giovedì 1 settembre 2016

ITALIA

La Stampa 1.9.16
Crolli di caserme e scuole, ora si indaga per corruzione
Il vicesindaco di Amatrice ha gestito, come geometra, un cantiere ad Accumoli
di Paolo Colonnello, Francesco Grignetti

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La Stampa 1.9.16
I fondi per la sicurezza delle case usati per comprare caldaie e infissi
Trenta milioni di contributi speciali distribuiti ai privati senza controlli
di Paolo Festuccia


Ci sono altri 21 milioni di euro che ballano tra consulenze e appalti per il dopo sisma del 1997. Si tratta, nella sostanza, dei finanziamenti pubblici erogati dal governo e finiti nella tasche di cittadini privati, che all’epoca del terremoto (e poi anche quello del 2011) che sconvolse soprattutto l’Umbria e le Marche subirono danni alle loro abitazioni. Otto di questi milioni (oltre agli altri sessanta) finirono sul territorio provinciale. Ma tredici di questi restarono a Rieti. Dove tutti i proprietari di immobili lesionati, nei fatti quasi tutto il centro storico, restaurarono le loro abitazioni. Qualche villa appena fuori la città e nei territori limitrofi, palazzi blasonati, soprattutto nel centro storico, nel quadrilatero centrale tra via Roma, via Garibaldi, via Cintia e piazza Mazzini. E dunque, se ai 21 milioni stanziati per le abitazioni private si aggiungono i 66 milioni di euro per enti e strutture pubbliche si arriva quasi a 90 milioni di euro di soldi destinati a ricostruire e soprattutto a restaurare decine di immobili lesionati. Che alla prova dei fatti, i casi dei palazzi di Amatrice e Accumoli insegnano, si sono dimostrati inadeguati a reggere la violenza del terremoto.
E così, nonostante le cifre messe in campo da Governo e Enti dal ’97 in avanti, molte delle case private (stavolta) sono tornata a cadere, soprattutto ad Amatrice e Accumoli. Certo le scosse sono state dure, ma «forse – spiega una fonte – sarebbe utile capire se quei soldi ottenuti sono stati utilizzati per rendere antisismica l’abitazione oppure per riammodernarla, dotarla di maggiore confort: dalla domotica interna, alla revisione degli spazi interni, dai riscaldamenti a pavimento agli infissi». Un po’ quello che si contesta anche nei lavori eseguiti per la scuola «Romolo Capranica» di Amatrice, dove c’è pure il riscaldamento a pavimento ma le coperture antisismiche forse no, e qualora ci fossero state, si sono rilevate insufficienti.
Insomma, lavori sì realizzati, ma che sul tema cruciale della sicurezza hanno miseramente fallito. Per mille ragioni, che la Procura di Rieti con l’apertura dell’inchiesta per disastro colposo dovrà accertare. Tant’è che anche ieri mentre negli uffici del palazzo di giustizia reatino si teneva un’altra lunga riunione fiume tra forze di polizia giudiziaria e procura, la guardia di finanza ha perquisito gli uffici della Provincia di Rieti. E’ lì, infatti, che sono transitati una parte consistente di documenti e di atti per bandire appalti e affidare incarichi a una nutrita schiera di professionisti. Ed è proprio nel palazzo della Provincia di Rieti che il 10 gennaio del 2000 fu varato e approvato lo schema di convenzione per le progettazioni relative alla ricostruzione per un importo superiore a 33 milioni di euro. Dentro quel primo piano - sottoscritto dall’allora sub commissario per il terremoto Giosuè Calabrese, e poi confermato e integrato (con altri incarichi a professionisti e bandi per altre ditte) dal secondo sub commissario, l’ex assessore al Turismo e alla cultura della regione Lazio, Luigi Ciaramelletti – a farla da padrone sono stati come Enti attuatori la Soprintendenza e la curia di Rieti. Solo gli uffici della Soprintendenza conferirono incarichi e progetti a ditte certificate (Og2) per restauro e risanamento per circa nove milioni e mezzo di euro su ben 36 opere periziate per danni da eventi sismici. La curia di Rieti dal canto suo, invece, finanziò lavori e strutture (otto per la precisione in quella prima parte) per 4 milioni 170mila euro. Ora, proprio sulle modalità di concessione degli affidi dei lavori e degli appalti anche l’Autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone ha acceso un faro. E quindi non è da escludere che alla perquisizioni di oggi ne seguiranno altre per acquisire altri atti e verificare la legittimità dei finanziamenti concessi per i lavori realmente svolti. Insomma, due corni della stessa inchiesta che a breve potrebbero portare a novità eclatanti.

Il Fatto 1.9.16
Appalti e permessi, si indaga anche sul sindaco di Amatrice
Sergio Pirozzi Conteso dalle tv, coccolato dalla destra, slang rudimentale e super pop Il sindaco tutto muscoli e “me ne frego”
di Antonello Caporale


Molti muscoli e niente paura. Bisogna dire che l’uomo è proprio di questo tempo: ama il calcio, ha il cranio rasato, indossa la felpa con su scritto il nome di Amatrice. Sergio Pirozzi, allenatore del Trastevere, sindaco e voce del terremoto amatriciano, sta nutrendo i telespettatori del suo slang rudimentale e super pop. Al microfono della Rai, nella sua prima intervista: “Barcollo ma non mollo”.
DA ALLORA l’eccitazione degli inviati per averlo in voce è salita di parecchio, cosicché anche la considerazione di Pirozzi per se medesimo è andata lievitando. “Il mio popolo sa che il suo capo è ferito, ma non cede né scappa”. Il Capo, cioè lui. Di più: “Ho detto a Renzi che sarebbe il caso di indossare una felpa con su scritto Italia”. Due sere fa al ministro dell’Interno. “Avete operato bene” e Angelino Alfano lo ha ringraziato con devoto sussiego. “Il popolo della felpa” si chiama il suo gruppo su Facebook e di destra sono le sue simpatie politiche. Gianni Alemanno gli è andato subito a far visita, Il Secolo d'Italia lo accudisce e Il Tempo ammonisce: Giù le mani da Pirozzi.
Non c’è problema, il sindaco non tentenna: “Se mi arriva un avviso di garanzia? Atto dovuto, ma me ne frego”. Se ne frega. La ricostruzione deve passare per le sue mani e per quelle dell’ufficio tecnico.
Il Comune di Amatrice si troverà a essere indagato e a indagare. Singolare condizione di ente propulsore e attuatore delle misure anti scossa e soggetto destinatario delle attenzioni della Procura per i mancati adeguamenti sismici. “Il Comune di Amatrice si costituirà parte civile perché è parte lesa”, ha detto e nel modo più sbrigativo possibile a proposito della scuola del paese alla quale 700 mila euro di finanziamentopubblicononsono bastati per restare in piedi. Non volendo perdere tempo e avere fastidio per domande inutilmente curiose, giacché “devo pensare ai miei fratelli e non rispondere ai magheggi, lei è un mago che sa cose che io non so”.
AMATRICE, classificata come area ad alto rischio sismico, è terra tremula per eccellenza e in questi anni di ogni terremoto ha conosciuto il rombo. Perciò le sono stati concessi in tempi successivi alle scosse che colpirono prima l’Umbria (1997) poi L’Aquila (2009) finanziamenti per adeguare strutture pubbliche e private. 700mila euro alla scuola, 568 mila per alcuni edifici privati, due milioni per l’ospedale, e ancora, sembra, altri quattro milioni disponibili ma non spesi.
Proprio sulla scuola primaria la teoria del sindaco di aver fatto le cose in modo giudizioso è andata piegandosi al dubbio. Il cartello comunale affisso al tempo dell’inaugurazione delle opere segnalava che l’edificio avesse subìto, in meno di tre mesi, “sontuose opere” di miglioramento e abbassamento della vulnerabilità sismica. Opere sconosciute però all’impresa esecutrice

Repubblica 1.9.16
Amatrice, il sindaco Pirozzi: "Altro che avviso di garanzia dovrebbero darmi l'Oscar. Mi arricchirò con le querele"
"Sono stato io dopo il terremoto ad andare in Provincia a dire: qui non c'è niente a norma"
di Corrado Zunino

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Il Sole 1.9.16
Edifici ecclesiastici sotto la lente dei Pm
Faro degli inquirenti sul bando comunale per la scuola crollata - La Corte dei conti indaga per danno erariale
di Ivan Cimmarusti e Sara Monaci


RIETI Un appalto tutto da chiarire, quello per la ristrutturazione della scuola Romolo Capranica, sbriciolatasi sotto la potenza del sisma del 24 agosto. Per gli inquirenti il bando del Comune di Amatrice con la giunta del sindaco Sergio Pirozzi, potrebbe nascondere delle irregolarità penali e non solo. Si scopre, infatti, che la Corte dei Conti del Lazio ha già un fascicolo per danno erariale su quell’appalto: un’indagine che nasce prima che il terremoto devastasse il Centro Italia.
Gli accertamenti sono destinati ad allargarsi. Perché dagli atti recuperati si scoprono anche altri particolari, come il caso dello stesso municipio di Amatrice, una struttura pubblica priva di adeguamento antisismico, o come i finanziamenti previsti per il post sisma del 1997 dati a pioggia per compiere «migliorie» e «ripristini» antisismici di chiese però crollate. Il fronte appalti e finanziamenti è sotto la lente del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Rieti, che ieri ha acquisito documentazioni amministrative dalla Provincia e dal Genio Civile.
La Corte dei conti
Sul bando del Comune di Amatrice per il miglioramento sismico della Capranica sono sorti sospetti. Già il procuratore della Corte dei conti, Donata Cabras, avrebbe riscontrato presunte irregolarità che potrebbero costare un’accusa per danno erariale. Dal punto di vista penale, invece, la vicenda è ancora tutta da chiarire. Il procuratore capo di Rieti, Giuseppe Saieva, e i sostituti Rocco Gustavo Maruotti, Lorenzo Francia, Cristina Cambi e Raffaella Gammarota, stanno verificando tutte le tappe: dal bando di gara, fino alle varie previsioni dell’appalto. E a non convincere è proprio il capitolato, che ha disciplinato, tra le altre cose, il «miglioramento sismico sulle due ali in cemento armato costruite negli anni novanta». Perché, dunque, questi interventi di prevenzione ai terremoti sono stati limitati a queste sole porzioni della struttura? A chiederselo è anche Gianfranco Truffarelli, imprenditore e amministratore della Edil Qualità, la società che rientra nel Consorzio stabile valori del gruppo Mollica.
Le carte dell’appalto
Truffarelli non solleva alcun sospetto, ma si limita ad affermare di aver «compiuto i lavori così come era previsto nell’appalto». Ai magistrati non è passato inosservato l’atteggiamento collaborativo dell’imprenditore, in quanto è stato lui a offrire ai pm la corposa documentazione dell’appalto, contrariamente al Comune che in una memoria depositata ieri ha affermato che «non si è rinvenuta alcuna traccia» dei «progetti relativi alla ristrutturazione edilizia dell’istituto scolastico» per il crollo parziale degli uffici. «Ai magistrati - ha spiegato l’avvocato Massimo Biffa, difensore di Truffarelli - abbiamo depositato anche 1.300 fotografie che dimostrano tutti i lavori svolti, così come era previsto dal bando».
Il Comune
I fari dei magistrati sono accesi, tra le altre strutture pubbliche, anche sul parziale crollo del Comune. Il palazzo comunale era tecnicamente a norma, nel senso che durante la costruzione ha rispettato le leggi vigenti dell’epoca; non ha tuttavia ricevuto miglioramenti o adeguamenti antisismici, per conformarlo alle leggi successive. Questo ha comportato la perdita di tutto l’archivio comunale e della documentazione. In questo momento si stanno cercando ancora gli hard disk del materiale, ma la situazione è critica. La ricostituzione degli uffici comunali avverrà con il supporto di tecnici e agenti di polizia municipale del Comune di Milano.
Gli edifici ecclesiastici
Tra i documenti che cercano i magistrati, al fine di fare chiarezza su appalti e finanziamenti, ci sono anche quelli relativi agli edifici ecclesiastici. Gli stanziamenti arrivavano dallo stesso fondo da 46 milioni messo a disposizione dopo il sisma del 1997.
La gestione di queste commesse era di competenza, nella maggior parte dei casi, della Curia vescovile di Rieti o di Poggio Mirteto, o, in qualche caso, della Sovrintendenza dei beni architettonici del Lazio o del commissario per il sisma del 1997. Per quanto riguarda la gestione ecclesiastica di Rieti e Poggio Mirteto, sono stati messi a disposizione dallo Stato italiano 9,3 milioni (di cui quasi 6 gestiti dalla curia di Rieti), tra importo finanziato inizialmente e successive integrazioni, per circa 40 interventi sparsi nel territorio. Oltre al comune di Amatrice, i lavori dovevano riguardare anche centri più piccoli, oltre alla stessa città di Rieti. Di questi, solo cinque, in 20 anni, si possono considerare conclusi e collaudati; altri 20 sono dichiarati finiti ma non collaudati. Il resto deve essere ancora appaltato, più o meno definitivamente, o costruito da zero o ultimato. Sostanzialmente la metà è ancora da fare, e solo una piccola parte ha avuto un collaudo.
Sempre per gli edifici religiosi, si aggiungono poi i 3,2 milioni gestiti dalla Sovrintendenza e altri 15 circa gestiti dal commissario del ’97. Anche in questi casi, la metà è terminato e collaudato, il resto ancora in corso d’opera o addirittura definanziato. Oltre ai ritardi e alla gestione dei finanziamenti di chiese e luoghi religiosi, gli inquirenti dovranno anche capire perché in molti casi le opere di miglioramento sono stati assolutamente insufficienti a garantire la tenuta in caso di terremoto. Basta guardare il crollo ad Amatrice del complesso parrocchiale di San Michele Arcangelo, finanziato con circa 200mila euro e poi crollato.

La Stampa 1.9.16
Nella Capitale sei palazzi su dieci rischiano il crollo se la terra trema
Il Campidoglio: solo dati teorici di Confartigianato edilizia
di Federico Capurso


C’è bisogno di un piano per la messa in sicurezza degli edifici del Comune di Roma». L’idea nasce dalla riunione convocata da Paolo Berdini, assessore all’urbanistica del Campidoglio, dopo il terremoto avvertito con forza fin nella Capitale. D’altronde, il territorio di Roma è notoriamente a rischio sismico. Un livello di pericolosità che varia in base alla zona e al tipo di terreno, certo, ma anche e soprattutto rispetto ai criteri con i quali i palazzi sono stati costruiti.
La prima difficoltà che Berdini dovrà fronteggiare riguarda le condizioni del patrimonio immobiliare del Campidoglio. Si parte da zero, o quasi. Non si ha un’idea di quanti e quali siano gli edifici comunali con necessità di intervento, né l’entità dei danni eventuali. I tremila immobili in capo al Comune, dice Berdini, «dovranno essere schedati sul campo uno ad uno». Più di mille scuole, 1600 edifici residenziali, 120 stabili destinati ad uffici e 100 centri anziani. Negli ultimi dieci anni, chi si è occupato della gestione dell’edilizia pubblica e popolare è la Romeo Gestioni, con migliaia di verifiche di interesse storico, interventi di conservazione e manutenzione. Per gli edifici scolastici l’appalto è invece andato a Risorse per Roma. «Dover attingere informazioni da rivoli tanto diversi rende tutto più complicato», spiega Berdini. «E’ mancata una regia comune».
Anche gli studi disponibili in materia, in effetti, nascono da iniziative di diversi enti privati. Come il dossier di Legambiente, secondo il quale delle 1194 scuole di Roma, circa la metà non ha mai fatto un collaudo statico, o i dati pubblicati da Confartigianato Edilizia, che evidenziano come oltre il 60% dei palazzi di Roma sia a rischio in caso di terremoto. «Ma quello di Confartigianato, ad esempio, è un risultato basato su dati teorici», ribatte Berdini, «ottenuto incrociando la data di costruzione del palazzo con il livello di pericolosità sismica del municipio in cui si trova». Quantomeno c’è un’anagrafe degli immobili del Comune, «che oltre all’anno di nascita del palazzo comprende anche la data di eventuali ristrutturazioni, e il merito è dell’amministrazione Marino, gliene va dato atto». «Non è dato sapere però – prosegue l’assessore all’Urbanistica – se i lavori di ristrutturazione abbiano compreso miglioramenti sismici o si siano limitati alla tinteggiatura dei muri. Potrebbero esserci abitazioni antiche in ottimo stato e case moderne in condizioni disastrose».
Da qui, la necessità della schedatura delle proprietà del Comune. «Per questo lavoro stiamo coinvolgendo le facoltà universitarie di ingegneria strutturale e geotecnica di Roma. Gli studenti potranno recarsi direttamente sul luogo, come quei ragazzi che abbiamo visto dopo il terremoto nei comuni di Amatrice e Accumoli, intenti a rilevare i danni casa per casa». La sicurezza del patrimonio immobiliare capitolino - se l’intervento dovesse concretizzarsi in questi termini - passerebbe quindi, nei fatti, sotto il vaglio di studenti alle prime armi. Di certo, ci sarebbe un risparmio per le casse del Campidoglio. Ed è anche in quest’ottica che si potrebbe leggere la recente apertura di Berdini alle Olimpiadi romane nel 2024: sgravare il bilancio comunale delle spese per nuove linee di trasporto pubblico e per il rinnovamento degli impianti sportivi, e dirottare le risorse risparmiate sulla schedatura degli edifici e sulla successiva messa in sicurezza. «Si potrà mettere a fuoco la situazione attuale in sei mesi, entro i quali verrà approntato un piano di intervento», dice Berdini. Con l’incognita, non da poco, del risultato che emergerà dai muri dei palazzi romani.

La Stampa 1.9.16
Battuta d’arresto per il lavoro
Senza impiego il 40% dei giovani

Aumentano i giovani disoccupati e i lavoratori anziani, cala l’occupazione e crescono le file di quelli che rinunciano a cercare lavoro. I dati Istat segnano una battuta d’arresto per il mercato del lavoro a luglio, dopo quattro mesi di recupero. La disoccupazione giovanile risale al 37,3%, con un balzo di due punti percentuali in un mese: ci sono 63 mila occupati in meno da giugno e 53 mila inattivi in più.

Corriere 1.9.16
Le (irrituali) previsioni. La crescita non è un decimale
di Dario Di Vico


Ma davvero il +1% del fatturato dei servizi nel secondo trimestre ’16, registrato dall’Istat l’altro ieri, è un risultato tale da farci presagire un immediato futuro più roseo?
Al ministero dell’Economia (Mef) credono di sì e infatti martedì 30 hanno emesso nel pomeriggio una comunicazione ufficiale per sostenere che «il dato è incoraggiante e promette per lo stesso periodo una crescita economica di segno positivo, non una crescita zero». È chiaro che stiamo parlando di un’iniziativa quantomeno irrituale da parte del Mef che — delle due una — o era entrato in possesso di informazioni privilegiate di fonte Istat oppure ha tirato a indovinare solo 72 ore prima del comunicato che lo stesso Istat emetterà domani mattina. Confidiamo nella seconda ipotesi e speriamo anche che la correzione di un decimale o più, intravista dal Mef, alla fine sia avvalorata dall’ufficialità. Perché in verità quel dato di partenza proveniente dal settore dei servizi non è in sé così robusto da poterci costruire sopra la speranza di una crescita reale e magari proiettarla addirittura sul terzo e quarto trimestre ‘16.
È salita sicuramente la spesa degli italiani per il trasporto aereo ma il peso dell’incremento del fatturato dei servizi si basa nella buona sostanza sulle concessionarie di auto e purtroppo le immatricolazioni di vetture nuove, dopo aver tirato per più trimestri il Pil a colpi di Panda e Punto, sembrano destinate a stabilizzarsi. Si confida molto, e non solo al Mef, anche sulle buone sensazioni di business che arrivano in questi giorni dagli operatori turistici ma non bisogna dimenticare che l’estate ’16 dal punto di vista statistico si dovrà confrontare con l’estate ’15, straordinariamente positiva in virtù del successo dell’Expo.
Se però volessimo uscire dalla querelle più contingente sulla previsione di un decimale in più — soggetta inevitabilmente agli strattoni della propaganda politica — il tema del contributo dei servizi alla crescita è sicuramente decisivo nelle economie moderne. Al Mef in fondo pensano che l’Istat abbia aggiornato più volte il dato ufficiale su quello di stima non a caso e che il motivo risieda in una sorta di sottovalutazione «tecnica» della terziarizzazione. Fedele Novellis, direttore del Centro ricerche Ref, aggiunge che in realtà si stanno ridisegnando i confini statistici tra manifattura e servizi e che l’allungamento delle filiere dovuta all’esternalizzazione e alla contaminazione con le professioni sposti quote del Pil più a valle e di conseguenza segni comunque una minore dinamica del comparto manifatturiero. Si può aggiungere che anche il successo dell’e-commerce (e il peso della logistica) sta modificando strutturalmente la filiera e richieda in qualche misura un aggiornamento della strumentazione classica.
Chi sostiene questa tesi con più vigore e non da oggi è l’economista Innocenzo Cipolletta, secondo il quale in Italia siamo ancora abituati a misurare l’economia reale «con il contenitore novecentesco delle fabbriche, dei volumi e delle famiglie» quando invece tutte e tre sono investite da una profonda trasformazione. «Chiediamo di continuo alle imprese di investire per salire nella catena del valore dei propri prodotti e poi misuriamo la mera quantità, e non il valore aggiunto. È una contraddizione incredibile». Che finisce per penalizzare un modello di specializzazione produttiva, come quello italiano, costretto in questa fase storica per sopravvivere agli asiatici a salire di gamma. Per produrre delle scarpe di plastica — spiega l’economista — serve solo un buon macchinario e poche persone addette alle operazioni manuali. Per fare lo stesso prodotto di maggiore qualità serve un buon disegno, uno studio sulle caratteristiche del camminare, una buona prototipizzazione, una campagna pubblicitaria efficace e una distribuzione efficiente. Una ricca dose di servizi ad alto valore aggiunto. «Oggi però questo salto di qualità della nostra produzione è segnalato solo dai dati dell’export che registrano correttamente entrambe le componenti: la quantità e il valore» conclude Cipolletta, che auspica anche un’ampia discussione sul tema del contributo dei servizi al Pil. Una discussione, aggiungiamo, che si svolga al riparo dalla propaganda politica.

Repubblica 1.9.16
Cala l’occupazione prezzi in discesa retribuzioni al palo l’economia è in frenata
Per la prima volta da mesi si riducono i posti di lavoro Ma il premier: “Noi abbiamo migliorato la situazione”
di Barbara Ardu’


ROMA. Un’Italia ferma, in attesa, con le famiglie timorose di spendere e le imprese indecise sul da farsi. È questa la fotografia economica che scatta l’Istat alla ripresa di settembre. Fermo il livello generale dei prezzi, che per i primi sette mesi del 2016 si arresta sullo zero, anche se a luglio l’indice che misura la discesa, è andato un po’ meglio. Anche il mercato del lavoro, a parte alcuni aggiustamenti, rimane sostanzialmente immutato nella composizione. Va bene per i dipendenti over 50, un po’ meno per le donne, va male, anzi malissimo per i giovani: ben due punti percentuali persi sul mese precedente. C’è un primo stop alla crescita degli occupati a luglio ( — 63mila), che dopo quattro mesi di segno positivo preoccupa. Salgono gli inattivi, quelli che hanno dato forfait e il lavoro non lo cercano più (+53 mila). Calano partite Iva e collaboratori. Di contro la disoccupazione va giù all’11,4%, dall’11,6% di giugno.
Fermi, certifica l’Istat, anche gli stipendi. L’indice che misura le retribuzioni orarie è lo stesso del mese precedente e sull’anno segna un più 0,6% (e non c’è da sorprendersi visto che oltre il 68% dei dipendenti aspetta, da mesi, il rinnovo contrattuale). Le retribuzioni ferme non sono una buona notizia. Spingono l’allarme deflazione, cioè il calo continuativo del livello generale dei prezzi, che nel caso italiano si accompagna alla discesa della domanda: spendono in pochi. Ma se non aumentano i salari il livello generale dei prezzi ne risente, perché il salario è pur sempre un costo di produzione. Se è fermo, anche i costi aziendali sono fermi e così i prezzi. Un allarme che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, aveva già lanciato a maggio.
Ma sono i dati sulla disoccupazione a scatenare la polemica politica, con le opposizioni che attaccano e il premier Matteo Renzi il quale difende l’operato del governo con trenta tabelle che celebrano i 30 mesi del suo governo, paragonando l’”oggi” a “ieri”. E il capitolo occupazione è ampio: gli occupati, passati da 22,180 milioni a 22,765 milioni. La disoccupazione che dal 13,1% è scesa all’11,4%. Anche il confronto sul dato della disoccupazione dei giovani è significativo: era 43,6%, è calata al 39,2%.
Le slides di Renzi raccontano tutti gli interventi in ambito economico: crescita del Pil dell’1%, introduzione del bonus di 80 euro al mese, riduzione del canone Rai a 100 euro. Su tutte le pagine uno slogan: “Numeri non chiacchiere”.
Lapidario Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. «Trenta slide colorate per dire niente...un confronto non meglio definito fra ‘ieri’ e ‘oggi’ ». La tendenza a un miglioramento sul mercato del lavoro però sembra rimanere positiva. «La crescita occupazionale dall’inizio dell’anno c’è — ha detto Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro alla Camera — anche se è la qualità del lavoro a diminuire».

Repubblica 1.9.16
Il bazooka spara a salve
di Ferdinando Giugliano


LA FRUSTATA, la scossa, il bazooka. Le metafore per descrivere le iniziative dei mesi scorsi per rilanciare la ripresa italiana ed europea non mancano. A latitare sono invece gli effetti di lungo periodo su crescita, prezzi e occupazione.
Il nuovo autunno dell’economia italiana non ha infatti dovuto attendere il cambio di stagione per cominciare. I dati di ieri sul mercato del lavoro segnano un calo degli occupati e un aumento degli inattivi, con peggioramenti significativi per i giovani. I prezzi continuano a scendere, dello 0,1 per cento rispetto a un anno fa, segno che l’Italia resta tecnicamente in deflazione. E se è probabile che, a seguito di alcune revisioni, la crescita nel secondo trimestre sarà più alta dello zero segnato ad agosto, la ripresa resta molto più flebile di quanto il governo avesse preventivato.
DOPO anni di austerità fiscale e politiche monetarie troppo timide, il governo di Matteo Renzi e la Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi hanno provato a spingere la crescita. A Roma si è seguita la strada, piuttosto comoda, dei bonus fiscali. Agli 80 euro di sconto sulle tasse per oltre 10 milioni di lavoratori è seguita la decontribuzione per i neo-assunti — totale per chi ha trovato lavoro l’anno scorso, del 40 per cento nel 2016. A Francoforte, invece, sono state avviate massicce iniezioni di liquidità, tagliando i tassi d’interesse sui depositi sotto lo zero e annunciando acquisti di obbligazioni per oltre mille miliardi di euro.
Queste iniziative variano nella loro efficacia immediata: alcune, come la decontribuzione, sono servite a diffondere nel loro primo anno di esistenza i contratti a tempo indeterminato, come evidenziato da un paper di Paolo Sestito della Banca d’Italia. Altre, come gli 80 euro, hanno aiutato a spingere i consumi ma anche le importazioni, sollevando grossi dubbi sull’opportunità di destinare risorse così ingenti a una misura così poco mirata. Le politiche eterodosse della Bce hanno abbassato notevolmente il costo del credito per governi e imprese, ma sembrerebbero aver anche stimolato i prestiti ad aziende decotte, come testimonia un recente lavoro di Viral Acharya della New York University e colleghi.
Dopo un inizio relativamente promettente, l’impatto di queste misure si è però andato progressivamente riducendo, obbligando banchieri centrali e ministri a rivederle, a volte cambiando strada, altre raddoppiando i loro sforzi. L’impatto degli incentivi sull’occupazione sta scemando, tanto che il governo non è intenzionato a rinnovarli per l’anno prossimo. La Bce ha già più volte incrementato il suo stimolo monetario, e, con l’inflazione dell’eurozona ferma allo 0,2 per cento in agosto, potrebbe farlo ancora nei prossimi mesi, prima del termine del programma di quantitative easing previsto per marzo 2017.
Questi interventi sembrano però troppo limitati vista la gravità dei problemi che l’eurozona e l’Italia in particolare hanno davanti. Il nostro debito pubblico resta enorme a fronte di una crescita troppo debole per eroderlo. Lunghi periodi di disoccupazione rischiano di spingere sempre più persone verso l’inattività. Intanto, l’invecchiamento della popolazione pone una sfida formidabile per i nostri sistemi pensionistici.
La soluzione sta in interventi più radicali: per rendere la politica monetaria più efficace, le banche europeee e italiane in particolare vanno ricapitalizzate, anche a costo di penalizzare gli obbligazionisti subordinati. La ripulitura dei bilanci dai crediti deteriorati dovrebbe permettere agli istituti di credito di prestare di più alle aziende innovative, invece di continuare a scommettere sulla resurrezione dei loro debitori “zombie”.
Ma, come ha ripetuto più volte lo stesso Draghi, la politica monetaria non può bastare per far ripartire l’eurozona. Da questo punto di vista una priorità è tornare a ragionare in maniera decisa sulla spesa corrente degli Stati, ridisegnandone il perimetro, anche a costo di toccare diritti acquisiti come ad esempio la spesa pensionistica non legata ai contributi versati. Le risorse liberate potranno essere utilizzate per rilanciare gli investimenti pubblici e ridurre le tasse, aumentando la competitività del nostro sistema produttivo. Una manovra di questo tipo appare più utile di un esercizio indiscriminato di deficit spending, comunque impossibile viste le regole europee: un lavoro di Gianfranco Di Vaio, economista della Cassa Depositi e Prestiti, pubblicato ad agosto, mostra come gli investimenti pubblici siano più efficaci se accompagnati da conti dello Stato in ordine.
Difficilmente la legge di bilancio di quest’anno, a cui stanno lavorando in queste settimane il ministro Pier Carlo Padoan e il sottosegretario Tommaso Nannicini, potrà imprimere una svolta di questo tipo. Il governo è infatti troppo impegnato a vincere il referendum sulla riforma costituzionale per spingersi in manovre coraggiose sul fronte del taglio della spesa. Una manovra auspicabile sarebbe una riduzione strutturale del cosiddetto cuneo fiscale, che potrebbe avere effetti più duraturi degli incentivi fin qui promossi, ma il governo non sembra purtroppo intenzionato a muoversi a riguardo.
Un’eventuale vittoria del Sì al referendum potrebbe aiutare a sollevare il clima di incertezza che sta frenando gli investimenti. Ma a quel punto il governo non avrebbe più scuse per implementare una rivoluzione più volte annunciata e, al di là delle scosse e delle frustate, mai del tutto compiuta.

Corriere 1.9.16
Il premier tenta di bilanciare il pessimismo degli avversari
di Massimo Franco


Gli auguri della cancelliera tedesca Angela Merkel a Matteo Renzi e alle sue riforme sono sinceri, e graditi. Arrivano in un momento in cui il premier italiano cerca di dare al summit Italia-Germania di ieri alla Ferrari di Maranello il carattere della svolta, della «ripartenza» dopo il terremoto. E si accompagnano a un rosario di trenta slide con le quali Palazzo Chigi rivendica trenta mesi di «fatti e non chiacchiere»; e soprattutto analizza in chiave tutta positiva i dati dell’Istat che continuano a mostrare una situazione in chiaroscuro su occupazione e debito pubblico.
È una strategia tesa a contrastare la controverità delle opposizioni, che vedono un’economia in grande affanno. Probabilmente bisogna fare la tara a entrambe queste letture della crisi. È logico che Renzi voglia sottolineare quanto ha realizzato; e velare gli aspetti più controversi di riforme come il jobs act. Quando ieri ha detto che la riforma del mercato del lavoro si sarebbe dovuta fare dieci anni fa, da una parte scarica sui predecessori i ritardi; dall’altra lascia capire che i risultati sono più magri rispetto alle aspettative.
Le stesse critiche a un’Unione europea che non corre mentre «fuori» il mondo va veloce sembrano un’eco della polemica di Renzi con Bruxelles sulla flessibilità: sebbene l’appunto provenga da un Paese che non cresce da una ventina di anni.Comunque, la Merkel ieri ha dato un cauto appoggio alla richiesta di Renzi di fondi per la ricostruzione. «L’Italia presenterà un progetto in maniera trasparente e credo che in Europa troveremo una soluzione sensata», ha affermato la cancelliera alla fine.
Suonano come parole anodine, ma permettono di parlare di successo del vertice. Il premier ne ha bisogno per bilanciare l’immagine disastrata che i suoi avversari vogliono trasmettere della situazione del Paese: un’offensiva che sfrutta il malcontento diffuso e demolisce fino alla caricatura tutto quello che l’Esecutivo fa. Più Renzi rivendica quelli che ritiene successi, più gli oppositori sottolineano quelli che considerano fallimenti. L’obiettivo è di costringerlo sulla difensiva e logorarlo; e contrastare la sua narrativa che nella prospettiva del referendum istituzionale sta tornando aggressivamente ottimistica.
Non c’è un’Italia al collasso in materia di immigrazione, replica il premier alla Lega. I posti di lavoro,assicura, aumentano, sebbene le opposizioni sostengano all’unisono che il Jobs act è stato un buco nell’acqua, citando l’Istat sulla disoccupazione giovanile. E la riforma costituzionale, assicura, non ridurrà la democrazia. Renzi non parla più di dimissioni in caso di vittoria dei «No». Si limita a dire che in quel caso la situazione «resterebbe com’è», paludosa e negativa. Su questo sfondo si incunea la gestione del dopoterremoto: una grande opportunità, e insieme un rischio. A guidarla sarà Vasco Errani, Pd, nominato oggi.

il manifesto 1.9.16
Le slide appannate di Renzi
Governo. Renzi ci riprova con gli slogan: 30 figurine per 30 mesi di governo per dire che va tutto meglio. Ma anche i dati sull’occupazione lo smentiscono e rendono più complicata la manovra, da riscrivere
di Andrea Colombo


C’è Leo, il cane-eroe, che a comando del premier italiano offre la zampa alla cancelliera tedesca. C’è Sergio Marchionne che a Maranello fa l’ospite in tenuta casual, illudendosi di ricordare l’eleganza naturale dell’Avvocato. C’è Matteo Renzi che riconosce alla potentissima il merito di aver fatto sentire all’Italia «la vicinanza tedesca» e la signora che ricambia la cortesia annunciando i finanziamenti teutonici per la ricostruzione di una scuola e soprattutto lasciando capire che userà i proprio buoni uffici perché all’Italia sia concessa l’agognata super-flessibilità. Coreografia e regia studiate nei particolari. Peccato che dietro le quinte la realtà sia più ostica.
Poche ore prima erano usciti i dati Istat sullo stato dell’occupazione. Per quanto governo e Pd, coadiuvati dalla stampa con Repubblica ormai imbattibile nell’ossequio, si arrampichino sugli specchi per contrabbandarli come positivi, sono invece pesantissimi e pienamente omogenei a quelli, altrettanto negativi, usciti un mese fa sullo stato del Pil. Restituiscono nel complesso un quadro sconfortante, non solo perché registrano 63mila posti di lavoro in meno, a luglio, rispetto al mese precedente, ma perché tutti gli indicatori significativi hanno virato pesantemente in rosso: cresce il lavoro tra chi ha più di 50 anni, diminuisce tra under-50 e s’impenna tra i giovani con addirittura il 2% di disoccupati in più. Aumentano gli inattivi, cioè quelli che il lavoro non lo cercano più. Tra i contratti, una volta smessi gli incentivi, tornano a gonfiarsi i contratti a termine e a dimagrire quelli stabili.
Non è tanto questione di percentuali che, come ricorda il presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, su archi temporali così brevi sono poco affidabili. La nota dolente è che il segnale nel complesso è chiaro, tanto più se sommato ai deludentissimi dati sul Pil: la renzinomics non funziona. I pur pallidi risultati positivi dei mesi scorsi si rivelano drogati ed effimeri. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti prova a rivendersela come un successo: «Rimangono positive le tendenze di breve e lungo periodo». Per l’M5S Luigi Di Maio parla invece di «bollettino di guerra». Da Sinistra italiana Alfredo D’Attorre e la capogruppo al Senato Loredana De Petris denunciano il «fallimento» di Renzi e chiedono una sterzata, dal Fiscal al Social Compact. In concreto investimenti pubblici.
Ma al di là delle schermaglie, i dati di ieri sono tempestosi per due ragioni distinte. Sul piano economico rendono più complicata la manovra che dovrà essere di fatto riscritta entro il 20 settembre. Sul piano politico rischiano di accompagnare Matteo Renzi alla prova referendaria circondato dall’aura livida del fallimento. L’esatto opposto di quello a cui mirava il premier, che puntava su una marcia trionfale costellata di risultati positivi su cui far leva per chiedere agli elettori di premiarli e consolidarli plebiscitando il capo del governo.
Alle propagande di tipo apocalittico, quelle che chiedono il voto minacciando in caso contrario il diluvio universale sul fallimentare modello della campagna anti Brexit, Renzi non ci ha mai creduto. Lui vuole il voto come riconoscimento dei risultati raggiunti, e se non ci sono tocca inventarseli.
Per sua fortuna da questo punto di vista Renzi è insuperabile. Ieri nella sua e-news settimanale ha squadernato addirittura 30 slides, una per ogni mese di governo. Obiettivo: dimostrare che in questi mesi tutto è cambiato in meglio. La disoccupazione non è forse scesa dal 13,1 all’11,4%? Il Pil non è forse passato dal -1,9% all’1% con segno positivo?
Il trucco c’è e si vede. Per la precisione lo vede e lo denuncia il capogruppo azzurro Renato Brunetta. Il paragone realmente indicativo, in questi casi, non è infatti quello con il passato ma con gli altri Paesi in condizioni simili, cioè quelli dell’Eurozona. E da quel punto di vista peggio dell’Italia in termini di Pil ci sono solo Grecia e Finlandia, e quanto a occupazione oltre alla solita Grecia stanno messe peggio Spagna, Cipro e Portogallo.
Di qui al referendum Renzi avrà dalla sua due alleati potenti, Angela Merkel e un’informazione che più allineata non potrebbe essere, ma anche una nemica che potrebbe rivelarsi ancora più potente: la realtà.

Corriere 1.9.16
Perché l’italicum deve essere cambiato
di Luciano Violante


Il dibattito sull’Italicum verte, prevalentemente, sulla sua compatibilità con la Costituzione. Ma quella legge elettorale andrebbe sostituita, oltre che per ragioni giuridiche, per alcune serie ragioni politiche.
Il sistema italiano è ormai caratterizzato dall’esistenza di tre poli, centrodestra, centrosinistra e Cinque Stelle. Il ballottaggio, previsto dall’Italicum, mette le chiavi della vittoria nelle mani del terzo escluso, che è in grado di condizionare l’esito finale sostenendo uno dei due contendenti. E poiché questi sostegni esigono contropartite, l’Italicum può favorire patteggiamenti clandestini che non giovano alla onestà delle relazioni politiche. In base a un decreto legislativo del 2015, emanato in attuazione dell’Italicum, l’intero territorio nazionale è suddiviso in cento collegi elettorali, per una media di circa 600.000 cittadini per ciascuno.
La maggior parte di questi collegi comprende più comuni. È evidente che le campagne elettorali saranno particolarmente costose soprattutto per i candidati meno noti, che dovranno farsi conoscere dall’elettorato. Un governo che, giustamente, fa della riduzione dei costi della politica una propria bandiera non dovrebbe sostenere una legge elettorale che costringe i candidati ad esborsi dispendiosi. L’Italicum non prevede una soglia minima di votanti per la validità del ballottaggio. Può quindi consegnare la vittoria anche a chi ha una limitata rappresentatività; è possibile vincere il ballottaggio con il venticinque per cento del consenso dell’elettorato ed ottenere il cinquantacinque per cento dei seggi a Montecitorio. Il rischio è la scarsa legittimazione democratica del vincitore.
L’Italicum, infine, potrebbe penalizzare la riforma costituzionale. Molti cittadini, pur condividendo la riforma, annunciano che nel referendum voteranno No perché pregiudizialmente contrari a quella legge elettorale, fortemente voluta dal presidente Renzi. In realtà il referendum riguarda la riforma costituzionale e non l’Italicum; è però innegabile la connessione tra la riforma costituzionale, che disegna l’ordinamento della Repubblica, e la legge elettorale che stabilisce come scegliere i partiti e le persone che eserciteranno i poteri previsti dalla riforma. Tuttavia votare No perché si dissente sull’Italicum nasconde un paradosso: la riforma infatti consente a una minoranza parlamentare di impugnare la legge elettorale davanti alla Corte Costituzionale. Questa possibilità sarebbe cancellata in caso di bocciatura della riforma. Pertanto chi vota No alla riforma in odio all’Italicum, involontariamente lo consolida. Ma la ragione, come insegna l’esperienza, a volte soccombe di fronte al pregiudizio.
Alcuni esponenti della maggioranza temono che cambiare l’Italicum potrebbe essere interpretato dall’opinione pubblica come segno di debolezza perché dimostrerebbe che il Pd teme il partito di Grillo, secondo alcuni sondaggi favorito da questa legge elettorale. Ma i Cinque Stelle, che oggi difendono l’Italicum, lo attaccarono a fondo in Parlamento. La loro opposizione al cambiamento appare quindi determinata da un calcolo di convenienza analogo a quello che verrebbe contestato al Pd.
Per una nuova legge elettorale potrebbe essere utile riprendere i collegi uninominali della legge Mattarella, come suggerisce la sinistra pd, trasformando almeno una parte della vecchia quota proporzionale, 155 seggi, in premio di maggioranza per chi conquista il maggior numero dei collegi, che complessivamente sarebbero, proprio in base a quella legge, 475. Ogni collegio sarebbe costituito da circa 100.000 cittadini: verrebbero ridotte le spese elettorali e gli eletti sarebbero vicini agli elettori.
La questione del cambiamento dell’Italicum, indipendentemente dalla pronuncia della Consulta, è seria e va affrontata rapidamente, a viso aperto. Il dibattito politico serve ad approfondire le ragioni e le conseguenze delle scelte. L’uomo di governo che ne tiene conto, e si corregge, dimostra senso dello Stato e merita la fiducia dei cittadini.

il manifesto 1.9.16
Scuola, dilettanti allo sbaraglio
Il ministero ammette migliaia di errori sui trasferimenti degli insegnanti
di Giuseppe Caliceti


Per lavorare nella scuola, in questa nostra Italia di oggi, aver studiato o aver vinto concorsi non basta. Come non basta avere insegnato come precari per anni e anni, anche decenni. Quello che è necessario e indispensabile è sempre un avvocato. Si procede così: con ricorsi e carta bollata. Non c’è altra possibilità, sembra.
La notizia, a pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico, dell’improvviso ripensamento del Miur sulla questione trasferimenti degli insegnanti, dà bene l’idea di come questo governo, sul fronte scuola, si trovi in questo momento in grande difficoltà e proceda a tentoni. Si tratta dell’ammissione inequivocabile delle migliaia di errori sui trasferimenti della scuola primaria. Per la precisione oltre 2mila e 600 ricorsi, il 15 per cento. E, contemporaneamente, del tentativo maldestro da parte del governo di correre ai ripari per non peggiorare la situazione. Ma anche le ritirate, occorre farle con un minimo di intelligenza e strategia che qui, evidentemente, mancano.
A questo punto viene da chiedersi: e l’85 per cento? Insomma, siamo all’improvvisazione e al fai-da-te. Al caos che regna sovrano e si alimenta con altro caos. All’ora dei dilettanti allo sbaraglio. Un’operazione sbagliata, ma che non si vuole ammettere di aver sbagliato parlando di piccole “imperfezioni”, che però così piccole non sono se coinvolgono almeno il 15 per cento delle persone.
Un’operazione completamente da rifare, insomma, che più si cerca di rattoppare e più diventa tragicomica.

il manifesto 1.9.16
Scuola   
Il disastro (voluto) dei «concorsoni»
Cultura e Istruzione. Il governo cerca 500 dipendenti per i Beni culturali e oltre 63mila insegnanti. Ma entrambi i concorsi sono un clamoroso fallimento: quiz assurdi, algoritmi sballati, bocciature tanto elevate da diventare inspiegabili. Chi seleziona i selezionatori? In altri paesi le dimissioni dei ministri sarebbero un atto minimo dovuto
di Manfredi Alberti


Quest’anno sono stati banditi due importanti concorsi, uno per il reclutamento di 500 funzionari da assegnare al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibact), e uno per l’assunzione su base triennale di 63.712 docenti per la scuola. Il governo ha sbandierato le due procedure di reclutamento come la prova della propria volontà di investire sulla cultura.
Nulla di più fuorviante. Da un lato, infatti, i posti messi a bando serviranno in molti casi a garantire soltanto l’ordinaria amministrazione o addirittura la mera sopravvivenza di certe strutture (come gli archivi di Stato e le biblioteche pubbliche); dall’altro, osservando il modo in cui si stanno svolgendo i concorsi, si evince con chiarezza quanto in realtà valgano per il nostro governo i beni culturali e la formazione dei giovani studenti: meno di zero.
Come molte selezioni pubbliche, anche il «concorsone» del Mibact, volto a reclutare diverse figure fra cui archivisti, bibliotecari, antropologi e storici dell’arte, ha già previsto e attuato una prima scrematura dei candidati mediante una prova preselettiva. Ma invece di organizzare quest’ultima con un metodo serio, basato sulla selezione dei curricula o sulla valutazione delle esperienze e delle conoscenze disciplinari dei candidati, si è pensato bene di ridurre il tutto a una competizione demenziale da telequiz.
Forse la frequentazione giovanile di Renzi con la «Ruota della fortuna» di Mike Bongiorno deve avere offerto al governo l’ispirazione, anche se in questo caso il modello di riferimento sembrerebbe essere stato il più antico telequiz «Lascia o raddoppia»: agli aspiranti funzionari del Mibact è stato richiesto infatti di mettere in sordina la propria intelligenza e le proprie competenze, e di coltivare esclusivamente la capacità mnemonica a breve termine e il più sterile nozionismo.
Cos’altro serviva, infatti, se non la capacità acritica di immagazzinare nozioni, per rispondere in 30 secondi a domande a risposta multipla estratte da una banca dati di quesiti resa pubblica qualche giorno prima della prova? Le conoscenze richieste dal «quizzone», legate per lo più al diritto e alla storia dell’arte, erano spesso banali o inutilmente minuziose, e pronte per essere dimenticate il giorno successivo alla prova.
È pensabile che un paese come l’Italia, ricco come nessun altro Stato di archivi, biblioteche, musei, aree archeologiche e opere d’arte, scelga con modalità da telequiz coloro che dovranno conservare e valorizzare il patrimonio culturale della Nazione? Evidentemente no.
Ma al peggio non c’è fine.
Lo spettacolo offerto dall’ultimo concorso a cattedra è ancora più sconcertante. La selezione avrebbe dovuto reclutare in tutta Italia 63.712 docenti, ma non potrà farlo perché più della metà dei 175.245 candidati, tutti rigorosamente abilitati, sono stati già bocciati alla prima prova, quella scritta.
In alcune regioni e per alcune classi di concorso si è assistito al paradosso del 100% di bocciature. Anche se le prove orali non si sono ancora concluse, si stima che per il prossimo anno scolastico circa 23.000 cattedre resteranno scoperte, e verranno assegnate a quegli stessi professori bocciati, richiamati in qualità di supplenti. Come è possibile che così tanti abilitati, certificati dalle università italiane, siano diventati tutti improvvisamente dei grandi somari?
Secondo il ministro Giannini e la stampa filogovernativa l’elevatissimo numero di bocciature è dipeso dalla scarsa preparazione dei candidati e dall’inadeguatezza dei percorsi abilitanti gestiti dalle università. Ma si tratta di una lettura disonesta, falsa e deformante, utile a giustificare quello che appare come il vero obiettivo del governo: decimare e umiliare i giovani insegnanti precari, anche in vista del fatto che probabilmente per molte classi di concorso i posti realmente disponibili saranno inferiori a quelli banditi.
Se prendiamo in esame la struttura della prova scritta sottoposta dal Ministero agli aspiranti docenti, appare chiaro che l’obiettivo del governo è stato quello di facilitare l’ecatombe. Ai candidati, infatti, è stato chiesto di rispondere in 150 minuti sia a sei domande a risposta aperta su argomenti vasti e spesso surreali, da declinare in chiave didattica, sia a diversi quesiti a risposta multipla in lingua straniera. Il tempo a disposizione per ciascun quesito, a conti fatti, era palesemente sottodimensionato: circa 15 minuti per domanda.
L’intera procedura era informatizzata (sorry, «computer based»), e del tutto inadeguata a supportare un concorso a cattedra.
Tutti i partecipanti alla prova, inclusi gli ammessi all’orale, parlano di un compito concepito in modo squilibrato, impossibile da svolgere in maniera soddisfacente. Una sorta di «talent show» per bravi dattilografi. Chi ha superato la prova scritta, e magari anche l’orale, non si sente un vincitore. Solo un fortunato che è riuscito a sfuggire alla mannaia di bocciature indiscriminate e possibilmente anche casuali.
Le commissioni, costituite a livello regionale, si sono prestate a questa farsa, applicando in maniera arbitraria e spesso scriteriata griglie di valutazione del tutto inadeguate. L’esito disastroso che è sotto gli occhi di tutti, probabilmente, è dipeso anche dalla scarsa preparazione di chi doveva giudicare.
L’approssimazione e la fretta con cui è stato allestito il concorso, insieme alla mancanza di un adeguato compenso per i commissari, hanno probabilmente imposto agli uffici scolastici regionali di raccattare per la correzione degli elaborati molti docenti non all’altezza della situazione, forse solo desiderosi di un po’ di visibilità e di micropotere.
Si tratta in ogni caso del primo concorso a cattedra in cui candidati mediamente molto preparati (tutti abilitati, e molti con dottorati, pubblicazioni scientifiche ed esperienze all’estero) sono stati eliminati senza nessuno scrupolo da colleghi tendenzialmente meno formati di loro.
Di fronte a un simile scempio il ministro Giannini non dovrebbe fare altro che dimettersi. Ma è inutile illudersi, il gesto non sarebbe coerente con l’arroganza di questo esecutivo e del suo capo.
Probabilmente una vittoria del «no» al prossimo referendum costituzionale non sarà sufficiente a liberare Palazzo Chigi dal peggior governo dell’Italia repubblicana.
Renzi sappia tuttavia che in quell’occasione avrà contro di lui la parte migliore dei docenti, degli studenti e delle famiglie che vivono dall’interno la scuola italiana: ossia l’unica vera «buona scuola» esistente.

Il Sole 1.9.16
Roma. Lite con il Campidoglio, lascia il dg Atac
Rettighieri: «Se non ci sono le condizioni, perché dovrei restare?» - La replica: irresponsabile
di Manuela Perrone


ROMA Lascia Atac il direttore generale Marco Rettighieri, uno dei grandi “tecnici” del trasporto in Italia, voluto dall’ex commissario Francesco Paolo Tronca per risanare la partecipata capitolina della mobilità, gravata da un debito che supera il miliardo. Il divorzio con l’amministrazione pentastellata di Virginia Raggi si consuma al termine di due giorni di veleni, con un duro botta e risposta. «Se non ci sono le condizioni, perché dovrei restare?», chiede Rettighieri. Il Campidoglio risponde: le sue dichiarazioni «evidenziano un atteggiamento irresponsabile poiché arrivano alla vigilia di settembre e rischiano di danneggiare la città e tutti i romani». E ancora: «Preso atto delle posizioni espresse dal dg Atac l’amministrazione in queste ore è al lavoro per l’individuazione di un nuovo management».
La rottura è insanabile. Tutto comincia martedì, quando il senatore Pd Stefano Esposito pubblica la lettera inviata da Rettighieri all’assessora capitolina ai Trasporti Linda Meleo e, per conoscenza, all’ottava commissione del Senato, in cui il Dg si è tolto tanti sassolini dalle scarpe: sui 18 milioni stanziati dalla giunta prima di Ferragosto per i materiali rotabili di Atac («non ancora disponibili perché nessun bonifico è stato effettuato»), su una telefonata di Meleo che chiedeva chiarimenti sullo spostamento di un dirigente (il simpatizzante Cinque Stelle Federico Chiovelli, che era stato rimosso dal vertice della ferrovia Roma-Viterbo), ritenuta una intollerabile «ingerenza esterna», e sulla promessa di Raggi che alla riapertura delle scuole il 95% dei convogli della linea A sarebbero stati operativi (con fatica, correggeva Rettighieri, si arriverà a 28 su 33, dunque all’85%).
Replica l’assessore a Bilancio e partecipate Marcello Minenna: i 18 milioni sono già entrati «nella effettiva disponibilità dell’azienda». Dall’entourage di Meleo, che definisce «molto grave» la diffusione della lettera di Rettighieri, si negano ingerenze: la telefonata incriminata è stata «una semplice richiesta del socio unico di Atac, cioè lo stesso Campidoglio, di essere messo al corrente di eventuali spostamenti nell’organigramma aziendale». Il dem Esposito trova pane per i suoi denti: «Perché non mostrano la copia del bonifico? Minenna è un ottimo raccontatore di fiabe». E sulla chiamata non ha dubbi: «Era una telefonata di raccomandazione. Quello dei Cinque Stelle è clientelismo 2.0, altro che onestà».
Il risultato è che alla ripresa si moltiplicano i rebus per la giunta Raggi. Il dossier trasporti si aggiunge ai rifiuti, alle Olimpiadi (su cui resta il gelo del M5S, nonostante l’apertura dell’assessore Berdini) e alle scelte della sindaca su nomine e compensi. Un punto su cui il Movimento, dal direttorio alla base, si aspetta la marcia indietro che ancora non è arrivata.

Il Sole 1.9.16
Tribunale Milano. Il genitore deve ascoltare il minore
Condannato alle spese processuali il separato troppo litigioso
Rivolgersi al giudice è l’estrema ratio: dovrebbe bastare l’ordinaria interlocuzione con i figli
di Giorgio Vaccaro


L’ascolto del minore è compito primario dei genitori, anche separati: il ricorso al giudice in caso di contrasto resta l’extrema ratio e il genitore incapace di comprendere le esigenze del figlio rischia la condanna a pagare le spese processuali. Così il Tribunale di Milano, con l’ordinanza 3 giugno 2016 (estensore Cosmai) ha autorizzato il padre a far partire la figlia minore, ormai prossima ai 18 anni, per un viaggio di studio/vacanza estivo in Australia.
La sentenza ricorda che «ascoltare il minore è concetto diverso dal sentirlo». Partendo da questo lapalissiano concetto - troppo spesso offuscato dal conflitto genitoriale che porta entrambi i genitori a comprendere solo quanto in linea con i loro desiderata – il giudice afferma alcuni rilevanti criteri, da applicarsi nel concreto esercizio della responsabilità genitoriale, rispetto alla procedura di ascolto “processuale” del minore, che resta comunque principio insuperabile a sua tutela.
Il padre della minore aveva chiesto, con una specifica ed autonoma domanda nel corso di un processo separativo, il placet del magistrato per il viaggio che la figlia aveva dichiarato voler effettuare, ma al quale la madre si opponeva perché sarebbe stata espressa «una volontà non genuina della minore in relazione a tale esperienza». Il contrasto tra i genitori aveva convinto il padre a formalizzare l’istanza al magistrato, che in ossequio alla norma vigente, aveva disposto l’immediato ascolto diretto della ragazza.
La sentenza delinea con chiarezza i princìpi di diritto desumibili dalla vicenda. È incontestabile che, in caso di contrasto tra gli ex-coniugi nell’esercizio della reciproca responsabilità genitoriale, la parola definitiva sull’autorizzazione compete al giudice della famiglia. È acclarato pure che il minore gode dell’incomprimibile diritto ad essere “ascoltato” in tutti i procedimenti che lo riguardino, per cui l’ascolto è «atto imprescindibile, soprattutto allorché il contrasto genitoriale afferisca ad una decisione che coinvolge in via diretta la minore medesima, come nel caso di specie in cui, a prescindere dalla volontà e dalla autenticità delle dichiarazione della minore, è indubbio che si tratti di una decisione che la riguarda in prima persona, dal momento che è la sola (minore) a dover eventualmente andare in Australia per la vacanza studio». Ma tutto ciò non toglie che in questo caso l’ascolto da parte del giudice deve ritenersi un compito «secondario rispetto a quello primario, dei genitori, di ascoltare i propri figli».
Ciò è argomentato dal giudice col fatto che «se i coniugi avessero ascoltato, avrebbero evitato un ulteriore accesso all’autorità giudiziaria ed avrebbero attuato le migliori scelte nel rispetto dei desideri, delle aspirazioni e delle inclinazioni della propria figlia». Infatti la minore, nel corso dell’audizione, avesse precisato «di aver espressamente detto, alla propria madre quello che pensa, di essere consapevole delle resistenze della madre ma di essere determinata nella propria posizione». Pertanto, il programma di studio e la presenza in loco di una zia, che rappresenta una ulteriore tutela a favore della minore stessa, consentono di ritenere del tutto infondate le preoccupazioni materne, con conseguente autorizzazione al viaggio.
Non solo. La sentenza osserva che «se vi è qualcuno che avrebbe dovuto prender atto della volontà della minore e non lo ha fatto, questa è proprio la (madre) cui la (minore) ha espresso il proprio chiaro pensiero: profilo che non potrà non essere valutato anche ai fini relativi ai profili della genitorialità» con la pronuncia finale sulla separazione.

Repubblica 1.9.16
L’Italia senza figli litiga sul Fertility Day
di Michele Serra


CHIAMARLO Giorno della Fertilità avrebbe avuto un inevitabile retrogusto da Ventennio, con l’esortazione alle fattrici italiane di dare soldati alla Patria.
SEGUE A PAGINA 29 VANNI A PAGINA 19 CON UN’ANALISI DI ROSINA
EBENEDIZIONE del parroco alle spose gravide. E dunque l’angloma Fertility Day, indetto per il 22 settembre del ministero della Salute, suona, più che renziano, prudentemente eufemistico rispetto a un argomento in sé minaccioso, perché si intromette in cose privatissime, e a forte rischio di motto di spirito.
Probabile che la ministra Lorenzin e i suoi collaboratori sapessero, o almeno intuissero, di addentrarsi in un campo minato. Incoscienti o coraggiosi che siano, va loro riconosciuto il merito di esercitare con abnegazione il loro ruolo, perché un comune mortale, di fronte a meno della metà delle reazioni acide, dei commenti ostili e delle facezie raccolti in poche ore dal Fertility Day, si chiederebbe chi glielo ha fatto fare.
Glielo ha fatto fare, probabilmente, la constatazione che esiste, in Italia più ancora che nel resto d’Europa, un problema di denatalità grosso come una montagna. Si mettono al mondo pochissimi figli, tanto che l’immigrazione ha sempre più le sembianze (e il valore) di una massiccia importazione di giovinezza in una società che sembra produrre soprattutto vecchiaia. Peccato che un Fertility Day promosso dal ministero della Sanità abbia l’inevitabile effetto di defalcare, appunto, a “problema sanitario”, o di educazione genitale (si dirà così?) quello che con ogni evidenza è un problema economico e sociale.
Non si fanno figli prima di tutto perché non si ha un lavoro per mantenerli e una casa per metterceli, perché ci si sente precari, perché la madre è sempre certa ma il futuro sempre incerto. Eventuali componenti narcisistiche (non si fanno più figli perché gli adulti occidentali tendono a restare per sempre bambini, e i bambini non fanno bambini) esistono certamente, ma non sono il cuore della questione. È molto probabile che prospettive economiche e psico-sociali un poco meno depresse, e deprimenti, avrebbero effetti fertilizzanti. Meno probabile che sia una campagna di educazione ai piaceri della famiglia a risvegliare la voglia di diventare genitore di ragazze e ragazzi che spesso dipendono ancora, quasi in tutto, dai propri genitori. Quando le generazioni si insaccano l’una nell’altra, generare diventa vagamente claustrofobico, no?
D’altra parte, lo zelo delle istituzioni obbedisce a logiche “naturali” di ottimismo e di virtuosità che i cittadini, specie quando sono di malumore, non riescono ad accogliere con il favore e la cortesia che meriterebbero. C’è poi, nello spirito italiano, un’irriducibile avversione, perfino superiore a quanta ne basterebbe, per l’intromissione pubblica nelle scelte private. Mio nonno, italiano di mondo vissuto per quasi l’intera vita a New York, se la rideva di gusto dei Syphilis Day e dei Single Mother Day (Giornata della sifilide, Giornata della ragazza madre) ai quali le signore benpensanti e benefacenti lo esortavano a partecipare, ovviamente con obolo da versare alla causa prima di tracannare numerosi cocktail. Ma era, appunto, un signore molto navigato, e guardava alla ingenua filantropia puritana con una punta di esilarato cinismo. Magari, però, le ragazze madri e gli affetti da malattie veneree ricavarono, da quelle attenzioni e da quella retorica soccorrevole, qualche sollievo e qualche vantaggio.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma possiamo indirizzare alla ministra Lorenzin un augurio che ci sollevi, chi più chi meno, dal nostro disincanto: che almeno un paio di culle si riempiano proprio in virtù delle raccomandazioni e dei suggerimenti del Fertility Day, facendo registrare, il 22 settembre, un’impennata anche minima del tasso di natalità. Si sa che basta uno 0,01 in più, di questi tempi, a far suonare le campane a festa.
(Noi ci sentiamo esentati per ragioni anagrafiche. L’età ha i suoi vantaggi).

La Stampa 1.9.16
I genitori rifiutano la chemio. Muore a 18 anni di leucemia
Padova, la famiglia: lei non voleva le cure. I medici: poteva salvarsi
di Andrea De Polo

qui

La Stampa 1.9.16
I radicali a congresso senza Pannella
La sfida di Giovanni Negri alla leadership
Mossa dell’ex segretario, mentre gli ortodossi litigano coi quarantenni
di Ugo Magri


Frizzanti discussioni si annunciano al congresso radicale che inizia alle ore 14 nel carcere romano di Rebibbia. Il primo scontro sarà proprio sulla «location»: mai era accaduto che un intero partito si riunisse dentro un penitenziario, al massimo singoli esponenti loro malgrado. Per accedervi bisognerà superare i controlli di sicurezza e lasciare all’ingresso tutta l’elettronica, telefonino compreso. Inoltre verrà ammesso solo chi aveva compilato un modulo online prima del 26 agosto, i ritardatari resteranno fuori. Cosicché non vedremo più la variopinta umanità tipica delle kermesse pannelliane, dove pure l’ultimo arrivato diceva la sua. Gli organizzatori sono convinti che Marco ne sarebbe stato orgoglioso, perché la drammatica condizione carceraria era una delle sue due nobili «fisse» (l’altra: il «diritto alla conoscenza», tema di gigantesco impatto rimasto purtroppo allo stato gassoso). Una parte della galassia radicale, invece, sospetta che la trovata di Rebibbia sia solo un modo astuto per filtrare il pubblico, isolare chi contesta la linea e svicolare dal vero grande punto interrogativo: che ne sarà del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito dopo la morte del suo fondatore?
«Felloni» contro ortodossi
I più critici si annidano tra i Radicali Italiani, dépendance nazionale del PRNTT, anche per ragioni anagrafiche. C’è proprio una diversa mentalità tra i quarantenni come Riccardo Magi o come Marco Cappato, e la vecchia guardia pannelliana incaricata di vigilare sul lascito politico del leader scomparso, oltre che su un patrimonio stimato (tra immobili e radio) in 50 milioni di euro. I «giovani turchi» muoiono dalla voglia di cimentarsi non solo sui due soliti temi cari a Pannella ma a 360 gradi. Per esempio, si sono presentati alle scorse comunali di Roma e Milano, con risultati decisamente mediocri; ma non importa, dicono, per loro contava spezzare l’incantesimo o quantomeno provarci, laddove il gruppo degli «ortodossi» (Maurizio Turco, Rita Bernardini, Walter Vecellio, Sergio D’Elia) li considera alla stregua di arrivisti che non vedono l’ora di farsi cooptare nel regime. Addirittura Turco li ha definiti pubblicamente «felloni», e di qui a sabato ne sentiremo volare altri di epiteti sanguinosi. Grandi figure come Emma Bonino, o come Gianfranco Spadaccia, per ora se ne stanno appartate, forse pure un po’ disgustate.
Il debutto di Marianna
Troppo forte è il dissidio per ricomporlo: un divorzio sembra nell’aria. Ma pure se non si arriverà a tanto, l’unica a trarne vantaggio sarà probabilmente Marianna. Cioè l’associazione lanciata un paio di mesi fa da Giovanni Negri, segretario del partito pannelliano negli anni Ottanta che poi si era ritirato dalla politica per scrivere libri e produrre dell’ottimo barolo. È ritornato in azione perché, secondo lui, ce ne sono tutti i presupposti. «I partiti di plastica sono finiti», spiega, «la Repubblica dei giudici ha fallito, rimane soltanto il grillismo di cui presto l’Italia si stancherà». Su queste macerie i radicali possono diventare l’embrione di un nuovo partito dei cittadini, Marianna appunto, che simboleggia le conquiste della Rivoluzione francese declinate nel tempo presente. Lanciare un’opa sul Partito radicale a Negri, così egli assicura, non interessa. Tantomeno infilarsi nelle liti sull’eredità di Pannella. «C’è tutta un’altra storia da iniziare con l’aiuto dei tanti radicali attivi o in sonno, desiderosi di risvegliarsi». Sta preparando la proposte di Marianna su fisco, giustizia e lavoro. Ha già fissato l’atto ufficiale di nascita, una convention nazionale che si terrà a Bologna il 14 e 15 gennaio.

Corriere 1.9.16
I Radicali dopo Pannella un congresso in carcere con il rischio scissione
A Rebibbia il via al confronto tra le due anime del partito: i fedelissimi del leader e i giovani legati alla Bonino. Che oggi non ci sarà
di Silvio Buzzanca


ROMA. Marco Pannella è morto e, come in molte le famiglie, è baruffa fra i 585 eredi che oggi si riuniscono nel carcere romano di Rebibbia, prima volta nella storia politica, per celebrare il 40° congresso straordinario del Partito radicale non violento transnazionale e transpartito.
«Vi voglio bene, siete tutti miei figli», aveva detto loro il leader in una delle ultime apparizioni. Parole dolci che sono cadute nel vuoto perché una volta seppellito il leader lo scontro fra le due anime del partito è esploso in tutta la sua ampiezza e potrebbe avere il suo epilogo nel congresso che si chiuderà domenica, perché nel dibattito precongressuale la parola scissione viene pronunciata con insistenza. Anche se non si capisce bene chi vuole scindersi da chi.
Da un lato ci sono Maurizio Turco, Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Angelo Bandinelli, Laura Arconti, Aurelio Candido, Elisabetta Zamparutti, Matteo Angioli e tutti quelli che negli ultimi tempi avevano costruito intorno a Pannella una sorta di cerchio magico. Un gruppo intento a portare a compimento l’ultima battaglia del leader: la transizione verso lo Stato di diritto e il diritto universale alla conoscenza da far riconoscere dalle Nazioni unite. Battaglia universale che si associa a quella per gli Stati Uniti d’Europa e a livello nazionale alla lotta per l’amnistia e l’indulto. Obiettivi racchiusi nello slogan del congresso “da Ventotene a Rebibbia”.
Sull’altro versante si ritrovano i quarantenni del partito, che senza abbandonare i grandi obiettivi universali, puntano a battaglie locali, nazionali, specifiche. Uno schieramento che raccoglie alcune delle associazioni della galassia radicale che sono soggetti costituenti del Partito transnazionale. Così ci sono Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, Mario Staderini, ex segretario, Marco Cappato e Filomena Gallo, leader dell’Associazione Luca Coscioni, Yuri Guaiana di Certi diritti, Niccolò Figà Talamanca dirigente di Non c’è pace senza giustizia. E, a detta di tutti, dietro di loro si staglia l’ombra di Emma Bonino.
L’ex ministro degli Esteri ci sarà al Congresso? «Oggi no per impegni medici, dopo vedremo », dice sibillina. Nel frattempo, come in tutti i congressi che si rispettino, lo scontro è insieme regolamentare e politico. Lo statuto del Partito radicale prevede il congresso ogni due anni, ma l’ultimo si è tenuto nel 2011. Si concluse con Pannella che tirò fuori da cilindro l’ennesimo coniglio: fu eletto segretario Demba Traorè, un avvocato maliano. Ma di lui non si è saputo più nulla. E neanche dei congressi. Ora il tesoriere Maurizio Turco ne ha convocato uno usando gli iscritti.
Ma i “giovani”, appoggiati da Roberto Cicciomessere e Gianfranco Spadaccia, vi leggono l’intenzione di mettere le mani sul partito. E, visto che lo statuto non prevede espulsioni, la voglia di indurre alla scissione gli avversari. Magi contesta la fretta con cui è stato convocato il congresso, e il luogo, che non permette, come al solito, di iscriversi all’ultimo minuto e votare. Una violazione, dice, della natura del partito.
E sullo sfondo c’è l’eredità materiale: Radio Radicale e il suo archivio, la grande sede di Via di Torre Argentina. Oggi è tutto nella mani della Lista Pannella diretta da Turco, insieme a Laura Arconti, Aurelio Candido e la Bernardini. Per il domani si pensa a una fondazione.

Corriere 1.9.16
Rcs, oggi le liste per il nuovo board. Attesa sul Tar
di F. Mas.

Sono attese per oggi le liste dei soci per le candidature al consiglio Rcs per l’assemblea del 26 settembre sul rinnovo del board. Le liste arriveranno da Urbano Cairo, che ha il 59,83% della casa editrice del Corriere della Sera di cui è presidente e ad, e dai soci di minoranza Diego Della Valle, Mediobanca, UnipolSai, Pirelli e Andrea Bonomi tramite Imh, che hanno il 22,6%. Attesa per oggi anche la pronuncia del Tar sulla decisione Consob di non sospendere l’opas.

Il Sole 1.9.16
Editoria. Rcs, pronta la lista Cairo per il board
Entro stasera i candidati al consiglio del gruppo editoriale
L’imprenditore verso il mantenimento della carica di presidente e ceo
di Laura Galvagni


Slitta a oggi la sentenza del Tar del Lazio sul ricorso promosso dai soci storici e da Imh
Slitta la sentenza del Tar del Lazio sul delicato tema dell’Opas Rcs Mediagroup. Il verdetto, atteso per il tardo pomeriggio di ieri, verrà pubblicato con ogni probabilità oggi. Il tribunale deve esprimersi sui ricorsi presentati da Pirelli, Diego Della Valle e International Media Holding che hanno contestato la scelta di Consob di non sospendere l’offerta di Urbano Cairo sul gruppo editoriale. A inizio agosto il Tar, con tre decreti monocratici, aveva respinto le richieste della cordata e dei soci storici di congelare il comunicato con il quale la Commissione, il 22 luglio scorso, aveva decretato il successo dell’imprenditore alessandrino nella corsa alla conquista di Rcs. All’epoca il Tar non aveva «ritenuto sussistenti i presupposti» d’urgenza. Al contempo, però, il Tribunale si era riservato «ogni ulteriore accertamento sul punto». E oggi, dunque, dovrebbe alzare il velo sulla decisione definitiva. Lo farà, peraltro, a cavallo di un altro passaggio chiave per l’azienda: entro stasera dovranno essere depositate le liste per il rinnovo del consiglio di amministrazione in vista dell’assemblea del prossimo 26 settembre. Al momento si sta ragionando sull’ipotesi di un board composto di nove membri, come quello attuale. Anche se Cairo starebbe valutando la possibilità di ridurlo a sette. Il che, sulla carta, darebbe diritto all’imprenditore di esprimere fino a cinque consiglieri. Gli altri due dovrebbero essere eletti tra i nomi che verranno indicati dalle minoranze. E in quest’ottica i quattro soci storici Diego Della Valle, Mediobanca, UnipolSai e Pirelli, insieme ad Andrea Bonomi, con il suo 2% in capo direttamente a Imh, presenteranno un’unica lista. E probabilmente, salvo che Assogestioni non scenda in campo con un proprio candidato, conquisteranno entrambe la poltrone.
Riguardo le candidature al board, è certamente cruciale il numero dei componenti. Ipotizzando che venga ridotto a sette, i cinque nomi di Cairo dovrebbero essere tendenzialmente figure operative. Per questa ragione è assai probabile che l’imprenditore mantenga sia l’incarico di presidente che quello di amministratore delegato. Ciò sebbene nelle scorse settimane sia stato invitato a riflettere sulla possibilità di indicare per la poltrona da numero uno una figura di alto standing. Cairo, tuttavia, in questa fase vorrebbe avere un consiglio snello sul quale avere presa certa. Al proprio fianco, dunque, vorrebbe veder schierate una serie di figure di fiducia che condividano con lui il complicato percorso di ristrutturazione. Una squadra di lavoro, senza nomi altisonanti. Ecco perché, si ipotizza in queste ore, dovrebbero venir confermati Stefania Petruccioli (che giusto ieri si è dimessa dal cda Cairo), Marco Pompignoli, e Stefano Simontacchi. Manca un quinto candidato e secondo alcune interpretazioni l’imprenditore starebbe considerando di inserire in lista Gaetano Micciché, direttore generale di Intesa Sanpaolo e presidente di Banca Imi. In alternativa, potrebbe vagliare i nomi di Uberto Fornara, amministratore delegato di Cairo Communication o di Mario Cargnelutti, direttore marketing & IR sempre di Cairo Communication.
Quanto alla lista dei soci storici, è possibile che venga confermato Mario Notari mentre il secondo dovrebbe essere una figura femminile per garantire il rispetto delle quote rosa. Lo stesso Cairo dovrebbe peraltro considerare l’inserimento in lista di un’altra donna nel caso in cui venisse stabilito di mantenere il board a 9 membri.
Nel frattempo, in vista della sentenza del Tar del Lazio il titolo Rcs ha archiviato ieri un’altra seduta in leggero ribasso. Le azioni hanno chiuso in calo dello 0,61% a 0,97 euro. Dopo il rally di metà agosto, stimolato dalle attese del prossimo piano di rilancio di Rcs firmato Cairo e dalle ipotesi di una futura fusione tra il gruppo editoriale e Cairo Communication, le quotazioni della società che edita il Corriere della Sera hanno segnato il passo complici diverse prese di beneficio.