giovedì 1 settembre 2016

MONDO

La Stampa 1.9.16
Rajoy non ce la fa, la Spagna non ha ancora un governo
Il leader del partito popolare ha ottenuto 170 sì e 180 no, non basta l’appoggio dei centristi
di Francesco Olivo

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Repubblica 1.9.16
Quando un Paese è senza governo
di Nadia Urbinati


IL MITO liberale e quello anarchico si incontrano in un punto: la possibilità e la desiderabilità che la società si governi da sola, senza un governo politico né una classe politica separata che ne diagnostichi i bisogni e imponga soluzioni. Robert Nozick dedicò a questa utopia anarco-liberista riflessioni importanti e più che mai attuali. Pochi anni fa il Belgio riuscì a cavarsela egregiamente senza un esecutivo per un anno e mezzo. Oggi una simile situazione si ripropone in Spagna, dove la società civile sembra farcela molto bene pur senza un esecutivo che funzioni e con la prospettiva di una nuova tornata elettorale che, si spera, faccia uscire il Paese dal blocco del tripolarismo. Dallo scorso dicembre la Spagna è senza un governo stabile eppure, scriveva Ettore Livini ieri su Repubblica, non vi è alcuna catastrofe: il Pil cresce “a ritmi da tigre asiatica”, crescono i posti di lavoro, lo spread con i Bund è più basso di quello dell’Italia. Certo, la deregulation è dominante, il lavoro è precario, e la sicurezza pensionistica un sogno. Eppure tutto sembra andare per il meglio, come nel paese di Pangloss.
Le discussioni politiche sulla necessità di governi forti corrono parallele alla cronaca di queste rare situazioni in cui sembra imporsi il mito di un apparato immateriale di norme condivise capace di tenere insieme la società con lacci meno arbitrari di quelli imposti dalla politica, dominata dalle volontà elettorali e dalle trattative tra i partiti. Ovviamente si deve presumere che la società sia coesa abbastanza da procedere pacificamente, con interventi coercitivi minimi o isolati. In tale condizione di forte omogeneità egemonica, la relazione tra governo politico e società civile può allentarsi. Questa è la premonizione del movimento liberista.
Commentando il collasso dei regimi socialisti e la conseguente consunzione delle ideologie politiche classiche nei Paesi occidentali, Francis Fukuyama sosteneva anni fa che queste trasformazioni post-democratiche avrebbero rafforzato la percezione che non solo non ci sarebbe stata alternativa al dominio neoliberale, ma inoltre che questo dominio sarebbe stato essenzialmente di natura non politica, capace di sopravvivere senza un governo centrale come quello messo in essere dagli Stati nel corso degli ultimi due secoli. Il declino della motivazione individuale a partecipare alla vita politica elettorale era secondo Fukuyama un fenomeno correlato al costituzionalismo funzionale di una società che si autogestisce. E gli esempi rari ma non irrilevanti come quelli del Belgio e della Spagna sono indicazioni conturbanti di quanto poco irrealistico sia il mito del nuovo ordine della self- governace society.
È interessante anche osservare come questi fenomeni eccentrici di autogovernance procedano paralleli all’argomento pressante a favore di esecutivi forti che vadano a correggere la democrazia parlamentare classica, iperpolitica e basata su una società strutturata per corpi intermedi e partiti. In entrambi i casi si auspica un minimalismo democratico. Un’aspirazione che gli estensori del documento sulla Crisis of democracy per la Commissione Trilaterale avevano caldeggiato già nel 1975: per correggere una società civile troppo politicizzata e con una rappresentanza politica troppo direttamente protagonista nelle scelte dei governi. Interrompere questo circolo vizioso tra società e politica era possibile, si legge nel documento della Trilaterale, correggendo il sistema istituzionale in senso esecutivista e nello stesso tempo liberando la società civile dai vincoli delle politiche redistributive e dallo stato sociale. Il minimalismo democratico è coerente con questo progetto di depoliticizzazione. In questa diagnosi, il declino della partecipazione nei partiti e nella politica elettorale non è soltanto desiderabile, ma segno della funzionalità dell’ordine sociale: l’apatia politica è indice di buona salute del sistema e di autonomia della società civile dallo Stato.
Tale concezione della governabilità nel volgere di pochi anni è entrata a far parte del discorso pubblico corrente, legata a un’idea secondo la quale gli individui sono meno desiderosi di associarsi, soprattutto in partiti, assorbiti dal perseguimento delle loro carriere. La politica è sempre più un orpello dunque e, come nel caso spagnolo, quasi il residuo di un mondo disfunzionale e antico. Antonio Arroyo, 24 anni e una laurea in Economia aziendale mai sfruttata così sintetizza lo stato delle cose nell’intervista di Livini: «La politica ha fallito. Siamo orfani del bipolarismo. In questi giorni i partiti litigano persino su dove sedersi in Parlamento eppure le cose non vanno proprio male: da quando la Spagna non ha più medici al capezzale sta molto meglio!».

La Stampa 1.9.16
Siria, la Turchia sfida Washington
“Non fermiamo gli attacchi ai curdi”
di Giordano Stabile


Il cessate il fuoco fra le forze armate turche e i guerriglieri curdi dello Ypg nel Nord della Siria diventa un caso diplomatico. E allarga il fossato fra Washington e Ankara. Martedì il Centcom, il comando militare americano che abbraccia il Medio Oriente, aveva annunciato un accordo «informale» fra i due alleati chiave nella lotta contro lo Stato islamico, per evitare che si sparassero fra di loro. Ma l’annuncio, assieme agli inviti del portavoce della Casa Bianca Ash Carter e dell’inviato speciale per la lotta all’Isis Brett McGurk a «concentrarsi» sugli islamisti, ha irritato Recep Tayyip Erdogan. E non è un caso che il ministro dell’Interno turco, Efkan Ala, ha presentato le dimissioni a seguito dell’ondata di attacchi attribuiti allo Stato islamico e ai combattenti curdi.
Ieri mattina il portavoce del presidente, Ibrahim Kalin, ha smentito la possibilità di un accordo. «Abbiamo un problema con il Pkk, un’organizzazione terroristica che imperversa nel Sud-Est del Paese, l’ipotesi di un’intesa con i curdi siriani non è praticabile». Erdogan considera lo Ypg uguale al Pkk, e all’Isis, terroristi da eliminare a tutti i costi. Ankara ha poi convocato l’ambasciatore Usa John Bass, per manifestargli «fastidio» per le dichiarazioni di Washington.
Rinforzi in arrivo
Nonostante gli sforzi di Barack Obama le strategie americana e turca sono in rotta di collisione. Per quasi un anno gli Usa hanno armato, finanziato, addestrato le Syrian democratic forces (Sdf), una federazione di curdi, arabi, circassi, turkmeni e cristiani assiri che si è dimostrata la più efficace nel combattere lo Stato islamico. Il problema è che l’80% dei combattenti delle Sdf sono curdi dello Ypg. Erdogan invece intende distruggere lo Ypg in Siria, per lo meno «a Ovest dell’Eufrate».
E poi c’è la strategia dello Ypg. Parallela a quella di Washington fino all’avanzata alle porte di Raqqa, la scorsa primavera. A quel punto i curdi hanno chiesto una «deviazione» verso Ovest. Washington ha concesso di prendere Manbij, purché ci fosse un consistente numero di combattenti arabi. I curdi però puntavano ancora più a Ovest, a congiungersi con un altro distretto curdo, quello di Afrin. A quel punto è intervenuta la Turchia. E c’è stato il cortocircuito. Anche se a Manbij ora restano in maggioranza guerriglieri arabi e cristiani assiri, lo Ypg non si è ritirato a Est dell’Eufrate. E sta cercando di far arrivare rinforzi dalla stessa Afrin.
Accordo coi russi
L’Isis ne ha approfittato per attaccare sia i curdi a Sud di Manbij che i turchi vicino a Jarabulus, dove rivendica di aver distrutto «tre tank». L’offensiva arriva dopo l’uccisione del suo portavoce, e uno dei leader più importanti, Mohammed Al-Adnani, eliminato da un drone ad Al-Bab, l’ultima roccaforte dello Stato islamico nella provincia di Aleppo. Su Al-Bab ora convergono le forze siriane appoggiate dai russi, i curdi e i ribelli filo-turchi. Il destino della battaglia dipende molto dalla profondità dell’intesa fra Mosca e Ankara. Ieri, in un nuovo segno di distensione, è arrivato a Istanbul il capo della compagnia russa Gazprom Alexei Miller per incontrare il ministro dell’Energia Berat Albayrak. Tema: rilanciare il progetto di gasdotto Turk Stream.

Il Sole 1.9.16
Il franchising del terrore
La propaganda dell’Isis e la vera guerra da combattere
di Alberto Negri

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Il Fatto 1.9.16
La samba del golpe: vendetta degli affaristi contro Dilma la Rossa
di Roberto Zanini

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