La Stampa 25.9.16
I Brueghel
Una dinastia fiamminga che ha cambiato l’arte
Gaddi:
“Con Pieter e i figli la natura e la vita quotidiana del ’500 diventano
protagoniste. Lo chiede la nuova classe mercantile”
intervista di Elena Del Drago
Una
delle mostre più importanti di questo autunno, «Brueghel, Capolavori
dell’arte Fiamminga», consente, nel perfetto ambiente della Reggia di
Venaria, di seguire l’incredibile storia pittorica della famiglia
Brueghel. E insieme lo sviluppo della pittura delle Fiandre, antitetica
eppure complementare a quella italiana. Abbiamo incontrato il curatore
di questa esposizione Sergio Gaddi.
Attraverso il lavoro dei Brueghel quale periodo della storia dell’arte si riesce a seguire?
«In
mostra abbiamo tutta la dinastia che inizia con Pieter il Vecchio, e
continua con Jan il Vecchio e Pieter il giovane. E la notorietà del
capostipite si deve proprio ai figli. La dinastia, di generazione in
generazione, dalla metà del Cinquecento arriva alle soglie del
Settecento con Abraham Brueghel, detto non a caso il Fracassoso, la cui
pittura è barocca, assai meno dettagliata rispetto a quella del padre e
dei nonni».
Possiamo definire quella dei Brueghel una sorta difactorydell’epoca?
«Sì,
una bottega con un marchio di fabbrica molto riconoscibile e
apprezzato, lo stile Brueghel era sinonimo di qualità e bellezza
pittorica che si tramandava negli anni. Pieter Il vecchio muove i primi
passi con Pieter Coecke van Aelst, esponente del Manierismo di Anversa,
un raffinato uomo di cultura, di cui sposa la figlia entrando così in
bottega in modo deciso! Alla metà del ’500 Anversa aveva più di
centomila abitanti, era la capitale del mondo, c’era una grande dinamica
in termini di relazione tra artisti, con l’attivissima Gilda di San
Luca a fare da tramite. Era un ambiente stimolante, ma allo stesso tempo
c’erano le tensioni religiose del re di Spagna, Filippo II, contro i
protestanti»
Come si apre la mostra?.
«La prima sezione
analizza proprio il clima all’interno del quale Pieter Brueghel ha mosso
i primi passi. Abbiamo, tra l’altro, quell’opera straordinaria che è I
sette peccati capitali di Bosch, il primo surrealista della storia per
le sue visione fantastiche e apotropaiche. Pieter Brueghel prende molto
da Bosch, anche se i due non si sono mai incontrati».
Per quale motivo la pittura dei Brueghel si può considerare innovativa nella storia dell’arte?
«La
parte che abbiamo chiamato “Natura Regina” ci dà la misura
dell’innovazione fiamminga: la natura diviene soggetto autonomo e
protagonista, non più sfondo, ma vero elemento centrale. E lo si può
vedere in un’opera come Riposo durante la Fuga in Egitto di Pieter il
Vecchio, nel quale la famiglia è davvero piccola rispetto all’esplosione
naturalistica, qualcosa che il Rinascimento italiano non avrebbe
neppure immaginato. Nelle Fiandre la natura regna incontrastata, non a
caso la rappresentazione delle persone è spesso di spalle o obliqua,
senza individualità, come una grande moltitudine. Anche nella parte
chiamata “Soldati e cacciatori nella luce dell’Inverno”, ci troviamo di
fronte ad un elemento ricorrente che racconta la supremazia naturale: il
paesaggio invernale. In particolare La trappola per uccelli di Pieter
il Giovane, è emblematico dell’estetica bruegheliana. Altra opera molto
interessante è la Strage degli Innocenti dipinta nel 1570 da Marten Van
Cleve, un emulo del capostipite Brueghel, che ci spiega l’importanza
della quotidianità nella pittura fiamminga. In una scena così
drammatica, uno dei soldati, vestito nella foggia contemporanea, fa pipì
in primo piano. In Italia non lo avrebbero mai fatto!
Che cosa rappresenta per i fiamminghi la vita quotidiana?
«È
un valore, non qualcosa da nascondere, persino con le sue necessità
fisiche e fisiologiche. Anche nell’ultima sezione della mostra dedicata
al mondo contadino, ci sono virilità fisiche esibite e la loro danza è
chiassosa e carnale, non aulica e poetica: la vita si esprime nella sua
massima concretezza».
Ma in qualche modo questa pittura è una celebrazione della classe mercantile in ascesa?
«Sì,
questo è il tema della quarta sezione, “Storie di viaggiatori e di
Mercanti”. Allora Anversa era il centro commerciale in cui le rotte dei
viaggi, le navi e i mondi esotici si traducevano in committenza. In
questo ambito c’è un lavoro paradigmatico di David Teniers il giovane
che sposa Anna, figlia di Jan Brueghel il Vecchio, I contadini nella
Taverna: sono una rappresentazione perfetta della teoria calvinista
intesa come premio eterno al successo nella vita. È una scena chiara: i
contadini aspettano la ricompensa del loro lavoro che è rappresentata da
una figura femminile che offre del pane, mentre i contadini sfaccendati
non hanno diritto ad alcun compenso. Siamo davvero molto lontani dalla
concezione classica».
In mostra ci sono molte Allegorie. Che cosa rappresentano?
«Sì,
ce ne sono molte davvero straordinarie: l’allegoria dell’Amore per
esempio, che rappresenta una coppia di innamorati in cui la donna,
nonostante l’afflato dell’uomo, preferisce guardarsi nello specchio, il
primo selfie della storia dell’arte, una rappresentazione perfetta della
Vanitas».