sabato 24 settembre 2016

La Stampa TuttoLibri 24.9.16
Viva la Revolución
In America Latina la rivoluzione era un’avventura
Da Cuba ai sogni di guerriglia impossibile un secolo di utopie, dittature, dolorose cantonate
di Giorgio Fontana

Quando si recò per la prima volta in Sudamerica, nel 1962, Eric Hobsbawm era spinto come molti da ragioni non strettamente accademiche. Dopo la vittoria castrista di tre anni prima, il continente appariva agli intellettuali quale un alveo straordinario di possibilità insurrezionali. Viva la Revolución è un buon compendio di tale esperienza, anche perché contiene quasi solo analisi in presa diretta: salvo alcune eccezioni, gli articoli raccolti dal curatore Leslie Bethell datano fra i primi anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. In particolare, scrive Bethell, lo storico riteneva «che per l’America Latina […] la scelta non fosse tra un cambiamento graduale e la rivoluzione, bensì tra quest’ultima e la stagnazione o il caos». Purtroppo, molti sogni sognati nel continente finirono male. Anche per questo ha senso cominciare dalla fine del libro.
Nell’articolo conclusivo, Una relazione quarantennale con l’America Latina, Hobsbawm propone un bilancio. Forse sorprenderà l’ammissione di non aver voluto diventare «un esperto» di questa storia; ma non dovrebbe. Nell’America Latina egli vide un luogo «fatto apposta per scardinare le verità convenzionalmente accettate». Là, gli schemi concettuali della sinistra europea non bastavano a rendere ragione dei fatti: «capi di destra che diventavano ispiratori di movimenti dei lavoratori (in Argentina e Brasile), ideologi fascisti che si univano a un sindacato di minatori di sinistra per fare una rivoluzione che desse la terra ai contadini (Bolivia), l’unico Stato al mondo che ha di fatto abolito il proprio esercito (Costa Rica)», e così via. In sintesi: «Secondo i nostri standard […] quel posto semplicemente non ha senso».
Ma fu proprio lo studio di questo non senso a essere salutare. Frequentando a più riprese il Sudamerica da marxista critico, Hobsbawm ne colse l’assoluta originalità. L’indipendenza nazionale conquistata senza l’ingresso delle masse in politica; la persistenza di uno sfruttamento feudale delle haciendas al fianco del capitalismo; la centralità della povertà rurale e delle occupazioni di terre; l’enorme accelerazione urbana; la diffusione della guerriglia contadina… Tutto ciò rendeva i canoni dell’ideologia nostrana non più applicabili in modo pigro. Le stesse parole «liberalismo» e «comunismo» acquistavano un significato diverso. Al rigore storico si aggiunge così un altro pregio: l’analisi di Hobsbawm consente, ancora oggi, di liberarsi dalle tentazioni (inconsce o meno) di un colonialismo del pensiero.
Nel complesso, l’antologia è ben costruita salvo qualche articolo un po’ troppo prolisso, e forse non del tutto necessario. Uno dei suoi meriti è di offrire sia una lettura globale del fenomeno rivoluzionario in Sudamerica, sia una rassegna delle singole esperienze locali. Hobsbawm si preoccupa anche di confutare molte convinzioni errate, specie l’idea che in quel continente la rivolta abbia avuto «un’unica ricetta»; e sottolinea con amarezza lo strano «alone di irrealtà» e di scarsa analisi politica che accompagnava le guerriglie. A parte la Colombia, il Venezuela e l’Uruguay, «nessuna insurrezione rurale venne mai intrapresa sulla base di un’analisi politica seria, o con reali prospettive di successo». Né riuscì nell’impresa il glorioso Cile di Allende, la cui via pacifica e pluralista al socialismo fu stroncata con ferocia.
In effetti, queste storie terminano quasi per intero con dei fallimenti. Ma tale esito non implica che il potenziale del continente fosse in realtà scarso: al contrario. Le forze rivoluzionarie da un lato si espressero a volte goffamente o con tattiche suicide; e dall’altro furono stroncate. Per quanto concerne il primo punto, Hobsbawm era convinto fin da subito della non replicabilità dell’esperienza cubana, il cui successo fu dovuto soprattutto alla fragilità del regime di Batista. Il mito romantico da essa generato — cui si accompagnò quello di un Guevara libertario e quasi byroniano, che l’autore decostruisce già nel 1968 — portò a una sopravvalutazione del fochismo. (In effetti i fuochi di guerriglia divamparono ovunque, ma invano). E per quanto riguarda le responsabilità esterne del fallimento, un peso enorme spetta ai golpe e alle ingerenze del rigido imperialismo statunitense — su cui Hobsbawm è altrettanto severo. Il computo non è comunque negativo: nonostante il distacco e la lucidità di cui sono intrise, le pagine di Viva la Revolución ogni tanto si accendono di passione per una vicenda dove molti sono sì caduti, ma lottando.