sabato 3 settembre 2016

MONDO

il manifesto 3.9.16
La sinistra nella morsa del liberismo
Unione europea e euro. Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo, la sinistra rimane ai margini della storia e diventa complice di una spirale distruttiva della Ue, oltre che della moneta unica
di Stefano Fassina


Una serie di interventi ospitati da il manifesto nel mese scorso (da Ciocca a Lunghini) è ruotata intorno a un punto efficacemente sintetizzato da Valentino Parlato (11 Agosto): «l’attuale crisi, a differenza di quella del ’29, non scuote la cultura: stagnazione dell’economia e stagnazione della cultura … Dobbiamo renderci conto, ed sotto i nostri occhi, che senza cultura la politica – come scrive Alberto Burgio – muore». È una valutazione valida per tutte le sinistre al di qua e al di là dell’Atlantico, dentro e fuori il perimetro della esangue famiglia socialista europea. È utile, in particolare, per noi, Sinistra Italiana, avviati inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate.
Eppure sono evidenti le discontinuità di fase. Le elezioni regionali in Francia, le presidenziali in Austria, le amministrative in Italia, i successi anti-establishment di Trump e Sanders e la virata a manca di Hillary Clinton negli Usa e, infine, la Brexit indicano l’insostenibilità economica, sociale e democratica del capitalismo liberista. Un fatto enorme. A guardar bene, la Brexit nel 2016 potrebbe rappresentare per il liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino ha rappresentato nel 1989 per il socialismo reale.
Per noi, nell’euro-zona, l’insostenibilità del liberismo reale è un dato politico ancora più rilevante poiché abbiamo «costituzionalizzato» la versione più estrema del paradigma oramai alle corde: lo statuto della Bce da un lato e il fiscal compact dall’altro, nel quadro delle politiche di svalutazione del lavoro iniziate in Germania dalle «riforme Hartz», l’atto di gran lunga più anti-europeo compiuto nella Ue nel secondo dopo guerra.
Nonostante i caratteri di fondo dei trattati europei e dell’unione monetaria, nella sinistra storica europea, riformista o critica, e nei giovani movimenti genericamente anti-establishment, la discussione rimane prigioniera di un astratto e impolitico europeismo alternativo. La «stagnazione della cultura» a sinistra oggi è il principale ostacolo all’affermazione di movimenti, sindacati e partiti orientati a ricostruire soggettività sociale e politica del lavoro, condizione necessaria per rivitalizzare la democrazia, ridurre le diseguaglianze e riavviare l’economia all’insegna della riconversione ambientale.
Per aprire una discussione utile, in particolare per chi è in fase costituente, l’ultimo saggio di Joseph Stglitz, premio Nobel nell’economia e icona della sinistra, offre una preziosa opportunità. Il professore della Columbia University, difficile da scomunicare con l’accusa di moda di sovranismo o neo-nazionalismo, nel suo «The Euro. How a common currency threatens the future of Europe», ripropone un’analisi consolidata, da tempo espressa da tanti economisti eterodossi e mainstream, anche in Italia: l’ordine economico e sociale dell’euro è insostenibile poiché determina dinamiche divergenti tra i paesi partecipanti, genera stagnazione e nel migliore dei casi, grazie a una politica monetaria disperata, equilibri sempre più arretrati di sotto-occupazione.
In altri termini, l’assenza o la prolungata anemia dell’economia non è soltanto conseguenza di risposte sbagliate a incidenti esogeni. La «stagnazione secolare» è la fisiologia del sistema euro in quanto fondato sulla svalutazione del lavoro e sulla marginalizzazione delle classi medie. Il problema dell’euro-zona non è l’austerità, ma l’impianto dei trattati e la politica economica mercantilista praticata con largo consenso bipartisan dal paese leader. In sintesi, l’euro è stato un errore politico di portata storica.
In astratto, le soluzioni esistono per orientare in senso pro-labour la moneta unica. Nel testo di Stiglitz si ritrova una rubrica di «riforme strutturali». Il problema, chiaro al prof Stiglitz ma inavvertito dai nostri spinelliani senza se e senza ma, è l’assenza del consenso minimo richiesto nei contesti nazionali per approvare le correzioni necessarie. Purtroppo, il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale per radici culturali, storiche e sociali. La democrazia o è nazionale o non è.
In tale quadro, data l’impraticabilità politica del Piano A, Stiglitz propone il «suo» Piano B: il superamento cooperativo dell’euro («amicable divorce») per arrivare a un euro del Nord e un euro del Sud o, scenario preferibile, all’uscita della Germania dalla moneta unica.
Alle medesime conclusioni di Stiglitz, sebbene con argomenti di superficie, era arrivata un’altra icona della sinistra critica italiana, Luciano Gallino, nel suo testamento politico, rimosso anche dai discepoli più intimi: «Come (e perchè) uscire dall’euro ma non dall’Unione europea».
Allora, che fare per salvare l’Unione europea dall’euro? Innanzitutto, una lettura fondata della fase, l’abbandono del miraggio degli Stati Uniti d’Europa e l’archiviazione della richiesta del Ministro del Tesoro dell’Euro-zona (a trattati vigenti, sarebbe ulteriormente regressivo sul piano democratico e recessivo sul versante economico). Quindi, l’avvio di una discussione ordinata, protetta dalla Bce, per un Piano B sulle linee raccomandate da Stiglitz. Immediatamente, l’innalzamento delle retribuzioni in Germania per consentire un significativo aumento degli investimenti pubblici nei paesi più in difficoltà dell’eurozona senza effetti dirompenti sulle loro bilance commerciali.
Invece, come fossimo negli anni ’90, il governo, supportato dall’establishment, ripropone ulteriori misure supply-side: tagli al welfare per ridurre le tasse sulle imprese e smantellamento del contratto nazionale di lavoro. Svalutazione del lavoro per ridurre il gap di competitività e puntare alla domanda interna di qualcun altro. Una ricetta seguita da tutti i Paesi euro. Quindi, inutile a migliorare la posizione relativa della singola economia ma efficacissima a deprimere la domanda interna dell’eurozona, a incancrenire la stagnazione e spingere le classi medie verso la chiusura nazionalista.
Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo reale e della sua versione estrema incarnata dall’europeismo reale, la sinistra qui e oltre confine rimane al margine della storia e si fa involontariamente complice di una spirale distruttiva dell’Unione europea, oltre che della moneta unica. Il dibattito su il manifesto è una preziosa occasione per recuperare.

Repubblica 3.9.16
Badinter: “La Francia rischia una secessione islamica”
Dal burkini alle banlieu ai rischi per la laicità: intervista alla filosofa “Saranno le donne musulmane a ribellarsi, sta già accadendo”
di Anais Ginori


PARIGI «Dicano pure che sono islamofoba: non m’importa. Non possiamo rinunciare alla critica di alcune derive dell’Islam solo perché c’è il rischio di stigmatizzare i musulmani». Elisabeth Badinter ha appena finito un libro su cui lavora da anni dedicato a Maria Teresa d’Austria, sovrana di un impero con sedici figli, antesignana della sfida molto femminile della conciliazione tra pubblico e privato. La filosofa francese che ama passare le giornate negli archivi non rinuncia mai a intervenire nel dibattito intellettuale, soprattutto se in ballo ci sono la laicità e il femminismo, com’è accaduto quest’estate con le polemiche sui divieti del burkini. «Certo, non è un indumento che mi piace, dev’essere anche scomodo», premette Badinter nel suo appartamento parigino affacciato sui giardini del Luxembourg.
Le foto dei poliziotti di Nizza che costringono una donna in spiaggia a togliersi il burkini hanno fatto il giro del mondo. Anche lei è rimasta scioccata?
«Sono per la libertà di indossare ciò che si vuole, mi sembra un principio minimo ed essenziale, anche se la legge fissa alcuni paletti: non si può passeggiare nudi e neppure a volto coperto. È pur vero che mettersi un burkini può diventare una provocazione, soprattutto dopo un attentato come quello che ha vissuto Nizza».
Più che un abito, il burkini rappresenta ormai anche un messaggio politico?
«È chiaramente un’uniforme politico-religiosa. Alcune donne forse lo indossano seguendo convinzioni di virtù e purezza, ma diventano strumento di una cultura che vuole sottometterle. Resto comunque dell’idea che sia sbagliato varare dei divieti specifici. Esiste già il bando di indumenti religiosi in alcuni luoghi istituzionali come scuole, uffici pubblici. È quello che prevede la nostra legge sulla laicità approvata nel 1905 che vieta l’ostentazione dei simboli religiosi ma garantisce anche la libertà di culto».
Una legge che oggi molti vorrebbero cambiare.
«La legge del 1905 ha permesso di secolarizzare la nostra società. All’epoca era stata adottata per i cattolici e ha funzionato. È uno dei fondamenti della nostra République. Dobbiamo vigilare ancora di più in questo momento. La Francia si trova in una situazione eccezionale, unica in Europa. Nessun altro paese ha vissuto l’orrore a ripetizione, con diversi attentati in successione nell’arco di un anno e mezzo. La reazione e il sentimento dei francesi stanno cominciando a cambiare. L’islamofobia sta montando, insieme al rischio che ci siano gesti estremi contro la comunità musulmana».
Per Michel Houellebecq è in corso un prepotente ritorno della religione in Occidente, e la laicità è superata. È d’accordo?
«Forse Houellebecq ha ragione quando parla di un ritorno della religione nelle nostre società. Non sono invece d’accordo sul fatto che il principio della laicità, dei Lumi, sia ormai desueto. Anzi: la laicità sarà la nostra arma per lottare non contro la religione, ma contro il fanatismo».
Perché molti dibattiti sull’Islam alla fine ruotano intorno alla donna e al suo corpo?
«Su questo tema la miglior riflessione l’ha fatta Kamel Daoud, che pure è stato travolto dalle critiche. Comunque il fanatismo islamico non offre un’immagine maschile migliore: le donne devono coprirsi perché gli uomini sarebbero delle bestie incapaci di poter controllare i loro istinti sessuali».
Per un intellettuale è difficile criticare l’islamismo, senza essere accusati di islamofobia?
«Questo genere di critica è un perverso ribaltamento dell’antirazzismo, usato per impedire agli altri di esprimere le proprie idee. È l’errore che fa oggi una certa sinistra. Bisogna saper distinguere: sono contro l’islamismo, e difendo l’Islam. Per troppi anni c’è stato chi ha voluto tacere l’ascesa dei salafiti nelle banlieue perché non bisognava mettere in difficoltà la comunità musulmana. Una scelta di quieto vivere che ha dato i risultati che vediamo oggi. In alcuni quartieri le giovani francesi non possono uscire di casa senza il velo, devono chiedere il permesso ai fratelli per muoversi, l’aborto è impossibile. Provate ad andare a Sevran (periferia di Parigi, ndr) per vedere come l’80% delle donne indossi il velo. Sono territori perduti della République. In alcuni quartieri c’è un separatismo con la società francese, direi quasi una secessione».
Una definizione forte. È così pessimista?
«Penso che possiamo ancora riconquistare questi territori. Non è una situazione definitiva. La mia speranza viene dalle donne. Sono in contatto con molte associazioni femminili che lavorano nelle banlieue. Ci sono sempre più ragazze che rifiutano di indossare il velo, che sfidano la cultura religiosa dominante. Hanno molto coraggio. Alcune scrivono libri, vanno in televisione. Ma sarà un ciclo lungo. Potrebbe durare anche una generazione».
È il segnale che l’integrazione sociale ed economica ha fallito?
«I primi algerini, marocchini, tunisini, che sono arrivati a partire dagli anni Sessanta non sono stati accolti bene. Eppure per almeno trent’anni non abbiamo mai avuto problemi di convivenza. Ricordo alcune signore tunisine che si coprivano i capelli con un foulard. Certo a noi pareva strano, ma sembrava più che altro una tradizione lontana. Adesso è diverso. Il burkini ci appare come una provocazione, un esplicito rifiuto della nostra società. La cesura è sempre più profonda e rapida. Ricordiamoci cosa abbiamo pensato quando abbiamo visto in televisione le donne afgane con il burqa. Era quindici anni fa. Era un’immagine allucinante ma lontana nel tempo e nello spazio. Mai avremmo pensato di doverne discutere qui, in Francia, in Europa».

Il Sole 3.9.16
Rajoy bocciato, Spagna verso il voto
Senza un’intesa entro ottobre, a dicembre terze elezioni in un anno
I socialisti e gli altri partiti di opposizione confermano il no al leader popolare, premier incaricato
di Michele Pignatelli


Mariano Rajoy non ce l’ha fatta a ottenere la fiducia per guidare un nuovo governo, come era ampiamente previsto: contro il leader popolare, primo ministro uscente e incaricato dal re Felipe VI, hanno votato 180 deputati, a favore solo 170: esattamente come mercoledì. Alla Spagna restano dunque meno di due mesi per scongiurare il rischio di nuove elezioni generali - le terze nel giro di un anno - anche se le speranze appaiono minime.
A Rajoy ieri non serviva più la maggioranza assoluta del Congresso, come nella votazione di mercoledì; per formare un esecutivo (di minoranza) sarebbe bastata la maggioranza semplice, ottenibile se almeno 11 deputati dell’opposizione si fossero astenuti. Ma le intenzioni erano apparse chiare già nel dibattito di metà settimana, quando il leader socialista Pedro Sanchez aveva espresso una netta contrarietà a un primo ministro accusato di aver avallato la corruzione di pezzi del Partito popolare e di aver fatto disastri anche in campo socioeconomico. Un premier definito ieri «il peggiore della storia». Così per Rajoy hanno votato solo i 137 deputati popolari, i 32 centristi di Ciudadanos e un deputato delle Canarie.
A questo punto la legge spagnola concede tempo soltanto fino al 31 ottobre prima che il Parlamento venga sciolto e siano convocate nuove elezioni, che peraltro rischierebbero di non avere un esito tanto diverso. Rajoy ha già detto di volersi ripresentare entro ottobre all’assemblea per un nuovo voto di fiducia, se il re conferirà ancora a lui, leader del partito più votato, l’incarico. Le sue chance però sono affidate a due sole possibilità: riuscire a convincere una parte dei deputati socialisti che un nuovo governo guidato da lui «è l’unico possibile» - come ha ripetuto ieri - e quindi ad astenersi; oppure portare dalla sua parte i cinque deputati del Partito nazionalista basco: operazione che potrebbe essere facilitata dal voto regionale in programma nel Paese basco e in Galizia il 25 settembre. Se infatti i nazionalisti dovessero avere bisogno dell’appoggio dei popolari per guidare la regione, potrebbero a loro volta sostenere un nuovo governo Rajoy. Ma ieri ha scricchiolato anche la fragile alleanza con Ciudadanos, con il leader Albert Rivera che ha chiesto al Partito popolare di proporre un altro candidato primo ministro.
Nello stallo generale con cui si è chiusa anche la giornata di ieri, una schiarita arriva sulla data delle eventuali nuove elezioni, ulteriore motivo di scontro nei giorni scorsi tra popolari e socialisti. I quattro grandi partiti- oltre ai due maggiori, Ciudadanos e Unidos Podemos - si sono dichiarati favorevoli a una riforma della legge elettorale che eviti di chiamare alle urne gli spagnoli il giorno di Natale. Si tratterebbe, stando alle anticipazioni di El Pais,di ridurre da due a una settimana la durata della campagna elettorale, consentendo di votare il 18 dicembre.
Nel frattempo il Governo Rajoy resta in carica solo per gli affari correnti, il che potrebbe complicare anche il rispetto degli impegni con l’Europa: Madrid ha infatti ottenuto dalla Commissione Ue due anni in più per riportare il deficit sotto il 3% del Pil (non più il 2016 ma il 2018), ma entro il 15 ottobre deve presentare il budget 2017 con le misure necessarie per raggiungere gli obiettivi.

il manifesto 3.9.16
Alle primarie del Labour Corbyn vola in testa, «golpe» dei «blairisti» a un passo dal flop
Gran Bretagna
Ha tutti contro ma il leader di sinistra del Labour è il politico più popolare del regno. E nei sondaggi doppia il moderato Smith, fermo al 38%. Iniziato voto postale, i risultati il 24 settembre
di Leonardo Clausi


È stata l’estate più turbolenta per la Gran Bretagna dalla seconda guerra mondiale. Molto poté lo stress post-traumatico della Brexit, che ha catapultato Theresa May a Downing street dopo una breve e spietata resa dei conti fra i Tories e provocato nel Labour una lacerante frattura fra membri del partito – che avevano eletto leader Jeremy Corbyn – e i suoi colleghi deputati, che lo avevano sfiduciato a poche ore dall’esito referendario e dalle dimissioni di David Cameron.
Il voto postale per queste ri-primarie laburiste, volute a tutti i costi dai vertici del partito pur di liberarsi del proprio leader, è in atto. Ma per i centristi postblairiani, per i quali Corbyn è un pericolo peggiore di Theresa May, rischiano di finire peggio delle precedenti.
Secondo l’ultimo sondaggio YouGov, lo stesso Corbyn, impegnato in un secondo round contro il moderato Owen Smith, oggi vincerebbe il contest con una maggioranza ancora più lussuosa di quella – già ragguardevole – della prima tornata: 62% delle preferenze contro il misero 38 del rivale.
Un distacco umiliante, che dimostra a quanto poco siano valsi finora gli sforzi di tutto l’establishment politico, istituzionale e mediatico per sedare il sussulto democratico nel maggiore partito d’opposizione rappresentato dalla fulminante ascesa di Corbyn, con buona pace di Bbc e Guardian, schierati con precisione geometrica a fianco della stampa reazionaria nell’apparentemente impossibile compito di liberarsene.
Ma l’ex deputato di Islington North, una vita politica trascorsa al margine sinistro di un partito da tempo perfettamente integrato nella cogestione neoliberista dell’economia del paese e per questo deriso dalla stampa come dalla vulgata «modernizzatrice» blairista, non concede un millimetro. Sembra anzi trarre incessante energia da ogni attacco mediatico che gli viene puntualmente sferrato.
Il sondaggio, i cui esiti suonano un prematuro de profundis per la campagna di Smith, dietro la quale s’era arruolato più o meno per disperazione tutto il Parliamentary Labour Party, evidenzia anche un altro dato: la concentrazione dei corbyniani non è affatto prevalente solo nell’ecosistema sociale e politico londinese, si estende anche nelle aree del nord del paese, storicamente zoccolo duro elettorale laburista, dove il leader godrebbe del 63% contro il tremebondo 37 di Smith.
Né si tratta di millennials in preda a un pubescente sussulto idealista, come spesso sostenuto: benché Corbyn riceva il sostegno del 61% della fascia d’età 18-24 anni, in quella 40-59 supera comodamente il 60%.
Altrettanto controproducente si sta rivelando la vigorosa campagna mediatica volta a dimostrare che dietro Corbyn ci sia una cricca di residuati trotzkisti cripto-misogini.
Sebbene non passi giorno senza che qualche commentatore liberal non si stracci pubblicamente le vesti davanti alle pur ripugnanti ridde d’insulti ricevuti da alcune deputate centriste del partito sui social media, Corbyn gode di uno schiacciante 67% per cento del consenso delle iscritte al partito, contro il 33 dell’avversario.
Insomma, è un quadro talmente deprimente per Mr. Smith che viene legittimo chiedersi come abbia voglia di portare avanti una campagna tanto agonizzante contro un avversario che lo surclassa in ogni dipartimento quando l’esito del voto postale, messosi in moto nei giorni scorsi, si avvicina al galoppo il prossimo 24 settembre. Certo, la sua è stata una campagna irta di gaffe ed errori strategici: ma non è tanto l’immagine preconfezionata male e di fretta della sua candidatura a nuocergli, quanto il fatto, ormai inoppugnabile, che per una serie di fattori Corbyn è diventato l’uomo politico (non «antipolitico») più popolare di una Gran Bretagna che attraversa una fase cruciale della sua storia.
Altrimenti non si spiega l’inefficacia dei ripetuti tentativi di sabotarne l’ascesa da parte del Nec, il comitato esecutivo nazionale del partito laburista, che con l’introduzione di una clausola frettolosa quanto strampalata aveva impedito il voto a 130.000 membri iscrittisi subito dopo il coup orditogli dai colleghi deputati.
Inoltre, anche l’altro spauracchio cui si ricorre per minare quest’intollerabile Corbyn-consenso, quello della presunta sua «ineleggibilità», sta cominciando a perdere la sua efficacia. Il numero d’iscritti al partito nei pochi mesi dalla sua prima elezione è raddoppiato.  (Il totale degli iscritti, secondo il Guardian, ora arriva a 500mila persone, il Pd ne ha 385mila, ndr).
Una sua seconda vittoria a queste primarie, ravvicinata ma più schiacciante della precedente, significherebbe l’auspicata e fin troppo tardiva relegazione dell’ex maggioranza moderata a un ruolo marginale, raddrizzando la barra del partito verso il ritorno a una dignità socialdemocratica brutalmente liquidata dall’ex-rampantismo dei vari Mandelson, Brown e Blair.

Repubblica 3.9.16
Tra i nostalgici dell’Est tentati dall’Afd l’ultradestra vola nel feudo di Merkel
Domenica si vota in Meclemburgo-Pomerania, collegio della cancelliera. Ma nei sondaggi il partito populista di Petry la supera
“Qui abbiamo molti disoccupati. I politici si ricordano di noi solo per le elezioni”
La Ostalgie si combina con la rabbia contro le sanzioni a Mosca che ledono l’agricoltura
di Tonia Mastrobuoni


SCHWERIN SCHWERIN QUANDO BERND Böttger entra in acqua, sente un grido alle spalle che gli ferma il cuore: «Ehi, con questo freddo c’è ancora uno che fa il bagno!». È notte, non vede un accidente, il campeggio alle sue spalle è immerso nel buio. Per un momento, la paura lo paralizza. Ma ormai non ha scelta. La Stasi lo ha già beccato una volta, lo ha già sbattuto in carcere per otto mesi. Stavolta butterebbe le chiavi. Böttger stringe i denti, si immerge nell’acqua gelida del Mar Baltico, accende il motore del suo strano aggeggio e parte. All’alba, dopo ore che gli sembrano infinite, una nave danese lo issa dall’acqua. Böttger è stremato ma è riuscito a fuggire dalla Germania Est, è salvo. Lo strano aggeggio che l’ex studente di Ingegneria — buttato fuori dall’Università per insubordinazione al regime — ha assemblato con eliche di barche e pezzi di bici a motore si chiama Aquascooter (senza “c”). Farà il giro del mondo, immortalato persino dai film di James Bond. E quella di Bernd Böttger resta una delle più spettacolari fughe dalla Ddr.
L’avventura dell’”archimede ribelle” è partita oltre 40 anni fa dal Meclemburgo- Pomerania. Una regione che, di solito, non fa notizia. Se non per i vip che ci vanno in villeggiatura e finiscono nelle cronache rosa. Con i suoi 2mila chilometri di coste, vanta alcuni dei posti di mare più amati del Paese come Rügen o Usedom. Coste e isole che nei secoli passati attirarono pirati e ispirarono alleanze tra città anseatiche come Wismar, ma che di solito sono dimenticate. Il Meclemburgo-Pomerania è il Land più agricolo della Germania; puoi guidare per ore tra le sue enormi foreste di faggio e le pianure sconfinate incrociando pochissime case. Niente grandi città — la più grande è Rostock con i suoi 200mila abitanti. E nel Land vivono appena un milione e mezzo di tedeschi per un’area grande quanto la Lombardia. Domenica, però, rischia di fare molto rumore.
I sondaggi delle elezioni in Meclemburgo sembrano prefigurare scenari da incubo che stanno turbando i sonni a tanti. A partire da Angela Merkel, che ha il suo collegio elettorale qui. O Joachim Gauck: il presidente della Repubblica era un pastore protestante di Rostock, negli anni del Muro. La Alternative für Deutschland, la destra populista capeggiata da Frauke Petry, è al 23 per cento nei sondaggi. Ha superato persino con la Cdu, è a un filo dalla Spd. Secondo alcuni, potrebbe diventare il primo partito. Sarebbe la prima volta nella storia e una grana immensa per la cancelliera. Il governatore socialdemocratico, Erwin Sellering è talmente nervoso che negli ultimi giorni l’ha accusata apertamente di aver alimentato il voto della destra populista, con la sua politica sui profughi.
«Lo chieda a Merkel, che fine hanno fatto i “paesaggi in fiore” che ci aveva promesso Kohl», ci sibila una signora che vende aringhe e anguilla affumicata al porto di Wismar. «Qui abbiamo molti più disoccupati che nell’Ovest e i politici si ricordano di noi solo quando si vota». Nel Meclemburgo il tasso di disoccupazione è una volta e mezzo quello nazionale, circa il 10 per cento, ma in alcune zone della Pomerania, vicino alla frontiera polacca, tocca il 20 per cento. Soprattutto, in una regione contadina, è ovvio che la Ostalgie si combina con la rabbia contro le sanzioni contro la Russia che sta provocando molti danni all’agricoltura.
Nonostante una percentuale di migranti ridicola — appena il 2 per cento ha un passaporto straniero e sono soprattutto polacchi — la propaganda anti-profughi, il mito oscuro dell’invasione islamica, ha attecchito. Anche per il lavorìo sotterraneo di una destra neonazista che è ancora forte. Il partito di riferimento dei “bruni”, la Npd, pare abbia perso un punto e mezzo di elettori. Ma tutti a favore dell’Afd. E i cartelli dell’estrema destra infestano comunque tutti i villaggi dell’entroterra, soprattutto nella cosiddetta “Svizzera del Meclemburgo”, con slogan xenofobi.
Anche a Lalendorf, un villaggio di 900 anime in piena campagna, quei cartelli hanno invaso le strade. Il sindaco, Reinhard Knaack sorseggia un caffè all’americana nella piccola cucina del suo ufficio. Sei anni fa il suo nome è finito su tutti i giornali perché si è rifiutato di consegnare una medaglia e 500 euro per il settimo figlio di Petra Müller, una neonazista del suo villaggio. Qualche facinoroso lo ha minacciato, lui è finito sotto scorta, ma oggi è più arrabbiato con la cancelliera che con i teppisti neonazi che infestano la sua zona. «Tantissime famiglie di questa regione vengono dall’Est Europa. Vogliono un rapporto normale con quei Paesi e con la Russia. Molti si ricordano la promessa del 1990 di non allargamento della Nato a Est, che poi è stata violata. Vogliono rapporti normali con Putin, anche per motivi economici, per i danni che stanno facendo le sanzioni alla nostra agricoltura». E, aggiunge, «l’unico partito che insiste su questo punto è l’Afd».
Knaack è sindaco dal 1994: ex membro della Sed negli anni del Muro, poi della Linke. A un certo punto si sporge in avanti, sussurra con un sorriso malizioso: «Vuole vedere qual è il monumento più visitato qui?». Usciamo dal suo ufficio, attraversiamo un paio di strade e, in mezzo al parco cittadino, scorgiamo un enorme carro armato sovietico. Uno di quelli arrivati a maggio del 1945 a liberare la Germania nazista. «Nel 1992 ho fatto fare un referendum per decidere se tenerlo qui. È stata l’ultima consultazione pubblica tra tedeschi che io ricordi», aggiunge polemico.
Tanti sembrano aver dimenticato l’avventura di Böttger, l’inventore dell’aquascooter e la sua ansia di libertà. O Hiddensee, un’isola popolata ai tempi del Muro da dissidenti e oppositori politici, tuttora amata da molti scrittori. Era il rifugio degli “esiliati interni”, dei naufraghi del comunismo, ha ispirato uno dei romanzi più belli degli ultimi anni, Kruso, di Lutz Seiler. Ma la Ostalgie, la nostalgia della Germania comunista, è un morbo che sta tornando a infestare tante teste.

il manifesto 3.9.16
Non è più Merkeland
Germania. Il Land settentrionale dell’ex Ddr, banco di prova per l’intero governo federale
Germania, la cancelliera Angela Merkel
di Sebastiano Canetta


BERLINO Germania sempre meno in formato Merkeland. Un anno esatto dopo il «Ce la facciamo» sull’emergenza-profughi e un giorno prima del voto in Mecleburgo-Pomerania la cancelliera sprofonda al minimo della popolarità. Per la tv pubblica Ard solo il 45% dei tedeschi si dichiara soddisfatto della sua politica, per Mutti è il record negativo degli ultimi 5 anni. Peggio di lei solo il vice Sigmar Gabriel, leader Spd, e Horst Seehofer, presidente della Csu, ovvero i suoi alleati-rivali. Come se non bastasse oltre la metà del Paese (51%) giudica negativamente l’eventuale ricandidatura della cancelliera al quarto mandato.
Merkel non ha ancora ufficializzato la sfida (o la rinuncia) alle urne federali del 2017: lo farà all’inizio dell’anno prossimo e solo dopo l’appoggio ufficiale di Seehofer. In compenso il capo del governo si è già calata nella campagna elettorale con la consueta, tranquillizzante, promessa «La Germania rimarrà la Germania» che replica da oltre un decennio.
Eppure non tutto procede secondo i piani. Anzi, per la prima volta domani in Mecleburgo-Pomerania la Cdu rischia di essere sepolta dalla valanga di voti annunciati per Alternative für Deutschland. Secondo il sondaggio Insa-Ard del 1 settembre la destra populista nel Land ha superato quota 23%: ben tre punti davanti ai cristiano-democratici e appena cinque in meno dell’Spd che governa il Parlamento di Schwerin. Sorpasso in piena regola e choc anafilattico per Merkel che rischia la batosta nel suo collegio elettorale e la fine dell’era delle coalizioni rosso-nere.
Ma il voto nel Land settentrionale dell’ex Ddr si dimostra un banco di prova per l’intero governo federale a poco più di 12 mesi dalle elezioni per il Bundestag.
Il Mecleburgo-Pomerania rimane uno degli Stati più depressi con il più alto tasso di disoccupazione del Paese e decine di migliaia di residenti sotto la soglia dell’indigenza. Da queste parti Afd fa leva sulla guerra tra poveri parlando alla pancia (e non solo) degli elettori sempre più affetti dalla xenofobia.
Nella capitale Schwerin sono spuntati i cartelloni elettorali che ritraggono una ragazza bionda in bikini e la scritta «Turiste Sì, donne in burqa No» a beneficio di chi frequenta le località di vacanza sulle rive del Baltico.
Messaggi di bassa lega e alta demagogia, che però funzionano se è vero che Afd nell’ultimo mese è cresciuto di oltre 10 punti mentre la Cdu ha perso un ulteriore 2%. Problema comune per i partiti “istituzionali”, compresi i neonazisti di Npd (che vantano 5 deputati al Landtag) schiacciati a destra dai rivali di Afd e destinati a dimezzarsi dal 6% del 2011 a circa il 3.
L’unica vera opportunità in Mecleburgo-Pomerania è per la Linke pur congelata al 15%. Dopo la debacle alle elezioni regionali dello scorso marzo la Sinistra riparte da «benessere e lotta alla povertà» mentre prepara l’eventuale alleanza di governo con Verdi (6%) e Spd in caso di sconfitta dell’Union. Per tutti e in ogni caso il risultato di domani sarà comunque la disarticolazione del “sistema” che detta le regole nella Repubblica federale dal 2005 e nel Land dal 2008. L’esatto contrario dei piani di Spd e Cdu che mirano invece alla «continuità amministrativa». Del resto, i programmi sono più che sovrapponibili: i due maggiori partiti tedeschi a Schwerin fanno leva sull’insicurezza, proprio come Afd, con i socialdemocratici pronti a «norme più restrittive sull’immigrazione» (in aperta dissidenza con l’Spd federale) e il partito di Merkel che promette «più sicurezza interna».
Un po’ come a Berlino dove si vota il 18 settembre e Spd e Cdu proveranno a duplicare la Grande coalizione tutt’altro stabilmente ancorata al Municipio rosso. All’orizzonte si profila piuttosto l’alleanza alternativa tra socialdemocratici e Verdi che qui godrebbe del placet di entrambi i partiti.
Stando all’analisi Forsa del 28 agosto l’Spd a Berlino dovrebbe conquistare il 24% dei consensi mentre i Grünen il 21. La Cdu si attesa intorno al 17, come la Linke, forte nelle periferie dell’est e in risalita nei sondaggi.
Tuttavia, anche nella capitale si prevede il boom di Afd (tra il 10 e il 12%) e l’ingresso dei populisti nel Parlamento della Città-Stato finora immune dalla destra. Pronta ad azioni più che simboliche, come l’occupazione-lampo della Porta di Brandeburgo degli estremisti del «Movimento identitario», nuova “costola” di Pegida. Il 27 agosto hanno si sono arrampicati sulla quadriga e hanno srotolato un maxi-striscione inneggiante alla «Fortezza Europa», prima di venire bloccati dalla polizia. Esattamente il clima elettorale che Merkel avrebbe voluto evitare, il salto di vento che rischia di farla “scuffiare” prima della fine del mandato.
Tuttavia i tedeschi criticano Mutti ma molto meno il suo governo. Tra i politici più amati in Germania resiste il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier (Spd), preferito dal 73% degli intervistati Ard, ma salgono le quotazioni anche di Wolfgang Schäuble, ministro delle finanze che ha imposto il «nero-zero» (nessun nuovo debito pubblico) perfino ai governatori dei 16 Land. La rigidità del falco non dispiace al 65% dei connazionali, mentre rimbalza sul tavolo della cancelliera Merkel forse l’unico dato in grado di restituire un minimo di speranza: il 56% dei tedeschi resta convinto che «l’arrivo dei profughi rinnoverà la Germania»; l’85%, nonostante il sex-mob di Colonia e gli attacchi Isis in Baviera, rimane ancora dell’idea che i rifugiati siano «persone con disagio esistenziale» come evidenzia l’ultimo studio dell’Istituto di scienze sociali della Chiesa evangelica pubblicato l’altroieri sulla Faz.

La Stampa 3.9.16
Dario Fo bandito in Turchia: “Per me è come aver ricevuto un secondo Nobel”
L’attore nella lista nera insieme a Shakespeare, Cechov e Brecht. Per il governo Erdogan le sue opere non incarnerebbero lo “spirito nazionale turco”
intervista di Fabio Poletti

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La Stampa 3.9.16
In Turchia nuove maxi-purghe, licenziati 51mila dipendenti pubblici
Intanto le autorità turche hanno rilasciato 33.838 detenuti nelle carceri del Paese per fare posto alle migliaia di persone arrestate per presunti legami con il fallito golpe

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il manifesto 3.9.16
Ankara spara: due morti a Kobane
Turchia. Idranti, gas e proiettili contro la protesta anti-muro al confine. Erdogan: «Non permetterò l’unità di Rojava». Altra ondata di purghe: oltre 50mila dipendenti pubblici licenziati. Bruxelles: «Modificate la legge anti-terrorismo»
di Chiara Cruciati


Il confine tra Kobane e Suruc, tra Siria e Turchia, come Gezi Park: ieri le autorità turche hanno mandato i temibili cannoni ad acqua per cacciare i manifestanti che da una settimana presidiano la frontiera per impedire ad Ankara la costruzione (già in atto) del muro in cemento che separi Rojava dal Kurdistan turco.
Idranti, lacrimogeni e proiettili e il bilancio finale è di due morti (tra cui un 17enne) e oltre 80 feriti, 7 gravi. I soldati turchi, raccontano da Kobane, hanno passato il confine con i carri armati: video e foto mostrano la gente scappare, portare via a spalla i feriti, ma continuando a sventolare le bandiere delle Ypg (le Unità di Difesa Popolari) in mezzo al gas dei lacrimogeni.
Da quando la costruzione del muro è iniziata, la comunità si dà il cambio alla frontiera per protestare contro quella che definisce «un’occupazione», una barriera che penetra per 20 metri nel territorio siriano. Diversa la versione turca: «Un gruppo si è avvicinato al confine e ha attaccato con le pietre macchinari, operai e soldati – dice una fonte dell’esercito di Ankara – Sono stati usati lacrimogeni e idranti, ma non proiettili».
Azioni che seguono alle parole di uno scatenato presidente Erdogan sugli obiettivi dell’operazione Scudo dell’Eufrate: i raid sulle Ypg continueranno a meno che non si ritirino verso est. «Dicono che sono tornati indietro, ma noi diciamo no, non è successo – ha detto da Ankara – Non permetteremo che sia creato un corridoio del terrore [riferimento all’unificazione dei cantoni kurdi di Rojava, ndr]».
Così si pone fine a qualche giorno di tregua effettiva, seppure non ufficiale perché aspramente rigettata dal governo turco.
Di pace comunque non si parla né nel nord della Siria né tanto meno nel sud est della Turchia dove il rinnovato conflitto con il Pkk entra nel suo secondo anno. La ripresa del processo di pace chiesta da più attori, a partire dal partito di sinistra Hdp, viene respinta in coro.
Una reazione ovvia in un periodo in cui Erdogan dà fondo a tutte le proprie energie per radicare i sentimenti nazionalisti necessari alle sue mire presidenzialiste. Una mano gliel’ha data il tentato golpe del 15 luglio, dopo il quale ha spazzato via oppositori veri e presunti in una campagna di epurazione senza precedenti (e già pronta all’uso, visti i tempi ristretti con cui ha fatto fuori i vertici dell’esercito e decine di migliaia di dipendenti pubblici e privati).
Ieri una nuova ondata di purghe ha investito il paese: con 109 giornalisti dietro le sbarre, ieri è stato revocato l’accredito ad altri 115 reporter, per un totale di 620 dal 15 luglio. Inoltre altri 50.589 dipendenti dello Stato sono stati licenziati: 28.163 erano impiegati del Ministero dell’Educazione, 2.018 della Salute, 1.519 della presidenza degli Affari Religiosi e 2.346 del Consiglio dell’educazione superiore.
E ancora, 7.699 agenti di polizia, 24 governatori centrali, 323 gendarmi e 2 ufficiali della guardia costiera. Tutti sono accusati di legami con il movimento Hizmet dell’imam Gülen, considerato la mente dietro la creazione dello “Stato parallelo” e l’organizzazione del tentato golpe.
Ma la caccia alle streghe non si ferma al licenziamento: i nomi degli epurati sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale, esponendoli al pericolo di rappresaglie. Dopotutto squadracce dell’Akp, il partito del presidente, hanno setacciato per settimane le principali città turche alla ricerca di “traditori” da punire.
Ai vertici i toni non sono meno accesi. A colpire chi tradisce sono stato di emergenza e legge anti-terrorismo, quella che almeno a prima vista preoccupa l’Unione Europea. Ieri è stato il presidente del parlamento europeo Schultz, di ritorno da Istanbul, a tirare di nuovo fuori la questione: «Gli incontri sono stati una buona opportunità per tenere una discussione franca e aperta. Ma la natura eccezionale delle misure e dello stato d’emergenza non dovrebbe fallire il test di proporzionalità e stato di diritto. In Europa la democrazia è molto più del semplice voto: pluralismo, stampa vivace, separazione del potere e parlamentari liberi».
Parole simili a quelle dette a Erdogan durante la visita: la Ue ha chiesto di nuovo il cambiamento della legge anti-terrorismo, ma senza apparenti precondizioni. Schultz ha precisato infatti che la previsione di ingresso libero dei cittadini turchi in Europa (parte del pacchetto “emergenza rifugiati” insieme a sei miliardi di euro) non è messa in dubbio.
In realtà lo è: la data entro la quale concludere l’accordo è il primo ottobre, ma le autorità europee e turche sono ancora distanti. Il premier Yildirim non ha aspettato un istante per rispondere: «Abbiamo detto chiaramente alla Ue che nelle condizioni attuali non possiamo modificare le leggi contro il terrorismo. Qualsiasi marcia indietro è fuori questione».

Il Sole 3.9.16
I ministri degli Esteri Ue: ricucire i rapporti con Ankara
di Beda Romano


Bratislava I ministri degli Esteri dei Ventotto vogliono cogliere l’occasione di una due-giorni di riunioni qui a Bratislava, tra ieri e oggi, per rasserenare il clima con la Turchia, a un mese e mezzo dal recente tentativo di colpo di Stato contro il presidente Recep Tayyip Erdogan. L’obiettivo, non facile da raggiungere, è di salvaguardare l’accordo firmato tra Bruxelles e Ankara per meglio gestire i flussi migratori da Est, mentre il nuovo rapporto del Paese con la Russia è anch’esso fonte di interrogativi.
I ministri degli Esteri avranno oggi qui in Slovacchia, Paese che detiene la presidenza semestrale dell’Unione, un incontro con il ministro turco degli Affari europei Omer Celik. Spiegava ieri sera un diplomatico durante una pausa dei lavori ministeriali: «Vogliamo normalizzare il rapporto (…) Vi è la volontà da entrambe le parti di avere un nuovo tono nel dialogo bilaterale». Le ultime settimane sono state segnate da critiche reciproche e da nervosismi crescenti.
Durante l’estate, le diplomazie europee hanno fortemente criticato il giro di vite sull’ordine pubblico dopo il tentato colpo di Stato in luglio. Da Ankara, il governo turco ha risposto stizzito, minacciando di non applicare l’accordo con Bruxelles in assenza di una liberalizzazione dei visti, così come previsto dall’intesa. Per ottenere il viaggio senza visti in Europa per i suoi cittadini, la Turchia deve introdurre modifiche alle leggi anti-terrorismo, che finora non ha voluto cambiare.
Nella prima giornata della riunione ministeriale, ieri il ministro degli Esteri slovacco Miroslav Lajcak ha spiegato: «Dopo il fallito colpo di Stato esprimemmo la nostra forte solidarietà ai leader eletti della Turchia. Da allora, ci siamo allontanati anziché avvicinarci. Non è normale». Ha aggiunto il suo omologo ungherese Peter Szijjarto: «Chiunque attacchi la stabilità della Turchia attacca la sicurezza dell’Europa perché in questo momento la Turchia è il Paese che ferma l’arrivo di migranti in Europa».
Al tempo stesso, non mancano i Paesi – come la Germania, ma anche la Francia e l’Italia - che ricordano insistentemente i dubbi sul rispetto dei diritti umani in Turchia. Oltre a voler salvaguardare l’intesa sui rifugiati, c’è il timore di assistere a una lenta deriva della Turchia, importante paese membro dell’Alleanza Atlantica, verso la Russia dopo che Erdogan ha voluto allacciare i fili di una alleanza con Mosca, incontrando il presidente russo Vladimir Putin.
Dal canto suo, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha spiegato che alla Turchia «dobbiamo dare due segnali: sostegno senza equivoci dopo il colpo di Stato» ma anche «un invito molto chiaro» a «contenere la reazione nel rispetto dei diritti fondamentali». Sempre ieri, i ministri hanno parlato del futuro delle sanzioni contro la Russia. L’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini ha confermato che «l’abolizione delle misure è legata alla piena adozione in Ucraina dell’Accordo di Minsk».

La Stampa 3.9.16
“Questo è il paradiso in terra”. La grandeur cinese per il G20
Slogan, prelibatezze e fabbriche chiuse: così Pechino vuole impressionare il mondo
di Cecilia Attanasio Ghezzi


«A good host, a better G20», un buon ospite, un G20 migliore. Lo slogan del primo G20 ospitato dalla Cina è onnipresente. Campeggia su sfondo azzurro sin dall’ingresso in aeroporto. Hangzhou, la metropoli cinese che per antonomasia unisce tradizione e modernità, è pronta a mostrare l’immagine della Cina che Xi Jinping vuole offrire al mondo. Sono pochi ad essere rimasti in città, il traffico scorre veloce su arterie a tre corsie e sopraelevate che costeggiano grattacieli. Vetro e cemento, illuminazioni e pavimentazioni nuove fiammanti. I leader mondiali saranno ospitati sulle rive del Lago occidentale descritto e cantato da decine di poeti durante i secoli delle raffinate dinastie dell’impero che Mao Zedong aveva voluto cancellare. È questa la vera zona rossa della città, il patrimonio Unesco che attrae milioni di turisti ogni anno è completamente chiuso al pubblico. Sulle sue sponde anche i luoghi destinati alle sessioni plenarie e agli incontri bilaterali di questo G20, compreso il mastodontico centro conferenze da 850mila metri quadrati. Edifici costruiti negli ultimi due o tre anni che diventeranno il simbolo del nuovo skyline cittadino.
Pechino vuole mostrarsi in tutta la sua grandezza e si fa forte dei suoi oltre due millenni di storia e cultura. Gli uomini più potenti del pianeta degusteranno le prelibatezze locali, gamberetti cotti nel rinomato tè che cresce nelle vicinanze, il Longjing, maiale brasato Dongpo e una varietà di spuntini locali da far impallidire anche i buongustai più curiosi. Intorno all’area destinata agli incontri ufficiali c’è la «nuova città» che ha spazzato via le polverose e disordinate case a due piani tipiche della zona. Oggi ci sono solo grattacieli destinati a uffici e centri commerciali le cui facciate, di notte, si popolano di personaggi della Disney e panda vari disegnati con giochi di luci colorate. Prada, Apple, Dior, Fendi e Cartier sono solo alcune delle centinaia delle scintillanti vetrine destinate all’upper class cinese che impressioneranno gli ospiti stranieri. Peonie ovunque. Lanterne rosse a decorare i platani che costeggiano gli show room di Ferrari e Aston Martin.
La propaganda è ovunque. Tabelloni enormi a ricordare che Hangzhou «è la più bella città del mondo», striscioni rossi che invitano la popolazione locale a «contribuire al summit spazzando via i quattro flagelli», ovvero - come Mao ha insegnato alla fine degli anni Cinquanta - mosche, blatte, zanzare e topi, e avvisi all’interno dei condomini che offrono ricompense in denaro a chiunque denunci crimini o comportamenti sospetti. Ma queste ultime, esclusivamente in cinese, non verranno nemmeno notate dagli importanti dignitari che già cominciano a confluire in città. Questo «è il paradiso sulla terra» recita uno slogan a lettere cubitali che parafrasa i versi di un’antica poesia Song.
Ma il paradiso non è per tutti. Intere parti della città sono state interdette al traffico. C’è un milione di volontari in divisa nei centri nevralgici della città e poliziotti impeccabili ad ogni incrocio. I veicoli della polizia e i taxi sono dotati di telecamere a circuito chiuso per evitare che anche la più piccola stranezza sfugga all’occhio del Grande fratello. Metal detector e controlli anti esplosivi precedono l’ingresso a qualsiasi luogo sensibile. La popolazione, dimezzata da controlli casa per casa e capillari divieti giustificati con le misure di sicurezza, è spaesata. Quasi impossibile trovare un posto dove mangiare al di fuori degli asettici centri commerciali. Chiusi i mercati e cacciati i venditori ambulanti di cibo. Vietata la vendita di bombole del gas che ancora alimentano la maggior parte delle cucine della città. Bandite le consegne a domicilio, fatta eccezione per i documenti. Rimangono le catene di ristoranti locali, gli Starbucks e i MacDonalds.
Una settimana di «vacanza» forzata per dipendenti statali e studenti e un «invito» alla chiusura di tutte le fabbriche della zona. Pena controlli certosini e giornalieri. I proprietari delle pochissime aziende rimaste aperte hanno dovuto firmare un foglio in cui accettavano di finire in galera per qualunque «problema» o «inadempienza» si fosse riscontrata. Di contro chi arriva può godere di un cielo blu che i pochi rimasti non ricordano aver visto negli ultimi mesi. Il Truman show è appena cominciato

Il Sole 3.9.16
Il summit di Hangzhou
G20, Pechino punta allo «scambio»
Flessibilità su commercio e investimenti, acque più calme nel Mar cinese meridionale
di Rita Fatiguso


Nella West Lake State Guest House di Hangzhou, che rivaleggia per sfarzo con quella della Capitale, è iniziata la sfilata dei Capi di Stato e di Governo davanti al Capo supremo del partito e dello Stato cinese nonché anfitrione del Summit B20/G20, Xi Jinping.
Filtrano già voci di un possibile “accordo” in cui la contropartita cinese a fronte di acque più calme nei Mari del Sud della Cina, con gli Stati Uniti più defilati anche grazie alla transizione inevitabile per l’uscita di scena di Barack Obama, potrebbe essere l’impegno di Pechino sul fronte delle regole del commercio, con una maggiore apertura agli investimenti stranieri – una pecca sulla quale il nuovo position paper della Camera di commercio europea in Cina non ha riservato critiche.
Ma anche un drastico impegno sull’overcapacity, a partire dall’acciaio, tema che gli Stati Uniti sono riusciti a infilare nell’agenda del G20 cinese in occasione della tappa preliminare dei ministri del Commercio a Shanghai. Dicono i testimoni delle trattative che non è stato semplice catturare quella parola e inserirla nei dossier da presentare al Summit che oggi apre i battenti. Da quel momento in poi sarebbe stato impossibile non occuparsene più.
La leadership cinese – questo è certo - ha bisogno di più tranquillità, chiede che tutti i tasselli vadano a posto, per mare e per terra – come non guardare con ansia al dopo Islam Karimov, padre padrone dell’Uzbekistan stroncato da un malore, snodo islamico sulla nuova via della seta, laddove passano Silk road fund, New development bank, Asian infrastructure investment bank, insomma i tools voluti dalla Cina per creare un ponte euroasiatico? Elementi di destabilizzazione sono in agguato, dietro l’angolo, meglio prendere fiato per poter affrontare meglio anche i problemi interni.
Apre il B20 e anche i temi del G20 entrano nel vivo, grazie al battage dei vice, da Yi Gang di Pboc, a Zhu Guangyao, vice ministro delle Finanze, perché in Cina sono loro, i numeri due, a dover affrontare l’arena, almeno in prima battuta.
A distanza ci sono e si mantengono i presidenti di Cina e Usa, pronti ad affilare le armi del dialogo, con Obama in scadenza e Xi Jinping impegnato sin d’ora ad affrontare il cambio di pelle generazionale del Congresso del partito, il 19esimo, in calendario a fine 2017.
Un calo della tensione farebbe un gran bene a tutti, l’East Asia summit e l’Us-Asean leadership summit di Vientiane, nel Laos, darà un contributo. Per non parlare del codice di condotta che Cina e Paesi Asean hanno appena sottoscritto sui Mar cinese meridionale, in vista del Cae-Expo del prossimo 11 settembre, dove i conti si faranno sui rapporti e i pesi economici.
Brucia la decisione negativa sull’arbitrato attivato dalle Filippine, ma spira aria di riavvicinamento con il nuovo presidente Duterte, meglio allora mettere la sordina ai dissapori nella penisola coreana e superare gli attriti sulla Terminal high altitude area defense (Thaad) con la Corea del Sud. Tokyo e Pechino stanno lavorando alacremente da giorni a un nuovo incontro dopo quello, storico, dell’Apec nel 2014 tra Shinzo Abe e Xi Jinping. E anche l’ombra della ribelle Tsai della ancor più ribelle provincia di Taiwan è bene che resti confinata oltre lo Stretto.
Quando il premier Li Keqiang ha detto in sintesi «non contate su di noi come unico traino della ripresa», si è capito che la Cina allungava la mano al mondo. Schiacciata da una montagna di acciaio, la metà di quello prodotto nel globo, la Cina sta alimentando le tensioni commerciali in tutto il mondo voci si sono levate negli Usa per chiedere con fermezza al presidente Obama di imporsi proprio ad Hangzhou, in occasione del G20. Per questo il Mar cinese meridionale sarà in agenda. Xi Jinping ha ordinato tagli annuali fino a 150 milioni di tonnellate, pari a circa il 13% della capacità produttiva in eccesso, ma queste politiche nel complesso restano inefficaci mentre i margini dei produttori cinesi sono sprofondati nel baratro. Politiche di stimolo, anche se ripetute e non di dimensioni colossali come quella, famosa, del 2008, anno della crisi planetaria, hanno lasciato altre ferite, mentre il debito del Paese sul Pil corre a livelli un tempo impensabili. In questo contesto mostrare i muscoli non è difficile, è pericoloso. Ma per quanto l’idea di riavvicinare le posizioni sia forte, bisogna salvare le apparenze e quindi forse è per questo che gli orari delle conferenze stampa dei due leader in calendario lunedì si sfiorano fino quasi a coincidere. Chi va a sentire dal vivo le ragioni di Obama non potrà, a ruota, seguire quelle di Xi.

il manifesto 3.9.16
Impeachment Dilma, un golpe senza carri armati
di Aldo Garzia


Impeachment riuscito, golpe a Brasilia senza carri armati. Del resto, siamo nel 2016 e non nel 1964, o nel Cile del 1973. La destra ha rialzato la testa nominando presidente fino al 2018 Michel Temer, incolore centrista del partito Pmdb, senza investitura popolare. L’unico precedente brasiliano di impeachment risale al 1993, quando fu destituito con la stessa procedura il presidente Fernando Collor de Melo. Ma se tutto questo è stato possibile, capovolgendo i rapporti di forza in Parlamento e mettendo i minoranza Roussef e il Partito dei lavoratori non è responsabilità solo dell’imperialismo yankee e della destra liberista che fanno il loro mestiere. Un groviglio di contraddizioni ha avvolto pure la politica del governo. E a preoccupare sono le difficoltà che incontrano altre esperienze progressiste latinoamericane: dal Venezuela al Cile, dalla Bolivia all’Ecuador. Tanto da far temere lo stop del ciclo progressista degli ultimi anni. L’analisi deve essere perciò attenta e non superficiale.
Ci eravamo fatti un’immagine del Brasile che non prevedeva contraddizioni e colpi di scena traumatici. Sesto o quinto paese al mondo per Prodotto interno lordo, nona potenza mondiale in procinto di surclassarne una del G8. Finalmente il paese monstre, per territorio e potenzialità, dell’America latina sembrava in grado di occupare un ruolo adeguato nella politica mondiale. Gli strabilianti risultati economici erano stati raggiunti dalle presidenze della Repubblica dell’ex leader sindacale Lula, alias Luiz Inácio da Silva, (2002-2008) e da Dilma Vana Rousseff Linhares (in carica dal 2011), entrambi dirigenti del Pt e dalla biografia segnata dalla lotta per il ritorno della democrazia dopo il golpe militare del 1964. Da qui le suggestioni positive che ogni osservatore di sinistra poteva trarre dai risultati raggiunti in poco più di un decennio dai governi progressisti del Brasile, pur sapendo che alcune contraddizioni covavano sotto la cenere. Ad esempio la corruzione che si annidava in molti settori del Pt (molteplici i casi a livello territoriale, alcuni ministri costretti a dimettersi, perdita di prestigio), le richieste inevase del Movimento dei senza terra sul destino della Foresta amazzonica, il permanere delle favelas a pochi chilometri dalle spiagge di Rio de Janeiro.
Nei giorni di giugno 2013, quelli della Confederations Cup, prova del budino dei Mondiali di calcio dell’anno successivo, l’immagine del Brasile cambiava di colpo a causa del raddoppio del costo dei trasporti urbani e del forte rincaro delle tasse scolastiche e universitarie. Massicce manifestazioni di massa si svolgevano nelle principali città brasiliane svelando l’insoddisfazione popolare per le politiche del governo di sinistra. La composizione sociale di quelle manifestazioni era un dato su cui riflettere: non masse di sottoproletari di periferia (come spesso avviene in questi casi in altri paesi dell’America Latina), bensì giovani studenti e in generale giovane classe media che non ce la faceva a tenere il passo – per salari e consumi – della locomotiva economica Brasile di quel periodo.
Grazie alle politiche orientate da Lula e Roussef, 35 milioni di brasiliani hanno però lasciato la povertà e sono diventati classe media. Le statistiche made in Brasilia parlano di una composizione del paese fatta di 50% di classi medie impegnate soprattutto nei servizi, di 27% di poveri in senso lato, di 20% di ricchi e 3% di inclassificabili. 28 milioni di nuovi posti di lavoro sono stati creati negli ultimi dieci anni, tanto che gli osservatori più ottimisti parlavano addirittura di «piena occupazione» in divenire. Importanti investimenti sono stati fatti anche in tecnologia, ricerca e innovazione per migliorare i comparti dell’industria e dell’agricoltura. In più, debito pubblico e inflazione – tradizionali mine vaganti del Brasile – erano fino a poco tempo fa sotto controllo. Ma proprio i risultati positivi delle politiche di Lula e Roussef hanno provocato nuovi problemi sociali e politici. È il 50% di classe media a chiedere di migliorare la qualità della scuola pubblica, della sanità, del sistema pensionistico che rischia la paralisi per via dell’invecchiamento della popolazione (altro buon risultato innegabile delle politiche di Lula e Roussef). Inoltre il real, la moneta locale, forse era quotata troppo in relazione al dollaro, il che ha minato le capacità di esportazione mentre le infrastrutture restavano inadeguate per il programma di accelerazione della crescita scelto negli ultimi anni. I sondaggi infine indicavano nell’ultimo anno che la popolarità della presidente Roussef era scesa in pochi mesi dal 70 al 57%, e poi ancora sotto il 50. Intanto la crescita dell’economia brasiliana si è quasi del tutto bloccata per effetto della crisi internazionale che ha raggiunto pure l’America latina. Facile per la destra colpire Roussef con l’impeachment accusandola di aver falsificato i dati del bilancio statale.
Che conclusione provvisoria trarre dalle giornate brasiliane dell’agosto 2016? Diventare la nona potenza mondiale non è facile e reca con sé contraddizioni sociali che solo l’intelligenza e la saggezza della politica possono aiutare a sciogliere. Ogni obiettivo raggiunto da una politica progressista e di sinistra apre nuovi scenari più ambizioni, soprattutto in una realtà che per più di vent’anni ha conosciuto un regime militare che spegneva ogni aspirazione sociale e di progresso. Sono così giunti al pettine i tradizionali problemi del Brasile: debolezza dei partiti e della democrazia, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato che gioca sulle insoddisfazioni e sulle promesse facili, economia dipendente dall’esterno. Che poi sono le questioni assillanti quasi tutte le realtà dell’America latina. E che fanno temere il peggio dopo più di un decennio nel quale il vento soffiava da quelle parti decisamente a sinistra.