La Stampa 7.9.16
Festival di Venezia
Munzi fa l’archeologo del ’68
“Rimpiango quello slancio”
Ecco
il documentario “Assalto al cielo” del regista di “Anime nere”, classe
’69 Solo immagini d’epoca, niente commenti né voci fuori campo, assenti i
leader
di Alberto Mattioli
Ci
sono gli scontri in piazza fra gli studenti di destra e quelli di
sinistra, le assemblee fumose, sia per le sigarette che per gli
argomenti, i cortei per il Vietnam, i celerini e i lacrimogeni, i
genitori di Walter Alasia che piangono il figlio, il folle festival al
Parco Lambro di Milano, una Woodstock in ritardo con i fricchettoni nudi
«contro la Dc» (chissà che paura, per Andreotti e Rumor).
E
poi le prime sinistre frasi sull’attacco al cuore dello Stato e il
passaggio alla lotta armata, l’imperialismo e
borghesi-ancora-pochi-mesi, le università occupate, i ponchos e i
pantaloni a zampa d’elefante, i maoisti e i «cioè» infilati in ogni
frase. Tutto il repertorio della meglio gioventù nei peggiori anni della
nostra vita, oppure della peggio gioventù e dei migliori anni, perché
com’è noto il giudizio è alquanto controverso.
Quest’anno
a Venezia è tutto un documentario e anche Francesco Munzi, classe 1969,
rivelato qui con Anime nere due anni fa, non si è sottratto. Il suo
Assalto al cielo copre il periodo grosso modo dal Sessantotto alle Br, e
ieri è stato lungamente applaudito da una platea piena di reduci. Uno
ha iniziato a battere le mani anche quando sullo schermo un demente
barbuto teorizzava il ricorso alla pistola contro lo Stato «che protegge
i fascisti», come se non si sapesse com’è poi andata a finire.
E
qui chi sa un po’ di storia pensa subito a quei «revenants» che
tornavano in Francia dopo la Rivoluzione e che, secondo Talleyrand, non
avevano imparato né dimenticato nulla. Munzi si vuole oggettivo: nessuna
voce fuori campo, niente commenti, niente montaggio «a tesi», solo
filmati tratti dagli archivi Luce e Rai (e la già biasimata tivù
democristiana ci fa, per inciso, un’ottima figura). C’è perfino
l’operaio pasoliniano che manda a quel paese gli studenti figli di papà
venuti a spiegargli la rivoluzione. Soprattutto, niente leader, e che
sollievo per una volta non ritrovarsi davanti Capanna.
Le
voci sono solo anonime, scelte fra la folla, a parte Bifo, alias Franco
Berardi, ripreso però dal tiggì dell’epoca in piena bufera fra Radio
Alice e Kossiga con il volto coperto da una maschera fatta di carta di
giornale, l’unico momento divertente di tutto il film.
Ma
forse più interessante ancora del documentario è l’effetto che fa. Per
chi quegli anni, «formidabili» o meno, non li ha vissuti, colpisce
l’assoluta astrattezza dell’analisi e della proposta, la vuotaggine
degli slogan, il senso di irrealtà che tracima da manifesti e discorsi e
rivendicazioni insensati. La totale mancanza di buonsenso, insomma,
come se una politica, qualsiasi politica, potesse essere una variabile
indipendente dalla realtà, dai rapporti di forza, dalle sue stesse
concrete possibilità di realizzazione.
Qui,
di solito, scatta la solita giustificazione: sì, abbiamo sbagliato più o
meno tutto, ma almeno abbiamo sognato. L’ha ripetuto anche Munzi, in
conferenza stampa, rimpiangendo senza averli vissuti «la partecipazione,
lo slancio vitale che poi si è perduto e che forse solo al G8 di Genova
ha avuto un breve risveglio». Scontato quindi chiedergli se la sua sia
un’operazione-nostalgia: «Nostalgia? Non posso averla non avendo vissuto
quegli anni. Nostalgia per la partecipazione che c’era, quella sì. E
anche per la voglia di lottare per le conquiste sociali, per l’ansia di
libertà, per uno slancio oggi soffocato. Il terrorismo ha offuscato il
ricordo di tutta questa parte dell’epoca, consegnandone alla storia solo
l’aspetto plumbeo».
Insomma, formidabili no, ma quasi. Chissà. Di certo, è passato meno di mezzo secolo, ma sembra già archeologia.