il manifesto 7.9.16
La sinistra sotto le macerie e la libertà del futuro
Morte
della politica. Solo scampoli di vecchi rancori e slogan ripetuti. Ma
non è morta la politica. Anzi, bisogna fare l’operazione opposta a
Fukuyama: spostare lo sguardo su ciò che può cominciare
di Bia Sarasini
Tutto
è politico, anche il terremoto, come è visibile ora, dopo i giorni di
silenzio e di lutto dovuti al dolore e alla tragedia. Sono politiche le
scelte, le prospettive, i progetti realizzati e quelli mai iniziati, le
speranze e perfino la corruzione. Per questo mi lascia perplessa parlare
di morte della politica. Mentre certamente è stata consumata una fine,
la fine di una forma politica che a lungo abbiamo chiamato sinistra, e
che comprende un insieme variegato di organizzazioni, sigle, pratiche,
anche movimenti, oltre che un linguaggio e una visione del mondo. Una
fine non riconosciuta, continuamente rinviata e posticipata, e per
questo sì, trasformata in una cristallizzazione di parole, di pratiche
che non dicono più nulla, neanche a chi le perpetua con ostinazione.
Peggio di una morte, per essere chiara, perché ci si è incaponiti a non
nominarla, non vederla, e senza riconoscimento non si può elaborare il
lutto, tutto si è trascina con sempre minore slancio, con nulli o quasi
effetti visibili. Rimangono il rancore, le infinite accuse reciproche,
la ripetizione di riti e comportamenti vuoti, parodie del potere che non
c’è.
La novità è che ora, forse perché non
c’è più nulla da smuovere, non ci sono più obiezioni e resistenze. Il
rischio caso mai è il contrario. Confondere questa fine con la fine di
tutto, della politica tout court. In un certo senso l’operazione opposta
a quelle di Francis Fukuyama, quando nel 1992 proclamava la fine della
Storia a fronte della caduta del muro di Berlino e della conseguente
vittoria del capitalismo. Perché ha senso contemplare una fine, se si
sposta lo sguardo su ciò che può cominciare. Altrimenti si tratta di una
resa senza condizioni. E si lascia il campo a chi della cecità, e della
confusione che ne è derivata, ha tratto il massimo profitto. In tutti
sensi possibili. Economico e politico.
Un
aspetto della complessità è che il fantasma della sinistra continua ad
esistere, nello scenario politico italiano. Viene identificato con il Pd
che pure, fin dalla sua nascita, da quando fu detto che lavoratori e
imprenditori ne erano referenti allo stesso titolo, ha abbandonato la
ragion d’essere di un partito di sinistra, anche moderato. La difesa
della parte più debole della società, la lotta contro le ingiustizie.
L’insieme del corpo politico di quel partito, e della società, in prima
linea il sistema dei media, hanno assecondato il rovesciamento del campo
del riformismo, bandiera nobile di una delle forme della sinistra.
Altro che difesa dei deboli.
L’efficienza,
la redditività assunte come valori unici hanno aperto la strada a
politiche a sostegno delle esigenze di multinazionali e banche. Le
riforme sono diventate ciò che favorisce il potere, l’establishment.
L’inquinamento del linguaggio è una malattia grave: parole, idee, cose
non dicono più ciò che dicevano. È in questa battaglia che la sinistra
alternativa/radicale è stata spazzata via, una vicenda che andrebbe
ripensata con attenzione e che non è solo il risultato di un’operazione
mediatica. Nel contesto di un cambiamento di segno che ha investito le
socialdemocrazie europee. Senza dimenticare i segni di inversione, basti
pensare alle tensioni del Labour Party, con Corbyn corpo estraneo
all’establishment blairiano, o alle scelte di rottura dei partiti
socialisti rispetto alle grandi alleanze in Portogallo e Spagna,
quest’ultima una partita tuttora aperta. In Italia Renzi ha
radicalizzato la fisionomia del Pd, con una significativa torsione verso
il centro, unita a una tensione al potere personale. Molto in sintonia
con i progetti dell’establishment internazionale, come è evidente
nell’intreccio tra Italicum e la de-forma costituzionale.
Qui
si colloca la fine della sinistra. Quella popolare, di massa, quella
alternativa, che pur divise anche ferocemente, hanno una lunga storia
comune di scambi vitali che hanno segnato la società, hanno portato i
risultati che hanno cambiato la vita dei lavoratori, delle donne, dei
più poveri. Quei risultati che ora sono attaccati uno ad uno. A
cominciare dalle condizioni di vita dei più giovani. La domanda è
questa. Perché le sofferenze sociali, sempre più estese e insostenibili,
non trovano una voce adeguata? Perché gli 11 milioni di italiani che
hanno deciso di rinunciare a curarsi, di fronte a un sistema sanitario
sempre più costoso, non sono al centro delle nostre battaglie? Perché il
Jobs Act, che pure è stato ampiamente criticato, è passato nel
sostanziale silenzio sociale?
Una prima
risposta, dolorosa, ritengo sia in quella fine non consumata, che ha
reso teatrali e sempre più vuote le proteste. Non conflitto reale, ma
messa in scena del conflitto. E forse per quel punto di cui ha scritto
Enzo Scandurra su questo giornale: che si è finito per assomigliare, nei
comportamenti e nei pensieri, a quel potere a cui ci si opponeva. Non
bastano l’invocazione della legalità, la lotta anti-casta, le idee che
guidano il Movimento 5stelle, a dare una visione del mondo. Movimento
che occupa lo spazio dell’opposizione, e che viene votato da chi ancora
va a votare, perché ha una forza ritenuta comunque utile.
Con
onestà va detto che una visione non è a portata di mano. E non ci sono
ricette taumaturgiche. Non c’è un re che possa imporre la mano e guarire
il popolo malato. Due punti mi sembrano chiari. Occorre comprendere,
conoscere, interpretare lo stato delle cose. Quello attuale, in tutte le
sue dinamiche. Cioè occorre studiare, riflettere, pensare. Lo so,
sembra assurdo quando ciò che urge è l’azione. Ma su cosa agire, e come?
Al di là delle denunce, delle polemiche ci siamo chiesti, per esempio,
perché il corpo delle donne si trova al centro dello scontro politico
internazionale?
Quale rovesciamento, del
progressismo e dei femminismi, è in corso? A quale lavoro, quale
rendimento, sono chiamati i corpi, le relazioni affettive, compresi
piaceri e depressioni? Insomma, sappiamo a quale disegno sociale ci si
oppone? Abbiamo gli attrezzi giusti? L’altro punto è praticare il
realismo e la generosità delle battaglie. Uno dei modi per ostinarsi a
non riconoscere la fine, e quindi occultare la decomposizione in corso, è
rinchiudersi nei propri ambiti. Movimenti, associazioni, gruppi. Donne,
uomini, generi diversi. Un passo necessario è uscire da sé, guardarsi
intorno. E scegliere insieme. Penso al referendum costituzionale. La
vittoria del No non risolve i problemi specifici, è ovvio. Ma permetterà
di affrontare con forza, e quadro istituzionale non compromesso, ogni
battaglia.