il manifesto 7.9.16
Lo spirito di un’utopia
Venezia
73. Con «Assalto al cielo» - fuori concorso - Francesco Munzi racconta
come ha voluto far rivivere il movimento. Storie per immagini
dall'Istituto Luce, Cineteca di Bologna e Fondazione Grifi dal '68 al
'77
di Silvana Silvestri
VENEZIA
Ogni lettore del manifesto che è uno dei pochi luoghi di resistenza
ancora presenti nella nostra società, avrà una diversa lettura del film
Assalto al cielo di Francesco Munzi (fuori concorso) a seconda della sua
personale esperienza di quegli anni, e così sarà per tutti gli altri
compagni che hanno fatto politica dal ’68 al ’77, dalle manifestazioni
per il Vietnam a Parco Lambro
Questo è il
periodo scelto dal regista di Saimir e Anime nere (nato nel ’69, da
bambini dice, giocavamo a poliziotti e brigatisti) «non volevo cadere
nel film storico, è un periodo pieno di contraddizioni, ci dice, dove è
impossibile toccare tutti gli argomenti. Volevo raccontare il sentimento
di quegli anni».
Non ci sarà mai un film
che possa veramente raccontare lo spirito di quegli anni che non sia il
cinema underground: il racconto televisivo, la narrazione con personaggi
e intrecci appartengono a un’altra epoca, quella precedente o quella
molto successiva che ha cercato di catturarne qualche elemento. Una
società come questa dalle immagini tanto frammentate ci sembra in
sintonia il film di Munzi che è andato alla ricerca dei materiali meno
manipolati dai commenti, il più possibile girati dagli stessi cineasti
(pochi e ben conosciuti) che partecipavano al movimento.
Utilizza
senza voce fuori campo, materiali spesso inediti del Movimento operaio e
democratico, Luce, Cineteca di Bologna o della Fondazione Alberto Grifi
per il Parco Lambro (girati in videotape mentre i tre rulli in
pellicola dovrebbero essere presto restaurati) e delle teche Rai che lì
aveva i suoi operatori.
Potrebbe sembrare
impossibile raccontare dieci anni di movimento in un’ora di montaggio,
ma i diversi spettatori ne faranno un uso differente, dal ricordare i
volti conosciuti o quelli scomparsi, a collegare le scene mancanti a
stupirsi di fronte a tanto fervore oggi che domina il disgusto per la
politica. Erano anni più di parole che azioni, oltre al fatto che
nell’ottica di un operatore il lancio di una pietra vale più di un
discorso (e dove saranno finiti quei fiumi di parole?).
Il
regista ci dice: «Ho voluto seguire il tema dell’utopia dell’assalto al
cielo, lo slancio vitale che in seguito si frantumerà in mille rivoli e
poi arriva al ’77, quelli della lotta armata. Non volevo che questo
tema prendesse il sopravvento. Il film segue la cronologia, si permette
di lasciare buchi, prova a guardare con il ritmo di quel tempo. Manca la
voce narrante, l’abbiamo trovata nel ritmo del montaggio».
Gli
chiediamo se crede che possa arrivare agli spettatori più giovani: «Ho
voluto mettere un ponte con l’oggi, nel senso che vorrei fosse trasmessa
quell’utopia oggi che la politica significa corruzione. C’è attenzione
da parte dei giovani che lo hanno visto, è come se avessero visto per la
prima volta piazza Fontana o Brescia. Questo significa che siamo a
corto di memoria. Ho avuto bisogno di tornare alla fonte, di tornare ai
documenti».
Pensiamo alla maniera con cui
all’epoca vedevamo passare in televisione spezzoni di riprese, in cui i
fatti venivano stravolti, ridotti in seguito a frammenti inutili (ed è
il motivo per cui Grifi aveva sempre avuto il controllo totale del suo
materiale). In questo caso Munzi dà un’impronta autoriale che individua
momenti chiave, discorsi non interrotti: «Mi sembra uno strumento che
serve a riportare all’attenzione questa materia, ho avuto bisogno di
tornare alla fonte, tornare ai documenti. Ho scelto il materiale più
forte cercando di farlo respirare».
Nel
corso del film, diviso idealmente in tre parti, ci sono cartelli che
suggeriscono di fermare la proiezione e aprire il dibattito: «Li abbiamo
trovati nei filmati e sono stati montati lì non a caso: uno è stato
posizionato dopo Piazza Fontana, l’altro dopo il forte intervento dei
genitori di Walter Alasia».