La Stampa 29.9.16
Aiutare i migranti a casa loro? Funziona, ma solo in parte
di Alberto Mingardi
L’Unione
europea stanzierà 88 miliardi per lo sviluppo dell’Africa e del Medio
Oriente. Elite di governo e piazze arrabbiate per una volta sono
d’accordo: aiutiamoli, sì, ma a casa loro. L’idea ha una sua
plausibilità. Se la situazione nei Paesi di provenienza fosse meno
disperata, i migranti sarebbero meno propensi a mettere a repentaglio
tutto quel che hanno, per il sogno di raggiungere l’Europa.
Il
problema è che, in Europa o in Nord Africa, la crescita è sempre più
facile a dirsi che a farsi. Il dibattito sugli aiuti allo sviluppo è
iniziato dopo la seconda guerra mondiale, con la decolonizzazione. La
logica per cui i trasferimenti di denaro dai Paesi sviluppati dovesse
«aiutare» quelli che sviluppati non erano affonda le sue radici
nell’idea di «appropriazione originaria». Per Marx, la borghesia aveva
«accumulato» capitale per generazioni, prima che questo potesse dare
origine alle innovazioni della Rivoluzione Industriale. Il foreign aid
avrebbe dovuto costituire una versione accelerata e concentrata dello
stesso fenomeno.
«Possedere denaro è il risultato dell’attività
economica, non la sua precondizione». A notarlo fu un economista
empirico della London School of Economics, Peter Bauer, che sfidò il
consenso dominante. Per Bauer, «se sono presenti tutte le condizioni
necessarie allo sviluppo, tranne il capitale, quest’ultimo verrà presto
generato localmente, oppure le autorità o i soggetti privati potranno
ottenerlo dall’estero a condizioni di mercato (…) Se, invece, le
condizioni necessarie allo sviluppo non sono presenti, gli aiuti
risulteranno necessariamente improduttivi e, pertanto, inefficaci».
Gli
aiuti da-governo-a-governo sono intermediati dalle istituzioni
pubbliche. Ma in Paesi in cui non c’è certezza del diritto, i contratti
sono carta straccia e la proprietà privata è considerata «a
disposizione» del governante pro tempore, neanche la manna dal cielo
riesce a innescare lo sviluppo. Al contrario, gli aiuti possono avere
effetti perversi. William Easterly, economista della New York University
con un passato alla Banca Mondiale, ha più volte sottolineato il
problema. Il suo ultimo libro, «La tirannia degli esperti», è un
j’accuse alla visione «tecnocratica» della crescita economica, esportata
dalle grandi istituzioni internazionali. Per avere crescita non basta
azionare le leve giuste: istituzioni e cultura sono di importanza
cruciale e tendono ad evolversi lentamente.
Sugli aiuti allo
sviluppo ha espresso grande scetticismo anche Angus Deaton, Premio Nobel
per l’Economia nel 2015. Nel suo ultimo libro, Deaton parla di una «aid
illusion», «l’errata convinzione che la povertà del mondo potrebbe
essere eliminata se solo i ricchi - o i Paesi ricchi - dessero più soldi
ai poveri o ai Paesi poveri». Per Deaton, il dramma è che ogni tanto le
buone intenzioni finiscono per consolidare regimi liberticidi.
L’esempio più chiaro è lo Zimbabwe di Mugabe, dove ancora nel 2010 il
10% del Pil proveniva da aiuti allo sviluppo. Ma è la natura stessa del
foreign aid ad essere paternalistica se non anti-democratica. «I
donatori decidono questioni che dovrebbero essere lasciate ai loro
beneficiari. I politici dei Paesi donatori - persino i più democratici -
non hanno titolo per dire se in Africa sia il caso di dare alla lotta
all’Aids una priorità più alta che all’assistenza pre-natale».
L’economista
«di sinistra» Deaton cita con approvazione l’economista «di destra»
Bauer, ma tiene aperto uno spiraglio. Aiuti fortemente «selettivi»
potrebbero funzionare meglio: «Si potrebbe esigere che, prima di
chiedere sostegno, i governi assistiti dimostrino il proprio impegno ad
attuare politiche che vanno a beneficio della popolazione», come fa la
Millennium Challenge Corporation del governo americano. Disegnare
programmi realistici e realizzabili per «aiutarli a casa loro» è dunque
molto difficile. Rendere più difficile per quei Paesi raggiungere
potenziali acquirenti dei loro prodotti invece è facilissimo. Proprio i
populisti che più insistono sull’ «aiutarli a casa a loro» nel contempo
invocano dazi e barriere per proteggere le produzioni agro-alimentari
europee. Sono le stesse forze politiche che hanno protestato per la
decisione di limare i dazi sull’olio tunisino, o che alzano la voce
contro l’accordo col Sud Africa che agevola l’importazione di agrumi.
L’«aiutiamoli a casa loro» è uno slogan che si scontra con il
nazionalismo economico e la prosaica necessità di garantire specifici
gruppi d’interesse.
Investire in “foreign aid” può servire a
ripulirci la coscienza mentre scegliamo di impegnarci in una politica di
respingimenti. Può forse comprare la disponibilità dei loro governi ad
impedire la libertà di movimento dei migranti. Questi sono obiettivi
raggiungibili. Lo sviluppo di quei Paesi, purtroppo, lo è di meno.