martedì 6 settembre 2016

La Stampa 6-9.16
Riforme, duello di contenuti e di leadership
di Marcello Sorgi

La campagna elettorale per il referendum costituzionale si apre con lo scontro, simbolico oltre che personale, tra la ministra Boschi che ha dato il nome alla riforma e l’ex-premier D’Alema. Intrepida, lei, nel fronteggiare il leader della sinistra (e del «No») che l’altra sera, alla Festa nazionale dell’Unità di Catania, ha fatto impennare l’applausometro e ha dimostrato di avere ancora un forte seguito nella base democratica.
È durissimo, lui, nell’affermare che una riforma come quella voluta da Renzi, se promossa nelle urne e combinata con il meccanismo della nuova legge elettorale, introdurrebbe in Italia un sistema autoritario, vale a dire il contrario di ciò per cui, con tutti i suoi limiti, è nata la Costituzione del ’48, dopo la caduta del fascismo.
Fa una certa impressione, va detto, vedere D’Alema in questo suo nuovo ruolo. E non solo perché, seppure nel momento di bassa fortuna politica conseguente alla rottamazione di cui è stato forse la vittima più eccellente, conserva ancora il carisma dei vecchi leader comunisti del secolo scorso. Ma perché, oltre ad aver guidato il partito e il governo, D’Alema, esattamente venti anni fa, come presidente della Commissione Bicamerale per le riforme (non l’unica, ma certamente la più dotata di poteri della trentennale storia delle riforme) fu protagonista di uno dei tentativi di cambiamento della Costituzione che più di altri si avvicinò alla riuscita, pur essendo naufragato, proprio in dirittura d’arrivo, nel fallimento di quel «patto della crostata» siglato a casa di Gianni Letta, davanti a una torta preparata dalla moglie Maddalena, per un improvviso ripensamento di Berlusconi. Malgrado il destino della riforma a quel punto fosse segnato, D’Alema non si rassegnò e propose, in extremis, cercando l’appoggio della destra non berlusconiana, un inedito sistema «bimotore», con un assetto istituzionale che prevedeva l’elezione diretta e popolare sia del Presidente della Repubblica che del capo del governo, e per fortuna di tutti non vide mai la luce. Non è facile infatti immaginare cosa sarebbe potuto accadere nel passaggio tra l’attuale Costituzione fondata tutta (e perfino troppo) su pesi e contrappesi tra i diversi poteri, in cui il premier, anche dopo aver vinto le elezioni, deve ottenere un mandato dal Capo dello Stato e trovare la fiducia del Parlamento, e una nuova Carta in cui i due principali vertici dello Stato sarebbero stati dotati dello stesso fortissimo sostegno popolare e avrebbero potuto brandirlo uno contro l’altro, con un controllo parlamentare che sarebbe diventato men che formale. Ma certo, i rischi di autoritarismo che D’Alema paventa oggi per la riforma Boschi sarebbero inevitabilmente stati maggiori.
Ora, sul fatto che la Costituzione parzialmente rinnovata, con il ridimensionamento del Senato, il rafforzamento del governo centrale a dispetto delle Regioni e la cancellazione di enti inutili come il Cnel, sia imperfetta e passibile di critiche, non ci piove. Come tutte le leggi e più di tutte è frutto di un compromesso parlamentare che ha visto alternarsi ben sei votazioni in due anni e diverse maggioranze (con e senza Berlusconi, con e senza pezzi di sinistra dissidenti sostituiti da pezzi di destra dissidenti), fino all’approvazione finale e alla conclusione di un iter che non a caso si chiama «aggravato», perché proprio la Costituzione prevede che sia difficile cambiare se stessa e richiede almeno quattro votazioni concordi sullo stesso testo. Ma è anche vero che i principi della riforma - riduzione del numero dei parlamentari, eliminazione del bicameralismo perfetto, rinvigorimento del ruolo del premier - fossero contenuti anche in precedenti tentativi di adeguamento costituzionale, di sinistra e di destra, degli ultimi anni.
La campagna appena cominciata, dunque, non c’è da farsi illusioni, sarà tutta politica. Per quanto Renzi, Boschi e gli altri membri dell’esecutivo si adoperino (anche per correggere un errore iniziale) a diluire, spersonalizzare, addolcire i motivi di contrasto, la partita riguarda il governo. Ha voglia a dire che Renzi non si dimetterebbe di fronte a una vittoria del «No». Mettiamo pure: ma quanto potrebbe resistere?
C’è però un altro elemento di merito che non va sottovalutato: D’Alema e altri esponenti dello schieramento del «No» sostengono che una volta bocciata la riforma Boschi se ne potrà sempre fare un’altra migliore. È sbagliato. E non perché in linea teorica un altro progetto non possa essere preparato o discusso. Ma un progetto che riguardi gli stessi punti, dopo l’eventuale bocciatura popolare, no. Perché non può essere ignorato che il referendum che sarà celebrato a novembre o a dicembre è il primo dopo il Brexit. E mentre tutti sollecitano il Regno Unito a trarre le conseguenze del voto di giugno, sarebbe fuori dalla realtà, in Italia, archiviare il voto sulla Costituzione come se nulla fosse o darne un’interpretazione flessibile, indifferentemente, all’italiana, come altre volte è avvenuto in passato, ad esempio per la responsabilità dei giudici o il finanziamento dei partiti. Anche per noi, quel tempo è passato una volta e per tutte.