La Stampa TuttoiScienze 14.9.16
Tutto il sesso che sarà meglio non fare con un robot
Le relazioni molto pericolose con l’Intelligenza artificiale rischiano di farci perdere la natura empatica di umani
di Kathleen Richardson
Theodore,
il protagonista di «Her», interpretato da Joaquin Phoenix, inizia una
«relazione» con un sistema operativo di nome Samantha con la voce di
Scarlett Johansson. È la relazione ideale per Theodore: Samantha non ha
desideri propri, voglie o bisogni, e impiega tutte le energie a
organizzare la vita di Theodore. È disponibile ogni volta che lui ha
bisogno di «lei», nei momenti di solitudine, confusione e noia.
Molti
aspetti della vita di Theodore sono online - le relazioni sentimentali,
le amicizie, gli svaghi - e Samantha si inserisce perfettamente nel suo
universo. Il fatto che non abbia un corpo con cui confrontarsi non è
assolutamente un problema per Theodore. Dopotutto, può sempre dedicarsi
al sesso «virtuale». Una delle scene centrali del film è quando Theodore
confessa a un amico la sua relazione con Samantha: «Mi vedo con un
sistema operativo», dice. «Anch’io», replica l’amico, senza lasciar
trapelare giudizi o sorpresa.
«Her» è pura fantasia, ma una
fantasia da prendere seriamente in considerazione. Grazie al web si
possono intraprendere relazioni con persone che non incontreremo mai
nella realtà. Seppur non vi siano ancora sistemi operativi sofisticati
come Samantha, ci sono già numerosi segnali che ci fanno capire che
quella di «Her» è una previsione del futuro prossimo: i chatbot e i
robot vengono sviluppati non come strumenti di mediazione ma come
oggetti diretti di una relazione. Come sostituti, insomma. Le bambole
sessuali e i robot con sembianze femminili sono un’espressione tangibile
di quella che in «Her» è solo fantasia.
Un filone della narrativa
si è nutrito di fantasie sui sex robot prima che diventassero
tecnicamente possibili nella realtà. Già nella mitologia classica
Pigmalione, stufo delle prostitute locali, scolpì nella pietra la sua
donna ideale, che poi prese vita. «La fabbrica delle mogli», film del
1975 tratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin, divenne poi una sorta di
manifesto per tutti quegli uomini contrari al concetto di uguaglianza
femminile: i protagonisti maschili trasformano le mogli in robot
obbedienti e ossequiosi.
Non si può parlare di sex robot senza
chiamare in causa lo sfruttamento sessuale, perché sono prodotti da un
mondo che considera gli esseri umani strumenti da utilizzare. I loro
difensori, infatti, non fanno distinzioni tra bambole e prostitute. Ma
l’avvento dei sex robot rappresenta un momento di crisi per l’umanità:
possiamo trovarne le motivazioni nel «Manifesto Cyborg» della filosofa
Donna Haraway. Lei è conscia del fatto che l’«umanesimo», inteso come
filosofia culturale, riguarda solo gli Uomini. D’altronde, anche i
sostenitori dei diritti delle donne continuano a considerarle come una
sottospecie di uomo, proprio come Eva, nella Genesi, nata da una costola
di Adamo. Nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, poi, non c’è
alcun riferimento alle donne, ma si legge che «Tutti gli uomini sono
stati creati uguali». Nella filosofia politica dell’antica Grecia e
nella filosofia illuminista donne, animali, schiavi e oggetti si trovano
tutti sullo stesso livello e fanno tutti parte di una medesima
categoria - la proprietà - di cui gli uomini possono disporre.
Il
Manifesto Cyborg, così, è diventato, inavvertitamente, un elogio del
dissolvimento dei confini tra umano, animale e artificiale, a favore di
un’unica categoria: la proprietà. Se i sex robot entreranno a far parte
della nostra cultura, sarà perché il concetto aristotelico di schiavitù
persiste: ci sono uomini che sono «strumenti animati», i cui bisogni
possono essere soddisfatti da altri «strumenti animati», i robot!
Non
sorprende, dunque, che il Manifesto Cyborg sia un punto di riferimento
per i tecnocapitalisti e per chi si dichiara a favore del commercio del
sesso: i due gruppi condividono un concetto di umanità radicalmente
diverso da ciò che riteniamo essere l’«umano». Prima di tutto, gli umani
sono una specie sociale: di fatto è impossibile parlare di un essere
«umano» come individuo solitario, sconnesso dagli altri. Se, quindi,
decidiamo di utilizzare il termine «umano», dovremmo essere consapevoli
del suo significato. Un approccio potrebbe essere quello dell’umano
empatico. Un umanesimo empatico ambirebbe, infatti, all’abbattimento di
tutte quelle pratiche che si sostengono sull’ineguaglianza e che creano
isolamento in una specie che è intrinsecamente sociale, intelligente e
dotata di senso.
La «Campaign Against Sex Robots» (la «campagna
contro i sex robot») è nata per mostrare quanto l’approccio empatico si
sia indebolito e come la rimozione di qualunque forma di connessione
umana stia limitando le possibilità di una trasformazione sociale in
senso positivo. Il fatto che alcune persone abbiano più proprietà,
status o potere non le rende automaticamente più umane: Aristotele
contribuì a creare illusioni simili e queste perdurano oggi, sotto nuove
forme, amplificate dalla tecnologia: sono idee sostenute anche da
scienziati di fama come Stephen Hawking.
È quindi necessario un
nuovo Rinascimento dell’umanesimo empatico, caratterizzato da sentimenti
di reciprocità, mutualità e dialogo. I robot - e l’Intelligenza
Artificiale - dovrebbero essere progettati per aiutare l’umanità a
liberarsi dai lavori più faticosi e per darci la libertà di sognare e di
creare, per le nostre famiglie, i nostri amici, le nostre comunità.
Siamo una specie sociale e sono i nostri legami a renderci umani.
Promuovere l’uso dei sex robot non può che generare isolamento e
rafforzare la visione secondo cui le donne e gli oggetti sono
interscambiabili.
Traduzione di Antonio Maconi