martedì 6 settembre 2016

La Stampa 6-9.16
Boschi: l’Italicum può cambiare ma è slegato dal referendum
“D’Alema? Vogliamo aggiustare le storture del titolo V voluto dalla sua riforma”
di Jacopo Iacoboni

«Non mi pare proprio che la Cgil abbia detto che voterà no, come dice D’Alema. Alcuni voteranno sì e altri no. Cosi come dentro l’Anpi ci sarà chi legittimamente voterà no e chi voterà sì come il comandante “diavolo” in Emilia Romagna per esempio e tanti altri partigiani che ho incontrato da Milano a Padova e che ci dicono andate avanti, vi sosteniamo». Maria Elena Boschi sta girando l’Italia per sostenere il sì al referendum sulla riforma costituzionale. È stata a Milano e poi a Torino. Ieri mattina ha visitato il museo della Stampa, poi ha partecipato a un forum on line nella nostra redazione, con le domande dei lettori. Non si tira indietro dinanzi alla sfida polemica dell’ex premier.
E cosa risponde, ministro, all’accusa di D’Alema di essere sostenuti solo da Confindustria e dai poteri economici?
«Sicuramente pezzi importanti della nostra società, del mondo della cultura e anche dell’ economia stanno sostenendo il sì. Da confindustria a Coldiretti, da Cna a Confcooperative o Confartigianato. Non perché parteggino per un partito o un altro o per simpatia verso il governo, ma perché hanno a cuore il futuro dell’Italia. Ma soprattutto ci sono oltre tremila comitati spontanei, nati ovunque in Italia. Tante donne e uomini appassionati che vogliono davvero dare una mano a cambiare il Paese e magari aggiustare anche le storture del titolo V voluto dalla riforma firmata da D’Alema».
Ministro, nella riforma il Senato è ridotto ma non abolito; resta il palleggio tra due Camere su materie importanti, che può essere sciolto solo da un accordo tra i presidenti delle Camere. Una situazione che rischia di complicare, anziché semplificare, le istituzioni?
«Il Senato resta, indubbiamente. Anche perché c’erano delle proposte per abolirlo del tutto ma non c’erano i voti. E se non ci sono i voti, quelle proposte non possono passare. Non è la riforma perfetta ma è un grande passo in avanti. Oggi se vogliamo approvare una legge non sappiamo quanto tempo ci vorrà. Spesso servono anni, e nel frattempo non rispondi ai bisogni dei cittadini. Noi abbiamo bisogno di un sistema più veloce e più semplice. La Costituzione tedesca è il modello a cui ci siamo ispirati, e prevede un Senato dei territori che ha meno poteri della Camera. Con la nostra riforma, che prevede il superamento del bicameralismo paritario, nella stragrande maggioranza dei casi, è la Camera ad avere l’ultima parola sull’approvazione delle leggi. Il Senato può proporre modifiche, ma non c’è più un continuo ping pong. Restano alcune leggi su cui il Senato ha competenza, ma sono pochissime e indicate in modo puntuale. Per esempio le leggi costituzionali».
C’è un’ambiguità di fondo su come saranno scelti i senatori. Saranno “designati” o saranno “eletti”? Andrà scritta una legge elettorale ad hoc per il Senato, ma sarà molto problematico.
«I nuovi senatori saranno consiglieri regionali e sindaci. E loro sono eletti dai cittadini, non nominati. All’interno dei consiglieri e dei sindaci, si dovrà decidere chi andrà a rappresentare il territorio in Senato. Ed è vero che saranno i consigli regionali a dover stabilire chi, ma in conformità a quello che i cittadini voteranno quando si vanno a rinnovare i consigli regionali. Servirà una legge elettorale che questo Parlamento dovrà approvare per il nuovo Senato. Nel frattempo c’è comunque una norma transitoria di chiusura del sistema, perché possa funzionare comunque la riforma fin tanto che non sarà approvata la legge sul nuovo Senato. Io però mi auguro che possa essere approvata da questa legislatura come ci siamo impegnati a fare. Un Senato che rappresenta i territori simile a quello disegnato dalla riforma esiste anche in altre importanti democrazie, Germania, Austria, Francia, per esempio».
In alcuni dei Paesi che cita prevale però una rappresentanza proporzionale.
«In quello tedesco; dove però il voto in Senato è un voto comunque bloccato per ogni singolo stato federale».
E il problema dell’Italicum? L’accoppiata tra riforma costituzionale e questa legge elettorale, che assicura un Parlamento di nominati, non produce un impoverimento della ricchezza democratica?
«Non sono d’accordo. Anche perché questa legge elettorale potrebbe cambiare nel tempo e nel rivedere la Costituzione non possiamo esser vincolati a una specifica legge elettorale. Io sono convinta che sia meglio una legge maggioritaria come l’Italicum. Guardiamo alla Spagna: tre poli, e senza ballottaggio. Cosa è successo? Sono dovuti andare a votare due volte in un anno, sono piombati nella instabilità e incertezza. Ciò detto, la legge elettorale è ovviamente nella disponibilità del Parlamento, che può decidere di cambiarla in qualunque momento. È importante però sottolineare che è slegata dal referendum. Al referendum non si voterà sulla legge elettorale. Anzi, se vince il sì la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sull’Italicum».
Però anche Sabino Cassese, eminente sostenitore del sì, non si nascondeva i rischi plebiscitari del referendum “confermativo”.
«Il referendum confermativo è uno strumento previsto dalla nostra Costituzione. I costituenti furono così saggi e intelligenti da prevedere un meccanismo per modificare la costituzione nel tempo e noi ci siamo limitati a rispettare e applicare l’articolo 138 che prevede proprio la procedura di revisione costituzionale. In passato altre riforme hanno pensato di superare il 138, di usare strumenti più semplici. Noi no. Secondo questa procedura 500mila cittadini possono chiedere il referendum confermativo della riforma se in Parlamento si raggiunge solo la maggioranza assoluta dei voti. Il comitato del sì, a differenza di quello del no che non ci è riuscito, ha raccolto le 500mila firme perché la parola finale spettasse ai cittadini. Del resto, anche quando c’erano i numeri in Parlamento per evitare il referendum perché Lega e Forza Italia avevano appoggiato la riforma, nella prima fase e c’erano i due terzi (Calderoli era addirittura relatore), noi abbiamo sempre detto che avremmo comunque chiesto il referendum».
Non c’è stata una personalizzazione del referendum dovuta a quello che ha detto Renzi, quando legò moltissimo le sorti del governo - e persino, a un certo punto, la sua carriera personale - all’esito del referendum? Non è stato un errore?
«Noi abbiamo accolto il suggerimento e l’invito a non personalizzare il referendum. Infatti a partire dal presidente del consiglio abbiamo detto “non parliamo più di cosa succede di ciascuno di noi se vince il no”. Noi vogliamo Parlare di cosa succede all’Italia se vince il sì. Se vince il sì si riducono di un terzo i parlamentari, nessun consigliere regionale guadagnerà più di un sindaco, non ci sarà più un centesimo che dallo stato andrò ai gruppi in regione. Se vince il no continueremo ad avere quasi mille parlamentari e tutti gli sperperi dei gruppi consiliari in regione, e magari i vari Fiorito e Belsito del caso».
Saper fare un’autocritica ogni tanto vi può anche rafforzare, no?
«Abbiamo tutto l’interesse che si parli dei contenuti, e non parliamo più dei destini personali. Mi pare che altri ora stiano personalizzando, come ad esempio il professor Zagrebelsky.
Zagrebelsky ha detto che se vince il sì non insegnerà più diritto costituzionale…
«Credo che l’invito a non personalizzare possa valere per tutti. Poi penso anche che chi fa politica debba anche sapere che non si fa politica per tutta la vita. E le nuove generazioni devono anche abituarsi all’idea che si può lasciare la politica, se necessario. Però direi che questo è un problema che ci porremo dopo aver vinto il referendum».
Ministro, venite giudicati giorno per giorno anche per tante altre cose. Lei sul Fertility day come iniziativa cos’ha pensato?
«Anche la ministra Lorenzin ha riconosciuto che la campagna di comunicazione era sbagliata e ha detto che la cambierà. L’obiettivo era giusto: informare le donne sui rischi di alcune malattie per la fertilità. Ma quella campagna rischiava di essere fraintesa e di sembrare offensiva nei confronti di alcune donne».
A proposito di diritti: lei molto spesso è stata bersaglio di attacchi odiosi, come una vignetta uscita di recente sul Fatto. Ma ci sono poi casi di satira, pensavo al caso del programma di Francesca Fornario, a cui è stato chiesto in Rai di non fare satira sulla politica o sul premier. Sarebbe importante se lei dicesse qualcosa su questo.
«C’è una satira che è molto divertente. penso a Virginia Raffaele, che fa la mia imitazione, ed è talmente brava che sono stata anche a vederla a teatro. Alcune vignette, titoli o frasi rischiano invece di non aver niente a che vedere con la satira ma di essere solo offensivi e di dare una immagine sbagliata soprattutto alle ragazze. Non parlo di me, chiaramente, che ormai sono una donna adulta e fortunata. Ma se facciamo passare l’idea che una donna, per andare avanti in politica come in qualunque altra professione, deve essere perfetta fisicamente, essere una specie di modella, magari facciamo un danno a tante ragazze un po’ più piccole e ancora fragili. Pensiamo a tante ragazze di 16 o 17 anni che magari sognano di impegnarsi in politica e che sono dissuase dai messaggi sbagliati che arrivano. Su questo dobbiamo fare tutti una riflessione».