sabato 3 settembre 2016

CULTURA

Repubblica 3.9.16
Venezia, "Liberami" e il vero volto degli esorcisti: "Il Male è una condizione della mente"
Nella sezione Orizzonti il docufilm di Federica Di Giacomo, viaggio in Sicilia fra i riti di liberazione dal Maligno. A contatto con i preti che li praticano. "Un fenomeno in continua espansione, un combattimento spirituale visto in una chiave trasparente e laica"
di Antonella Gaeta

qui

il manifesto 3.9.16
L’impotenza della specie
Arnold Gehlen. «L’uomo delle origini e la tarda cultura» è l’opera in cui il filosofo tedesco presenta le istituzioni come lo strumento teso a garantire la riproduzione degli umani che non possiedono nessuna specifica specializzazione come gli altri animali
di Massimiliano Guareschi


L’antropologia può essere molte cose. Per esempio, un ramo delle scienze biologiche che si occupa della morfologia e della fisiologia del gruppo zoologico degli ominidi. Oggi, quando si introduce il termine, si ritiene scontato che si stia parlando di antropologia culturale nelle sua varianti strutturaliste e, soprattutto, etnografiche. In un’accezione ancora differente, l’antropologia si presenta come la parte della filosofia che si raccoglie intorno alla domanda «che cosa è l’uomo?» ponendo contestualmente la questione della sua differenza specifica rispetto agli altri animali o a esseri quali spiriti, dei, angeli, demoni. Se gli avi dell’antropologia culturale possono essere individuati in Erodoto e nei sofisti, con il loro gusto per la descrizione degli usi e costumi di popoli più o meno esotici, la perimetrazione dell’ambito problematico relativo alla specificità dell’umano risale ai primordi della filosofia, da quanto si può desumere da alcuni frammenti presocratici, per consolidarsi con Platone e, soprattutto, Aristotele.
L’antropologia viene così a costituire un tema con cui ogni filosofo deve fare i conti, da Tommaso a Kant, fino all’idealismo e ai suoi vari «superamenti» o «ribaltamenti». Nella prima metà del novecento, poi, in Germania, al crocevia di filosofia della vita, fenomenologia e interesse per le scienze sociali e naturali una serie di autori – Max Scheler, Arnold Gehlen, Helmut Plessner – attribuisce all’l’interrogazione sullo statuto dell’uomo una tale centralità da generare a posteriori l’abitudine di iscriverli a una comune corrente denominata «antropologia filosofica».
La specializzazione mancante
In genere la tradizione filosofica ha identificato la specificità dell’umano e ciò che segnava la distanza dall’animale in un quid positivo, in qualcosa in più che di volta in volta ha assunto la forma dell’anima razionale, dello spirito, dell’immaginazione o dell’autocoscienza. Una posizione opposta caratterizza Gehlen, per il quale l’elemento differenziale deve essere ricercato in qualcosa di meno, in una mancanza. In base a tale prospettiva, che molto deve a spunti riferibili a Herder e Nietzsche, l’uomo si presenterebbe come un animale privo di ambiente e, per ciò, aperto al mondo, biologicamente indeterminato, istintualmente carente, despecializzato. Si tratta di temi esplorati nell’opera maggiore geheleniana, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (Mimesis), uscita nel 1940 e profondamente rielaborata una decina di anni dopo. La carenza istintuale comporta il fatto che nell’uomo non si attivino risposte automatiche agli stimoli dell’ambiente. La sollecitazione suscita l’«esigenza di fare qualcosa», un «sentimento» la cui traduzione in azione resta indeterminata. La despecializzazione, inoltre, spinge gli uomini a ricorrere all’esonero (Entlastung) ossia all’esternalizzazione, tramite gli strumenti tecnici, delle funzioni (per esempio la difesa o il riparo dalle intemperie) che altri animali affidano a organi specializzati.
Tecnica e apocalisse
Gehlen è senza dubbio un autore reazionario. Ad attestarlo non è solo la sua adesione al nazismo ma anche il costante richiamo alle gerarchie e alle esigenze di disciplinamento di un corpo sociale in perpetuo eccesso pulsionale che segnano la sua produzione del dopoguerra. Nonostante tale posizionamento, tuttavia, il suo approccio ha suscitato nel corso dei decenni periodiche ondate di interesse all’interno di ambiti assai lontani dalla sua sensibilità politica. È stato così negli anni Settanta, quando all’ordine del giorno era la questione della soggettività. Nel clima di riflusso del decennio successivo, Gehlen non manca di essere chiamato in causa nelle discussioni innocuamente apocalittiche sul dominio della tecnica. L’approssimarsi del nuovo millennio riaccende l’interesse per l’autore di L’uomo in relazione alle tematiche del posthuman e del cyborg. Se si dovesse individuare un aspetto del pensiero gehleniano in grado di entrare maggiormente in risonanza con le urgenze teoriche e politiche dei nostri anni, invece, la risposta potrebbe essere: le istituzioni. Di conseguenza, si può guardare con interesse alla recente riproposizione, a cura di Vallori Rasini, del testo in cui Gehlen, nel 1956, si confronta in maniera più sistematica con tale tematica: L’uomo delle origini e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici (mimesis, pp. 286. euro 25).
Nonostante Durkheim non sia mai citato, la drammaturgia di L’uomo delle origini e la tarda cultura presenta notevoli affinità con Le forme elementari della vita religiosa. In entrambi i casi, si intraprende una spedizione virtuale nel tempo (e nello spazio) alla ricerca di uno strato arcaico che permetterebbe di svelare i segreti del presente. Detto dell’analogia, relativa al «viaggio in una stanza» per interrogare selvaggi e primitivi, completamente diverso è il registro teorico dei due autori.
Per il positivista Durkheim i riti, i totem e i tabu mostravano allo stato puro ciò che, man mano ci si allontana dall’origine, diviene sempre più opaco e indiscernibile ma non per questo meno presente. Diversamente Gehlen, come ogni buon filosofo tedesco, ha un’attrazione irresistibile per l’ineffabile. Ai suoi occhi l’uomo delle origini non ci è accessibile per immedesimazione in quanto nulla nella nostra esperienza rimanda al suo mondo. Di conseguenza, l’indagine acquisisce un valore soprattutto differenziale, per marcare la distanza fra una modernità incentrata sul razionalismo volontarista e il primato della soggettività individuale e un’origine di cui si è smarrito il senso passando per le grandi svolte del monoteismo e del disincanto del mondo.
Lo spirito oggettivo
L’uomo delle origini e la tarda cultura si propone l’elaborazione di una filosofia delle istituzioni. In proposito, Gehlen non esita a chiamare in causa Hegel, un classico a lui molto distante dal punto di vista teorico. L’analisi antropologica delle istituzioni, infatti, ci condurrebbe allo «spirito oggettivo», mostrando come «gli ordinamenti prodotti dall’uomo si rendono autonomi e si trasformano in una potenza che fa valere le sue leggi fin dentro i loro cuori». In tal senso, le forme di soggettività appaiono sempre indissociabili dai dispositivi istituzionali che le producono e che, a loro volta, da esse sono tenuti in vita. L’uomo, essere plastico e istintualmente indeterminato e, per questo, pulsionalmente in eccesso, necessita di stabilizzazione. E ciò può avvenire solo tramite esoneri, tramite le esternalizzazioni interiorizzate offerte dalle istituzioni.
La sequenza storico-tipologica che emerge dall’esperienza dell’uomo delle origini conduce dalla rappresentazione al rito, e da questo all’abitudine e all’istituzione attraverso un complesso gioco in cui la routinizzazione delle pratiche conduce alla loro autonomizzazione dai fini originari e all’emergere in primo piano di effetti secondari.
Varie sono oggi le motivazioni che spingono a un rinnovato interesse per la tematica delle istituzioni. In primo luogo si potrebbe citare la crisi del «portatore» per eccellenza delle istituzioni della modernità nazionale-internazionale, lo stato, che subisce la crescente concorrenza di fonti del diritto e principi di organizzazione/legittimazione dell’azione individuale e collettiva di carattere sub o sovranazionale, spesso private o di incerto statuto.
L’aiuto inatteso
Correlato appare il tema dell’incapacità di incidere sui processi e le dinamiche in atto della politica e del volontarismo giuridico incentrato sulla figura dello stato. A fronte di ciò, negli ultimi anni si è molto parlato, a partire da differenti prospettive, di governance, di istituzioni cosmopolite, di nuovo localismo, di diritto alla città, di istituzioni del comune. In sintesi, la crisi delle figure della rappresentanza politica e dei corpi intermedi pone all’ordine del giorno la questione della creazione di nuove istituzioni. In tale ottica, l’approccio antropologico-filosofico e il viaggio verso le origini di Gehlen, proprio per la sua distanza da ogni prospettiva filosofico-giuridica imperniata sulla sovranità, può senza dubbio offrire numerose suggestioni e sollecitazioni, al di là delle intenzioni politiche dell’autore.

Corriere 3.9.16
Stragi naziste: Milano ospiterà un convegno


S’intitola «L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 1943-1945» il convegno internazionale in programma a Milano presso la Casa della Memoria (via Federico Confalonieri 14) dal 14 al 16 settembre. L’incontro è organizzato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione (Insmli) e dall’Anpi con il contributo dell’ambasciata della Repubblica federale tedesca e della struttura di missione per gli anniversari d’interesse nazionale della presidenza del Consiglio: lo scopo è tirare le somme del lavoro di ricerca compiuto in questi anni, che ha portato alla definizione dell’Atlante delle stragi e che ha fissato in 22 mila le vittime degli eccidi compiuti dalle forze occupanti del Terzo Reich, al comando del maresciallo Albert Kesselring (nella foto), e da quelle fasciste della Rsi. ( m.br. )

il manifesto 3.9.16
La chance di Bandinelli
«L’uomo che non cambiò la storia», sulla visita di Hitler in Italia nel maggio del 1938
Il documentario di Enrico Caria presentato alle Giornate degli Autori

di Silvana Silvestri

Basta vedere sul piccolo schermo le immagini di Hitler ed ecco che aumentano vertiginosamente i numeri degli spettatori, questo ci dicono le statistiche. Questa volta Enrico Caria spiazzerà quel pubblico con un film costruito sui materiali dell’Istituto Luce a partire dal paradosso della storia costruita con i «se»: e se veramente fossero andati a segno i numerosissimi tentativi di eliminare fisicamente i dittatori dell’epoca?
Rinascono a nuova vita i reperti filmati, che si concentrano, dopo aver riepilogato i falliti attentati a Hitler, sull’avvincente vicenda di Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo chiamato a fare da illustre guida dei musei e delle antichità al seguito della visita di Hitler in Italia nel maggio del 1938. Sembrerebbe impensabile dare una svolta umoristica a questi eventi, ma Enrico Caria è un vero esperto dell’humour noir, autore di film come 17, Vedi Napoli e poi muori, L’era legale, Carogne, sceneggiatore e autore di polizieschi (l’ultimo, Indagine su un mago senza testa).
Così ci accompagna con grande serietà lungo quel viaggio compiendo sterzate non in conflitto con l’epoca di cui si sta parlando: lo sono i disegni a fumetti che punteggiano le autentiche riprese, la stessa voce che commenta i fatti in prima persona (è Claudio Bigagli a dare l’intonazione fiorentina dalle pagine liberamente utilizzate del libro autobiografico di Bandinelli Il viaggio del Fuhrer in Italia, ed. e/o), lo stesso sorprendente andamento musicale (Pivio e Aldo De Scalzi, Daniele Sepe).
Lo studioso, come altri intellettuali dell’epoca (Bandinelli fu liberale crociano e poi comunista) possedeva grande senso critico e sapeva cogliere ogni aspetto grottesco e umoristico delle situazioni, non che ne mancassero, come i commenti del «grande artista» Hitler, contrapposto al disinteresse di Mussolini per la materia, con il suo fluente tedesco dall’accento romagnolo. Ma Caria parte sempre dalla notazione arguta per far esplodere poi il disastro annunciato (l’apprezzamento del Fuhrer sarà il preludio ai furti delle opere nei Musei di tutta Europa, i due personaggi da operetta preludono a immani ecatombi). Il film ci fa partecipi di quella contiguità del professore con Hitler e Mussolini, sempre accanto al loro nell’automobile o nelle sale dei musei e soprattutto ci accomuna nella domanda che potrebbe farsi chiunque: che svolta avrebbe avuto la storia se fossero stati eliminati entrambi in un sol colpo in quel 1938?
C’era lo scopo e la possibilità, Bandinelli fu sedotto a lungo da quell’ipotesi, la valutò per molto tempo, ma di fronte alla sua inazione, si rese conto che a niente vale l’iniziativa individuale, se non deriva da una politica strutturata.

Corriere 3.9.16
Appendino e Sala: «Salone del libro? Ne parliamo con i ministri»
di Ida Bozzi ed Elisa Sola


Si avvicinano giorni decisivi per molte delle questioni che ruotano intorno alla vicenda del Salone del libro, mentre ieri si sono incontrati i sindaci delle due città in gioco, Milano e Torino.
Intanto, è confermata ufficialmente la data di giovedì 8 settembre per l’incontro a Torino, al Circolo dei lettori, del gruppo degli editori usciti dall’Aie (i primi undici sono stati Add, Nutrimenti, e/o, Iperborea, LiberAria editrice, Lindau, minimum fax, Nottetempo, Sur, 66thAnd2nd, ObarraO) con gli indipendenti di Odei, di Fidare e altre associazioni di categoria, e con molti invitati tra editori e istituzioni. A cominciare dalla Fondazione per il libro, continuando con le istituzioni cittadine e regionali, per arrivare agli editori («abbiamo invitato moltissimi editori, non solo indipendenti», ha affermato Gino Jacobelli presidente di Odei). Altri attesi sono Giuseppe Laterza, che aveva già accettato l’invito in luglio, il direttore uscente del Salone, Ernesto Ferrero, e una rappresentanza dei librai.
Oltre alla questione della sopravvivenza del Salone del libro a Torino, dalla riunione torinese dell’8 dovrebbero uscire anche le decisioni sulla creazione di una nuova associazione di rappresentanza degli editori «ribelli» («in ballo, a questo punto, c’è la questione complessa della rappresentanza degli editori — ha affermato Andrea Palombi di Nutrimenti — e l’esigenza che molti editori sentono di creare un’associazione di categoria, anche a partire da quel che c’è già, Odei e gli altri indipendenti»). Inoltre sono arrivate a 541 le firme all’«appello dei professori» in favore del Salone di Torino, promosso da Gian Giacomo Migone, fondatore de «L’Indice». E un altro tavolo di lavoro è quello della Fondazione del libro: oggi, a Torino, in mattinata, è previsto un incontro tra la Fondazione, l’assessora alla Cultura, Francesca Leon, e il presidente indicato Massimo Bray.
Intanto ieri sera, all’inaugurazione torinese della rassegna musicale MiTo, al Teatro Regio, cui partecipavano i sindaci Chiara Appendino e Giuseppe Sala, si è parlato anche del Salone. «Per risolvere la questione del Salone del libro — ha affermato Sala — andremo a Roma. Ho appena sentito il ministro Dario Franceschini. Quello sarà il momento per lavorare insieme e per uscire da una situazione un po’ di impasse che nostro malgrado si è creata. Ho sentito Franceschini, io e Appendino siamo stati entrambi convocati a Roma. È giusto che anche i ministri si mettano a un tavolo, con gli assessori competenti e la Fondazione».
L’incontro sarà il 12 settembre, con i ministri Franceschini e Giannini. Ma c’è anche la volontà, ha concluso Sala, di rafforzare il rapporto tra le due città. Un punto su cui ha insistito anche Appendino, sottolineando la volontà di incontrarsi in altre occasioni: «Ci troveremo insieme e ne parleremo». La prima occasione sarà stasera, a Milano, quando Sala e Appendino inaugureranno la parte milanese di MiTo, al Teatro alla Scala.
Anche l’assessore alla Cultura del Comune di Milano, Filippo Del Corno, pur ribadendo che «non c’è un tavolo di trattativa», ha affermato che «non c’è mai stata nessuna contrapposizione fra Torino e Milano riguardo al Salone del libro. Il salone di Milano sarà un evento nuovo voluto dall’Aie e dalla Fiera. Il progetto non è ancora stato presentato, lo sarà a breve. Si tratta comunque di una iniziativa privata con la quale il Comune collaborerà».

Repubblica 3.9.16
Il misterioso frutto degli indios diventato delizia da fast food
Scoperto nel Cinquecento dai conquistatori spagnoli in Sudamerica il tubero approdò stabilmente sulle tavole europee solo tre secoli dopo
di Marco Belpoliti


Nel 1536, dopo essersi aperti un varco nella foresta della valle di Magdalena, i membri della spedizione di Gonzalo Jiménez de Quesada incontrano il villaggio di Sorocotá. Gli indigeni fuggono all’apparire degli spagnoli e questi, entrando nelle case, vi trovano fagioli, mais e “tartufi”. Nel suo resoconto Juan de Castellanos li descrive dettagliatamente: «piante con scarsi fiori viola opaco e radici farinose di sapore gradevole, un dono molto gradito
dagli indios e un piatto prelibato perfino per gli spagnoli». Pochi mesi più tardi la medesima spedizione conquista Bogotà e scopre che il mais e il “tartufo” sono la base della alimentazione della popolazione. Due anni dopo, nel 1538, Pedro Cieza de Leon, soldato semplice di un’altra spedizione, un erudito, descrive il vegetale sconosciuto in modo dettagliato. Il suo resoconto, pubblicato nel 1550, è la prima testimonianza scritta della patata. Ventitré anni dopo il “tartufo” fa parte del vitto dell’Hospital de la Sangre di Siviglia, città crocevia della sua introduzione. Tuttavia questo tubero, appartenente alla famiglia delle Solanacee, faticherà parecchio a imporsi come alimento in Europa, in particolare in Italia; occorrerà parecchio tempo infatti prima che diventi quello che è oggi: cibo sulle nostre tavole.
Gli spagnoli la chiamano papa, o papas, al plurale, parola peruviana di origine quechua. La sua classificazione è prima di tutto botanica; come pianta s’insedia nei giardini reali e negli orti botanici europei. Coltivata dagli indios ha una prerogativa preziosa: prospera sugli altopiani delle Ande, dalla Columbia al Cile. Lì, ai confini con le zone nevose, ad altezze oltre i 4000 metri crescono molte specie di Solanum selvatico da tubero, da cui derivano le nostre patate domestiche. Sostituisce il mais, che non prospera così in alto. Redcliffe N. Salaman, medico ebreo inglese, vissuto tra la fine del XIX secolo e la metà dello scorso, autore di
Storia sociale della patata, sostiene che gli uomini hanno incontrato la patata selvatica nei territori elevati come il Collao quando presero ad allontanarsi dalle foreste del Sudamerica: il terrore li aveva spinti a ovest, sempre più in alto, lontano dai pericoli nascosti nella fitta vegetazione. Il cibo giusto è lassù. Le specie sono diverse e coltivate contemporaneamente dalle popolazioni indios.
Oggi la maggior parte delle varietà appartiene alla specie Solanum andigenum. Nel 1939 una spedizione scientifica inglese raccoglie nel suo erbario centocinquanta varietà diverse della Solanum andigenum. L’importanza della patata nella cultura dell’antico Perù era tale, scrive Salaman, da essere tutt’uno con i riti sacrificali. Perché non si è imposta subito come alimento in Europa? La prima fondamentale ragione è che è un tubero; vi erano forti pregiudizi verso il fusto sotterraneo della pianta che confinano con la superstizione. Frutto ctonio, per alcuni, aveva però goduto del favore di almeno un ordine religioso: i Carmelitani scalzi. Nel 1584 un frate di nome Nicolò Doria fonda un monastero a Genova ed è probabile che in quell’occasione la patata arrivi in Italia; il suo ordine ne fa già uso quale prezioso dono della Provvidenza. Nel 1653 non risulta ancora coltivata in Inghilterra come alimento, e nella prima edizione dell’Encyclopédie (1751) di Diderot e D’Alembert la voce a lei dedicata non è per nulla lusinghiera: «è insipida e farinosa».
La prima difficoltà è che per piantare le patate non si usano i semi, ma i tuberi, cosa poco consueta nel mondo contadino del Vecchio continente. La seconda deriva dal fatto che all’inizio, e per lungo tempo, ridotta in fecola o pasta, viene proposta come componente del pane. In Italia, in particolare, i fittavoli temono che i proprietari usino le patate in sostituzione degli alimenti cui sono abituati: grano, mais o castagne.
Come nota David Gentilcore non era una questione di attaccamento alla tradizione; sostituire un alimento con l’altro «metteva in discussione il concetto di sussistenza per i contadini».
La loro dieta non era flessibile. Sempre in Italia, scrive Vito Teti, la coltivazione delle patate era incoraggiata dai proprietari che consumavano invece pane bianco e dai preti che predicavano ai contadini digiuno e rassegnazione. Nel Settecento la patata diventa essenziale nelle carestie, in particolare nell’Irlanda devastata dal conflitto con gli inglesi; inoltre si è già diffusa nei paesi del nord che ne diventeranno i maggiori produttori e consumatori nei secoli seguenti. In Italia, spiega Gentilcore, passano ben 300 anni prima che entri nell’alimentazione. Occorreranno tre tentativi successivi. Il primo dopo l’introduzione nel Cinquecento per merito dei Carmelitani. Se dal mais si può ricavare la farina, il peperoncino è spezia più a buon mercato del pepe e i fagioli americani sono accettati in modo entusiastico, la patata, come il pomodoro, richiede nuove associazioni culinarie. Nel Seicento non accade. La seconda volta è nella seconda metà del Settecento. Come alimento contro le carestie non ha rivali, tuttavia alla maggior parte degli italiani pare ancora strano ed esotico, persino ridicolo; è chiamata ancora tartufo, o tartuffolo, fino al XIX secolo inoltrato. Lo propagandano le élite laiche («migliorava la condizione dei poveri senza minacciare la vita dei ricchi»), mentre i preti si oppongono. Poi, a partire dalla metà dell’Ottocento, la patata si trasferisce in città e diventa una cultura redditizia nelle campagne. S’impone finalmente, con una conseguenza però non positiva, spiega Gentilcore: è la patata a creare lo spopolamento delle nostre montagne nel corso dell’Ottocento, la migrazione; grazie alla maggior disponibilità alimentare che produce, provoca una crescita demografica che l’ambiente montano non riesce a tollerare. Oggi la maggior parte delle patate non è destinata alla alimentazione umana, ma a quella animale, e all’industria che produce alcol e amido. Negli anni Cinquanta compaiono le “patatine all’americana”, mercato in cui è leader la San Carlo, multinazionale a conduzione famigliare; nei Sessanta è la volta delle patate surgelate fritte a bastoncino. Nessuna delle due però sfonda davvero. La patata postmoderna, conclude Gentilcore, ha varie e differenti identità contrastanti: tradizionale, futuristica, urbana, montana, locale, globale, fast food. Oggi la patata è oggetto di tradizioni “inventate” nonostante che il suo ruolo nell’agricoltura italiana continua a declinare. Un fatto curioso: a differenza nostra i cinesi hanno adottato rapidamente la patata. Che siano più recettivi anche nelle novità alimentari? Ipotesi da non scartare.
Cosa leggere per saperne di più I semi dell’Eldorado (Edizioni Dedalo) di Maurizio Sentieri e Guido N. Zazzu racconta la storia dell’arrivo delle piante dal Nuovo Mondo. Redcliffe N. Salaman con Storia sociale della patata (Garzanti, ristampata di recente da PiGreco) ha scritto il libro definitivo sulla sua origine e uso; David Gentilcore, Italiani mangiapatate (il Mulino) narra con dovizia di dettagli la storia della patata in Italia.
8. Continua