martedì 27 settembre 2016

La Stampa 27.9.16
il mercato contro la politica e ha vinto il più forte
di Giovanni De Luna

Non è stato solo un derby Milano-Torino. Quella che è andata in scena è stata una partita in cui i due veri protagonisti - la politica e il mercato - hanno giocato ognuno con le armi che avevano a disposizione e, alla fine, ha vinto il più forte.
Non c’è dubbio: la politica, le istituzioni, gli enti locali come il governo di Roma hanno investito molto sul Salone di Torino. E anche il governo non si è risparmiato, con due ministeri, quelli dei Beni culturali e dell’Istruzione, che, all’inizio del 2016, sono entrati nel consiglio di amministrazione della Fondazione per il Libro. Non era stato un impegno formale. Nella sua lettera di adesione, il ministro Franceschini aveva elogiato «l’alto valore culturale e il costante e diffuso impegno nel campo della vita culturale e editoriale del paese», definendo il Salone «la più importante manifestazione italiana del settore e fra le maggiori a livello europeo». Si aderiva quindi a un progetto, si investiva su un profilo culturale, ci si riprometteva di estendere il modello torinese a livello nazionale.
Ignorando l’impegno del governo gli editori hanno invece scelto una strada diversa, proponendosi senza mezzi termini come interpreti di un mercato alla ricerca ossessiva di nuovi scenari produttivi, di ipotesi alternative per il rilancio commerciale del prodotto libro. L’Aie si è mossa dando l’impressione di una enorme macchina schiacciasassi guidata con ferma determinazione. Tra il 5 e il 7 settembre, mentre i torinesi aspettavano fiduciosi un incontro con Franceschini, Milano si è scatenata: è nata la Fabbrica del Libro spa, poi è arrivato l’annuncio della prima edizione della nuova Fiera, indicando anche le date (19-23 aprile 2017). Corrado Peraboni, amministratore delegato di Fiera Milano, si è detto entusiasta, «il sogno sta diventando realtà».
Quel sogno però è oggi un incubo per Torino e per i suoi sponsor politici, convinti fino all’ultimo che la questione potesse essere risolta attraverso il tipico rituale di un «tavolo di concertazione». Franceschini, Chiamparino e Appendino sono apparsi meravigliati e sgomenti del fatto che gli editori lo avessero rovesciato ancora prima che si fosse riunito. Così che quando il benedetto tavolo c’è stato, non è rimasto altro da fare che prendere atto della scelta degli editori.
Sono questi i rapporti di forza; la politica debole ed estenuata di oggi non è in grado di opporsi agli interessi commerciali che si agitano nel mercato. È una debolezza strutturale, dovuta all’eclisse post-novecentesca della statualità politica; ed è un deficit culturale perché è stata la stessa politica ad alimentare in questi anni il mito di un mercato come il migliore dei mondi possibili, perfetto in sé, che avrebbe dovuto essere lasciato solo libero di esprimersi senza «lacci e lacciuoli».
Sarà bene ricordare però che, per trent’anni, il Salone torinese ha avuto una identità non riassumibile solo nella politica, che non è mai stato solo una passerella di ministri, sindaci e presidenti; con il tempo era diventato una iniziativa carica di una autonoma, esuberante vitalità, con i suoi umori, con una propria fisicità, quasi animalesca. Bastava immergersi nella corporeità delle code e delle calche agli stand e ai dibattiti per capire che in quei giorni il Lingotto si sottraeva alla sua tristezza abituale di «non luogo» per trasformarsi in una calda comunità di libri e lettori. Forse è nel segno di quella vitalità che oggi si possono affrontare anche le sfide più azzardate.