La Stampa 27.9.16
Renzi sfida l’Ue su terremoto, migranti e scuole
“Fuori dal Patto queste spese. Spero di aumentare le pensioni”
Una campagna senza esclusione di colpi
di Marcello Sorgi
Partita
in grande anticipo ed entrata ieri con la fissazione della data nel suo
lungo conto alla rovescia finale, la campagna referendaria per il «Sì» o
il «No» alla riforma costituzionale sarà durissima, senza esclusione di
colpi, come s’è già visto in queste prime settimane di dibattito
pre-elettorale, ma anche dedicata a tutt’altro, che non alla riduzione
del bicameralismo perfetto, al riequilibrio dei rapporti tra Stato e
Regioni e alla cancellazione del Cnel, la cui demolizione è cominciata
ma procede a ritmo lentissimo.
E non perché dal ’48 in poi, quando
De Gasperi e Togliatti si affrontavano a colpi di calci con «scarpe
chiodate» e «comunisti che mangiano i bambini», il tono e gli argomenti
della propaganda in Italia siano sempre stati esagerati, e aggravati,
negli ultimi tempi, da un uso massiccio della tv e della Rete.
Ma
perché, essendo difficile dimostrare che un colpo di Stato e una svolta
autoritaria si nascondano dietro una riforma come quella discussa e
votata sei volte dalle Camere - ispirata, seppure approssimativamente e
con un inevitabili compromessi e sbavature, a modelli in vigore nel
resto d’Europa, Germania, Francia, Inghilterra -, gli avversari della
stessa, raccolti trasversalmente dall’estrema sinistra all’estrema
destra nel largo fronte del «No», cercheranno di convincere gli elettori
che è meglio approfittare del voto per buttare giù, o almeno per
acciaccare, Renzi, cioè il capo di un governo già indebolito da due anni
e mezzo di potere, ma che ai loro occhi manifesta visibilmente
tentazioni antidemocratiche.
Che al centro della riforma ci sia
l’effettivo rafforzamento dell’esecutivo rispetto al Parlamento e al
decentramento regionale, non c’è dubbio. E nessuno dei sostenitori del
cambiamento della Costituzione lo ha mai negato. Anzi, si può dire che
questo è stato, stavolta come in tutte le fallite esperienze precedenti,
il punto di partenza di una discussione che s’è sviluppata a cominciare
dall’avvio inconcludente della legislatura, del flop di un Parlamento
appena formato che non era stato in grado di eleggere un nuovo Capo
dello Stato, e dell’inattesa e conseguente rielezione di Napolitano: che
accettò, va ricordato anche se la vicenda è appena di tre anni fa, solo
in cambio dell’impegno di deputati e senatori a realizzare una volta e
per tutte le riforme. Di qui presero le mosse i governi Letta e Renzi,
assumendo come primo punto dei loro programmi la promessa fatta
solennemente all’anziano Presidente: il quale, una volta giunto l’iter
parlamentare della riforma a un punto di sicurezza, poté finalmente
ritirarsi, rassicurato dal fatto che il suo successore Mattarella, sulla
stessa materia, si presentava come un continuatore.
È inutile
nasconderlo: sarebbe un disastro il fallimento di un percorso, certo
tortuoso e con molti cambiamenti di posizione in corso d’opera, eppure
eccezionale, in quanto originato da uno stato di paralisi in cui il
Parlamento, in settant’anni di storia repubblicana, non era mai
precipitato. E da cui per fortuna ha saputo riprendersi, intanto
trovando l’accordo per garantire la successione al Quirinale, poi
appunto approvando le riforme, e in un modo o nell’altro assolvendo
compiti, che nel nostro Paese, si sa, quasi mai sono di ordinaria
amministrazione. Per queste ragioni, la vittoria del «No», perfettamente
legittima e democratica, anche se paradossalmente voluta dai
sostenitori della pretesa svolta antidemocratica che si avrebbe con
l’affermazione del «Sì», non rappresenterebbe solo un ritorno al punto
di partenza, come dicono tutti, da Grillo a D’Alema a Brunetta ai
professori del «No», ma un enorme passo indietro. Non a caso, dai 5
stelle a Tremonti, si fa strada l’idea di un ritorno al proporzionale,
cancellando anche la legge elettorale maggioritaria, per eleggere un
nuovo «Parlamento costituente»: dalla Terza Repubblica, ancora da
battezzare, direttamente alla Prima, senza chiedersi neppure se è
possibile ricostruire sulle macerie di ciò che si è distrutto.