La Stampa 29.9.16
Bimbi a scuola di resilienza
per resistere ai colpi della vita
Dalle catastrofi naturali agli attentati e alle guerre
Alla Cattolica un corso per insegnare la forza d’animo
di Sara Ricotta
Viviamo
in un mondo ferito che ha bisogno più che mai di resilienza. La parola è
stata parecchio di moda, ma oggi tra catastrofi naturali, guerre,
attentati la si riscopre nella sua concretezza. All’università Cattolica
di Milano le hanno dedicato addirittura un’Unità di ricerca, il RiRes
(Unità di ricerca sulla Resilienza), e i suoi formatori e psicologi
vengono sempre più spesso chiamati sul campo ad aiutare a superare
traumi di ogni tipo per ricominciare. Il termine - come è noto - viene
dalla proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi e
in psicologia diventa la capacità di riprendersi da situazioni
altrimenti insostenibili.
«La metafora che meglio la spiega è la
cicatrice: permette di chiudere una ferita aperta e nel contempo
mantiene traccia del trauma subito, consentendo di guardarlo», spiega
Cristina Castelli, direttore del RiRes e docente di Psicologia alla
Cattolica di Milano. «Questa unità di ricerca è nata nel 2013 a seguito
degli interventi che abbiamo fatto in Sri Lanka dopo lo tsunami». Da
quell’evento terribile è nata l’esigenza di organizzare un pensiero più
sistematico per capire quali siano i più importanti fattori di rischio e
di protezione per la psiche.
L’unità di ricerca ha promosso studi
e realizzato strumenti di intervento che da anni vengono sperimentati
in Italia e all’estero. A seguito di terremoti e maremoti lo staff ha
lavorato in Sri Lanka, ad Haiti e poi in Abruzzo ed Emilia Romagna.
Oggi, a seguito delle guerre in corso, è presente nei campi profughi
siriani in Libano e ha supportato anche chi lavora con i migranti in
transito a Milano.
«Noi interveniamo a ridosso di eventi che
mettono le persone in condizioni di vulnerabilità», spiega la
professoressa Castelli, che con la sua unità forma «tutori di
resilienza», cioè educatori, psicologi e mediatori culturali che
sappiano risvegliare nella persona le capacità da mettere in atto per
superare una specifica difficoltà e adattarsi a una nuova realtà. «La
finalità è dare significato e senso a quello che è capitato e fare forza
su di sé per superarlo, che non vuol dire dimenticare, ma
cicatrizzare».
Si parla sempre di catastrofi, ma ognuna è diversa e
diverso dev’essere anche l’intervento. Ad Haiti, per esempio, il
terremoto era qualcosa che non era più nella memoria della popolazione,
visto che l’ultimo si era verificato nel ’600. Così la gente, anche
influenzata dalla tradizione animistica, ha cominciato a pensare che
fosse una punizione di Dio con un conseguente senso di colpa. In quel
caso, quindi, i «tutori di resilienza» per prima cosa hanno dovuto
spiegare l’evento naturale. Poi sono intervenuti con metodologie
diverse. Trattando soprattutto con minori, lavorano molto con la musica,
il teatro, le fiabe. Queste ultime, infatti, contengono sempre un
elemento catastrofico o un cattivo, ma alla fine si supera l’ostacolo e
c’è sempre un finale positivo.
Oggi, con il pericolo attentati,
non sono solo i bambini in zone di guerra ad avere bisogno di «tutori di
resilienza» e il RiRes si sta attrezzando a questa nuova emergenza che
tocca adulti e occidentali. «Ormai il nemico è dappertutto - spiega
Castelli - ma anche in questo caso lo sforzo dev’essere ideato per dare
senso; noi siamo fatti di cuore e di pensieri, non dobbiamo lasciare che
la “pancia” prenda il sopravvento».
La resilienza, del resto, non
è una novità e una volta la si chiamava «forza d’animo». «Anna Oliverio
Ferraris le ha dedicato un bel libro (“La forza d’animo”, Bur), utile
per attrezzarsi; tutti possiamo costruirla o consolidarla con il
pensiero e il ragionamento, altrimenti siamo disorganizzati nei
confronti della realtà».