La Stampa 5.9.16
Quando il pil non ferma l’ultra destra
di Stefano Stefanini
I
brividi del voto in Meclemburgo-Pomerania hanno rapidamente
attraversato lo schermo tedesco ed europeo. Quand’anche i risultati
definitivi ridimensionassero gli exit poll, il verdetto è chiaro. Un
partito populista di destra, Alternativa per la Germania (Afd),
inesistente nel 2011, raccoglie intorno al 20% dei suffragi e gareggia
per il secondo posto con la Cdu, dopo aver sottratto voti a tutto lo
spettro politico.
Da tempo Angela Merkel è il pilastro che regge e
tiene insieme l’Europa e fa da argine contro la montante marea di
euroscetticismo populista. Nell’Ue ha conosciuto anche battute
d’arresto. Brexit avviene suo malgrado, con non poco rincrescimento.
Tuttavia è riuscita a tener ferma la barra europea e internazionale (ad
esempio sulle sanzioni alla Russia) anche e soprattutto perché la sua
forza in casa tedesca era fuori discussione. La Germania è il Paese
leader d’Europa; Merkel la leader in Germania: equazione perfetta,
adesso incrinata.
L’ondata populista arriva così a colpire il
baricentro dell’Europa. Non è più confinata ai partner orientali di
Visegrad. Non è più una minaccia solo per la Francia. Non si accontenta
della presidenza in Austria, dove si rivota fra pochi giorni. Non permea
soltanto il no all’Ue del referendum britannico.
Il momento in
cui il populismo diventa una forza politica di tutto rispetto in
Germania compromette la tenuta dell’Unione Europea, se non la stabilità
dell’intero continente. Se il centro non tiene l’intera costruzione
traballa.
Il successo di Afd dimostra che le radici del populismo e
dell’euroscetticismo non sono strettamente economiche. In Germania
l’economia tira. Pertanto, com’è stato osservato incisivamente al Forum
Ambrosetti, la risposta non può essere la crescita del Pil. Il problema è
piuttosto che larghe fasce della popolazione non se ne sentono
beneficiarie. Per vincere le elezioni non basta più lo slogan che portò
Bill Clinton alla Casa Bianca nel 1992: «E’ l’economia, stupido». Non è
solo l’economia, è l’inclusione.
I governanti europei devono
pensare rapidamente, e attuare efficacemente, le risposte alle
preoccupazioni della famosa «gente comune» che poi decide le loro sorti
alle urne. Sanno benissimo quali siano: in testa immigrazione e,
soprattutto fra i giovani, insicurezza economica. Queste ansietà
innescano una potente molla identitaria nazionale che respinge
globalizzazione ed europeismo.
Su queste reazioni l’Unione Europea
dovrebbe imparare a muoversi in punta dei piedi. L’Ue è avvertita come
parte del problema anziché della soluzione per due motivi: perché non
risolve i grossi nodi che assillano i cittadini (immigrazione,
occupazione, debito greco ecc.); perché pretende d’imporre un’uniformità
che stride con l’attaccamento alle diversità nazionali. Si dimentica
che la situazione sarebbe peggiore se l’Ue non ci fosse.
Le
intenzioni dell’Ue sono buone; il risultato disastroso: Bruxelles riesce
a trasformare in oppositori anche ambienti alleati o neutrali.
Quest’estate gli stabilimenti balneari italiani hanno inalberato l’Union
Jack, in solidarietà con Brexit, per protestare contro l’imposizione di
regole europee sul rinnovo delle concessioni. Folklore certo, ma quando
mai gli operatori turistici italiani erano stati contro l’Europa?
La
gente ritrova sicurezza nell’ancorarsi alle radici culturali,
linguistiche, consuetudinarie della nazione o della regione. Non è un
caso che, ancor più che in passato, le Olimpiadi di Rio siano state
accompagnate dovunque da un fortissimo tifo, persino commozione, per i
colori di bandiera.
La riscoperta identitaria appare banalmente
nostalgica alle élites; è rassicurante per il grande pubblico.
Dall’innocuo risveglio di sentimenti nazionali al nazionalismo delle
rivalità ostili il passo è però breve. L’uno non scuote la costruzione
europea, anzi l’arricchisce; il secondo la distruggerebbe. Le forze
politiche come Alternativa per la Germania e Fronte Nazionale si
collocano a cavallo di questo valico.
Il populismo antieuropeo
riporta purtroppo in auge un nazionalismo di stampo novecentesco, con
tinte di xenofobia anti-immigratoria. Lo credevamo esorcizzato grazie
all’integrazione europea. Le urne dei prossimi quattordici mesi diranno
se l’Europa è capace di fermarlo o se l’immunità dal virus era solo
apparente.
Una rondine non fa primavera, specie a settembre. Un
Land non è lo specchio della Germania. Spesso i risultati regionali
vengono sopravvalutati. Markel rimane la figura politica più popolare.
Le elezioni federali sono un’altra cosa. Nello stato di fluidità
instabile dell’Europa e del mondo da qui all’autunno del 2017 scorre
un’eternità politica. Non è troppo tardi per fermare la resistibile
ascesa dell’ondata populista.