non c’è stato, dunque, neanche un ipotetico travaso dal lavoro dipendente al finto-autonomo, bensì un ristagno complessivo. È chiaro che in questo scenario — che presenta molti caveat — si avvicina per il jobs act la più impegnativa delle prove: nel 2016 gli incentivi sono stati ridotti al 40%, con la prossima legge di Stabilità saranno azzerati. Ce la farà la riforma più famosa del governo Renzi ad attestare sul campo le proprie indiscutibili virtù?

La Stampa 2.9.16
“Contro le droghe chimiche legalizziamo la marijuana”
Il segretario del primo sindacato di polizia: “Il proibizionismo ha fallito”
La cannabis per scopi terapeutici è già oggi coltivata all’interno di strutture dell’esercito
intervista di Franco Giubilei


Felice Romano è il segretario nazionale del Siulp, il sindacato di polizia più rappresentativo d’Italia con 26mila iscritti.
Cosa pensa delle proposte di legalizzazione della cannabis?
«Quali risultati ha ottenuto il proibizionismo nel contrasto al traffico e al consumo di droghe leggere? Nessuno. Anzi: il consumo è aumentato e l’età dei ragazzi che ne fanno uso si è abbassata. Non solo: a fronte di un massiccio impiego di forze dell’ordine e alle risorse spese, non c’è stato nessun effetto sotto il profilo poliziesco-giudiziario, per non parlare della necessità di tutelare i più giovani e la loro salute. Ecco perché sono favorevole alla distribuzione dei derivati della cannabis in centri controllati, a soggetti maggiorenni».
Cosa intende per tutela dei ragazzi?
«Oggi la criminalità organizzata fa affari d’oro con la vendita delle droghe leggere, con profitti che poi alimentano il traffico d’armi e delle sostanze pesanti. Molti giovani diventano pusher per soddisfare i propri bisogni di hashish o marijuana, vendendo queste cose a compagni di scuola e coetanei. Tutto ciò che è legale invece consente un maggior controllo, come avviene in Spagna».
Anche in Italia sta cominciando a girare la “spice”, un’erba trattata con sostanze chimiche, che notizie avete?
«Ci sono stati dei sequestri, ma molte sostanze non sono ancora definite, e serve tempo per tracciare il principio attivo. Ci risulta che i trafficanti spingano su questa roba, approfittando dalla grande confusione esistente sul mercato nero. Oggi molte droghe chimiche sono sconosciute e non sono mai uguali a se stesse, sono improvvisate in laboratorio. Nei panetti di hashish, poi, spesso troviamo di tutto, compreso lo sterco di animali. Tagliare le droghe conviene moltissimo a chi le commercia».
I danni della cannabis non sono un problema?
«La coltivazione della cannabis a fini terapeutici, all’interno di strutture dell’esercito, è disciplinata dalla legge. Poi è chiaro che ogni farmaco deve avere le sue controindicazioni elencate nel bugiardino. Ricordo anche che in Italia il possesso delle armi è legalizzato, ma non per questo uno può usarle liberamente. Il dubbio etico resta, ma d’altra parte c’è il libero arbitrio: se mi lancio col deltaplano lo so che rischio. Il proibizionismo non impedisce nulla».
Dunque gli effetti della legislazione attuale quali sono?
«Nessuno, se non rovinare la vita di un giovane a causa di ripercussioni che neanche immaginava: se trovato con uno spinello, viene segnalato al prefetto che gli ritira la patente, e se in futuro vorrà partecipare a un concorso non potrà farlo perché il precedente resta. E poi ha ragione Cantone a sostenere che con questa situazione normativa aumentano i rischi che i ragazzi entrino in contatto con ambienti criminali».
Qual è l’opinione dominante fra i poliziotti su questi temi?
«Nelle forze di polizia c’è sensibilità, ma prevale ancora un istinto conservatore. Questo anche perché in Italia siamo spesso governati da un falso moralismo. Non riteniamo morali le case chiuse, ma poi tolleriamo la prostituzione per le strade delle nostre città».

Repubblica 2.9.16
L’amaca
di Michele Serra

DIFFICILE ricordare un’iniziativa politica che abbia ricevuto un’accoglienza più ostile del “Fertility Day” (forse l’invasione della Polonia da parte di Hitler). Basti dire che uno dei commenti più gelidi è quello del presidente del Consiglio: “non conosco nessuno che abbia fatto figli dopo avere visto un cartellone pubblicitario”. L’ impressione, anche se ricavata solo per via indiziaria, è che il governo paghi un costante pegno all’ambiguità identitaria (che è anche del Pd) del nuovo centrosinistra, la cui componente centrista-cattolica è molto influente, nonché determinante per la tenuta del governo stesso. Un governo saldamente laico non avrebbe mai partorito (siamo in argomento) un Fertility Day. Non, comunque, in quella forma e con quegli slogan. Concepire la maternità quasi come un “dovere” è ovviamente lecito, a patto che si applichi questo imperativo a se stessi e non ad altri; men che meno lo si estenda alla sfera pubblica, che deve occuparsi di assicurare le migliori condizioni possibili per fare figli a chi vuole farli, e non di altro. Nell’iniziativa ministeriale il sentore di “doverismo” rispetto a maternità e paternità è molto forte, e rimanda diritti alla incoercibile tendenza cattolica (o meglio di parte dei cattolici) a piegare l’etica pubblica ai propri convincimenti. Rivista in questo contesto, l’approvazione della legge Cirinnà sulle unioni civili va vista come un vero e proprio miracolo, da celebrare con commossa esultanza.

La Stampa 2.9.16
Ieri a Palazzo Chigi
La risposta culturale alla minaccia jihadista
di Lorenzo Vidino

Ieri a Palazzo Chigi si è svolto il primo incontro di una commissione di esperti convocati dal governo per analizzare le dinamiche della minaccia jihadista in Italia e stilare raccomandazioni utili a contrastare il fenomeno della radicalizzazione. La commissione, di cui ho l’onore di essere il coordinatore, rappresenta una novità per l’Italia.
E raccoglie diciannove esperti che mettono (gratuitamente) a disposizione le proprie conoscenze in materia nel corso dei prossimi quattro mesi al fine di produrre uno studio che dovrebbe fornire spunti utili ai nostri organi decisionali per affrontare il tema della radicalizzazione islamista con tattiche alternative ai classici metodi di polizia e intelligence. Il background dei membri della commissione non potrebbe essere più eterogeneo, comprendendo esperti di sicurezza, arabisti, sociologi, giornalisti e psicologi. Questa composizione riflette quello che è ormai appurato da una molteplicità di studi compiuti in Italia e all’estero: la radicalizzazione, sia essa di matrice islamista o legata a qualsiasi altra ideologia, è un processo complesso sul quale influisce una serie infinita di fattori, dai tratti psicologici del soggetto affascinato dal credo estremista al contesto in cui vive, dalla presenza di gruppi estremisti sul territorio agli sviluppi geopolitici globali. La Commissione adotterà questo approccio multidisciplinare, cercando di capire come faccia l’ideologia jihadista a far presa sulle menti di giovani spesso nati e cresciuti nelle nostre città. I membri della Commissione pertanto si divideranno in vari sottogruppi che studieranno fenomeni quali l’uso di internet da parte di simpatizzanti jihadisti, la radicalizzazione nelle prigioni e l’operato di vari movimenti islamisti.
Ma il vero compito della Commissione è quello di individuare misure volte alla prevenzione del fenomeno della radicalizzazione tra i giovani musulmani presenti sul territorio italiano. Fortunatamente il nostro Paese non ha ancora visto le preoccupanti dinamiche di radicalizzazione delle seconde generazioni di molti Paesi europei, ma alcuni segnali preoccupanti esistono. E se la repressione è indubbiamente utile, potenzialmente lo sono anche misure miranti a prevenire la radicalizzazione sul nascere, cercando quindi di diminuire il numero di soggetti pronti ad uccidere ed immolarsi in nome della jihad.
In vari Paesi iniziative in tal senso che coinvolgono la società civile esistono da più di un decennio. Nel nostro Paese sono ancora allo stato embrionale e sotto-finanziate. Una proposta di legge presentata dai deputati Andrea Manciulli e Stefano Dambruoso e discussa in questi giorni alla Camera mira a «introdurre nel nostro ordinamento strumenti idonei a contrastare sul nascere la radicalizzazione e l’estremismo jihadista» attraverso misure che vanno dal dialogo interculturale a un ruolo più attivo delle scuole, dalla creazione di un portale web con informazioni utili per famiglie ed operatori sociali a iniziative volte al recupero sociale di soggetti radicalizzati.
Il ruolo della neonata commissione di esperti è quello di suggerire quali siano le misure di prevenzione che meglio si adattano alla realtà italiana. Il fatto che i membri della commissione non abbiano ruoli istituzionali e non siano retribuiti garantisce l’indipendenza del suo operato. E, per una volta, il sistema politico italiano dimostra lungimiranza, costituendo un organo che si occupa di un tema cosi’ delicato non in una situazione di emergenza o in seguito ad un attacco, per effetto dei quali emozioni e pressioni politiche renderebbero difficile un dialogo costruttivo e sereno. Ciò che la guida è, al contrario, la consapevolezza che il fenomeno della radicalizzazione islamista va trattato senza allarmismi e speculazioni, ma con misure di lungo respiro e basate su una conoscenza profonda e ragionata del fenomeno.

Il Sole 2.9.16
Rcs, Cairo vuole Micciché alla vicepresidenza.Il Tar respinge il ricorso
La minoranza candida Cimbri, Della Valle e Tronchetti Provera al cda
di Laura Galvagni


Il Tar del Lazio ha respinto il ricorso di International Media Holding, Della Valle e Pirelli contro la decisione di Consob di non sospendere l’Opas di Urbano Cairo. Il Tribunale ha fissato l’udienza di merito per il prossimo 5 dicembre. Nel mentre, gli azionisti hanno definito le liste per la nomina del nuovo consiglio di amministrazione. I soci di minoranza, ossia International Media Holding, UnipolSai, Mediobanca, Pirelli e Diego della Valle hanno scelto di candidare Marco Tronchetti Provera, Carlo Cimbri e Diego Della Valle stesso.
Cairo, invece, che potrà esprimere fino a sei consiglieri ha deciso di tenere le deleghe da presidente e amministratore delegato e di inserire nell’elenco per il board Gaetano Micciché, probabile nuovo vice presidente. Cairo avrebbe poi confermato Stefania Petruccioli, Marco Pompignoli e Stefano Simontacchi .

Il Tar del Lazio respinge il ricorso dei soci di minoranza: il 5 dicembre il merito
Respinto il ricorso, in attesa dell’udienza di merito fissata per il prossimo 5 dicembre, i soci di Rcs Mediagroup sono al lavoro per comporre il nuovo consiglio di amministrazione del gruppo editoriale. Nella tarda serata di ieri sono state depositate le liste dei candidati in vista dell’assemblea del prossimo 26 settembre che definirà la riorganizzazione. E, stando a quanto è emerso, appare chiara la volontà dei soci di minoranza di far sentire la propria voce in cda. Gli azionisti storici, Mediobanca, Diego Della Valle, Pirelli e UnipolSai, più International Media Holding, il veicolo che aveva promosso la controfferta e partecipato anche da Andrea Bonomi, hanno infatti schierato Diego Della Valle, Marco Tronchetti Provera e Carlo Cimbri.
Tre candidati che nel board sono destinati a fare da contraltare ai sei consiglieri espressione di Urbano Cairo. Alla fine, infatti, ha prevalso l’orientamento di mantenere immutato a nove il numero dei componenti del consiglio. In questo modo, due terzi del cda saranno espressione della maggioranza e tre della minoranza.
In merito al socio forte, Cairo ha definito la composizione della lista nel pomeriggio di ieri. Dell’elenco fa evidentemente parte l’imprenditore stesso, che manterrà il ruolo di presidente e amministratore delegato della società che edita Il Corriere della Sera, seguito da Gaetano Micciché, direttore generale di Intesa Sanpaolo e presidente di Banca Imi, che verrà probabilmente eletto vice presidente di Rcs Mediagroup. Dovrebbero poi venir confermati Stefania Petruccioli, Marco Pompignoli e Stefano Simontacchi.?Resta da capire chi sia il sesto candidato che, peraltro, per il rispetto delle quote rosa dovrebbe essere una donna.
Quanto alla lista di International Media Holding e dei soci storici, stretti in un patto di sindacato i cui termini verrano resi noti a breve, gli azionisti hanno indicato tre figure di peso, ossia Diego Della Valle, Marco Tronchetti Provera e Carlo Cimbri (presenti anche Veronica Gava, Augusto Santoro, Bruno Guida, Valeria Leone, Nella Ciuccarelli e Roberto Burini, nessuno di loro, però entrerà in consiglio). La scelta di comporre l’elenco con figure di tale profilo evidentemente dà la misura di quale siano le intenzioni del blocco storico rispetto all’ascesa al comando di Urbano Cairo. La volontà sembrerebbe essere quella di vigilare e verificare in presa diretta ogni passo che l’imprenditore alessandrino farà.
La nuova composizione del board, in ogni caso, verrà definita con l’assise che si terrà il prossimo 26 settembre. Nel mentre, ieri il titolo Rcs ha archiviato le quotazioni in rialzo del 2,68% a 0,996 euro tornando di fatto a un passo dalla fatidica soglia di 1 euro per azione. A sostenere il balzo ha certamente contribuito la sentenza del Tar del Lazio diffusa nella mattinata di ieri. Il Tribunale amministrativo, con tre distinte ordinanze (5015, 5014, 5013/2016), ha respinto la domanda cautelare proposta da Diego della Valle, International Media Holding e Pirelli per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del comunicato del 22 luglio scorso con cui Consob non ha ritenuto sussistenti i presupposti per la sospensione cautelare dell’offerta Cairo su Rcs. Il Tribunale, però, considerata «la rilevanza della questione», anche alla luce degli «approfondimenti che la Consob sta tuttora effettuando», e di cui l’autorità di vigilanza dovrà dare conto depositando una apposita relazione, ha ritenuto di fissare l’udienza di trattazione del merito il prossimo 5 dicembre.
Nella stringata motivazione a giustificazione della sentenza, la II Sezione del Tar ha sottolineato che il limite di intervento della Consob in un’Opa volontaria «non consente l’esercizio del potere cautelare/repressivo al di fuori del periodo di pendenza dell’offerta (art. 102, comma 6, T.U.F.)». E che, una volta conclusa l’offerta, «viene meno l’utilità e la stessa possibilità di un intervento cautelare del giudice amministrativo». Non solo: secondo il Tar, «i profili relativi alle vicende di carattere societario, in sé considerati, appaiono prima facie estranei alla giurisdizione di questo giudice». Mentre «la questione di un’eventuale considerazione di tali profili in via mediata, in relazione all'esercizio dei poteri della Consob, rimane sostanzialmente riservata alla fase del merito della controversia». Infine, l’ordinanza afferma che la posizione delle parti ricorrenti «non rimane per questo sfornita di tutela, in considerazione dei rimedi anche cautelari che l’ordinamento riserva nella materia societaria alla sede giurisdizionale ordinaria». In definitiva il Tar ha respinto la domanda cautelare in quanto «non sussiste, alla luce delle precedenti considerazioni, un pregiudizio grave e irreparabile tale da imporre i provvedimenti di cui all’art. 119, commi 3 e 4, c.p.a.».