La Stampa 8.9.16
La dissoluzione dei poteri lungo il Tevere
di Fabio Martini
C’è
qualcosa di nuovo nella crisi di Roma, la città che da secoli e secoli è
una cosa sola col potere: sono entrati in crisi tutti i poteri. A
cominciare dal più importante: quello politico. L’isolamento, fisico e
morale, della giovane sindaca di Roma lassù sul colle del Campidoglio,
parla dell’infarto più grave. La politica non c’è: è paralizzata, non
riesce a prendere decisioni. A fare squadra. È divisa da faide.
Inchiodata
da settimane in una selezione innaturale di assessori, super-burocrati,
manager. Certo, dopo giorni di silenzio, Virginia Raggi ha rialzato la
testa, ma ora è destinata a restare col fiato sospeso, nella speranza
che le indagini della magistratura non la costringano a nuove emorragie,
a nuovi forfait.
E quanto al «sistema», indicato da Beppe Grillo
come il promotore di un mega-complotto, stavolta i «poteri forti» della
Capitale - sempre così impiccioni - sembrano essersi limitati al «minimo
sindacale». Certo, sperano che i grillini falliscano il prima
possibile, ma stavolta il «sistema» sta accompagnando la crisi, non l’ha
provocata. Anche perché i nuovi governanti della Capitale, per il
momento, stanno facendo tutto da soli.
Per i «poteri forti» romani
può valere una battuta di Jap Gambardella nella «Grande bellezza» di
Paolo Sorrentino: «Io non volevo semplicemente partecipare alle feste,
volevo avere il potere di farle fallire!». Per decenni i potenti della
Capitale - i «palazzinari», gli imprenditori della «monnezza», i
notabili dell’enorme indotto della politica - hanno partecipato a tante,
succulente «feste», ma solo ogni tanto hanno contribuito a far fallire
qualche «festicciola».
Perché a Roma il potere politico è sempre
stato fortissimo. Nella Capitale ha sempre governato il «partito
romano»: quell’intreccio tra un potere pubblico - solido e
paternalistico sin dai tempi del Papa Re - e una miriade di interessi
privati, sempre garantiti. Quelli che lo scrittore Alberto Arbasino
definì 40 anni fa «una quantità di piccoli ambienti, minuscoli clan». E
certi caratteri cittadini sono di lunga durata. Quando i Savoia
«conquistano» Roma scoprono che nella città dei Papi lo Stato è il
protagonista assoluto: per secoli la pace alimentare era stata garantita
dalla farina e dalla carne approvvigionate dall’efficiente sistema
della Pontificia Annona e della Grascia.
Un imprinting che non si è
più perso, quello della mano pubblica sempre intrecciatissima agli
interessi privati. Anche se i sindaci che hanno lasciato un’impronta
sulla città - a cominciare dal mitico Ernesto Nathan poco prima della
Grande Guerra - sono quelli che hanno saputo trovare un equilibrio tra
interesse pubblico prevalente e un interesse privato ricondotto dentro
un disegno della città. Un equilibrio che negli ultimi anni era saltato:
la destra ex missina - alla prima e ultima prova di governo - ha inteso
il primato della politica come primato della clientela; il professor
Ignazio Marino ha sfidato i «poteri forti» senza disporre di un’adeguata
deterrenza politica.
I Cinque Stelle a Roma hanno vinto sulle
macerie della politica e Virginia Raggi ha ricevuto un mandato popolare
molto forte, su un programma di discontinuità. Nel fare squadra la
sindaca è incappata in alcune scelte che segnalano la presenza della
«vecchia» Roma, quella della consociazione, dei poteri intrecciati. Ma
ora, chiamata alla prova del governo, l’anti-politica è alla prova più
difficile: ripristinare tutto intero il primato della politica.