il manifesto Alias 25.9.16
Concetto Marchesi, resistenza con gli antichi
Gli
interventi «politici» di Concetto Marchesi raccolti da Il Poligrafo.
Latinista e comunista, faceva lezione al Liviano di Padova come
Pianezzola, che ha curato il libro. Nominato Rettore da Badoglio, il 9
novembre 1943 tenne a bada i fascisti con un celebre discorso alto
di Carlo Franco
«Concetto
Marchesi faceva lezione nell’aula più grande del Liviano. (…) Gruppi di
appassionati d’altre facoltà venivano apposta per vederla, molti altri
venivano per sentire la parola “tirannico”. Un brivido semi-clandestino
passava per l’aula ogni volta che Marchesi trovava modo di pronunciarla:
tanto piccolo era allora il raggio della resistenza culturale al
regime”». Così Luigi Meneghello, studente a Padova nei primi anni
quaranta, restituisce in Fiori italiani (capitolo 5) il clima di
un’epoca: consenso (molto), fronda (poca), conformismo, e però ristretti
margini di libertà. Un’epoca in cui frequentare un ateneo dove
insegnavano celebrati «maestri» poteva essere un’esperienza fortissima.
C’erano parecchie illusioni, dietro tutto questo, circa il ruolo della
cultura nel regime. La guerra le avrebbe presto dissipate: l’estate del
’43 ne segnò il collasso.
Dopo la caduta del fascismo, il
latinista (e comunista) Concetto Marchesi divenne rettore a Padova per
nomina «badogliana», succedendo al compromesso archeologo Carlo Anti.
Rimase in carica anche dopo il costituirsi, in settembre, della
Repubblica Sociale Italiana. Il frangente era difficilissimo. Proprio a
Padova aveva sede il Ministero dell’educazione nazionale, retto dal
gentiliano Carlo Alberto Biggini (1902-’45): ne derivò un precario
equilibrio. La direzione del partito comunista avversò la scelta di
Marchesi, ritenendola un compromesso inaccettabile. Durò poco. Dopo
alcune frizioni con gli occupanti tedeschi, la crisi maturò
nell’autunno, all’inaugurazione dell’anno accademico, il 9 novembre.
Dopo aver fatto allontanare dal palco delle autorità accademiche gli
studenti con la divisa della milizia fascista, Marchesi tenne il suo
discorso in un clima tesissimo.
Questo e altri suoi interventi
rimasti celebri, sono stati riconsiderati con equilibrio e precisione
filologica da Emilio Pianezzola, il latinista padovano recentemente
scomparso (Concetto Marchesi, Gli anni della lotta, Il Poligrafo, pp.
101, euro 15,30). Il discorso del rettore non aveva i «versetti
corruscanti» che, come ricorda Meneghello, caratterizzavano le lezioni e
i libri di Marchesi. Era teso e solenne, ribadiva l’inviolabilità
dell’Università quale «tempio» e rivendicava la rinascita dell’Italia: a
essa, placata la furia bellica, le forze unite dello studio e del
lavoro avrebbero ridato dignità e forza. C’era poi una sapiente
ambiguità. I repubblichini potevano credere (o fingere di credere) che
l’insistenza sul tema sociale, di valenza ideologica esplicita,
richiamasse le confuse dottrine della Repubblica fascista. L’impressione
tra i presenti, testimoniata da pagine di diario, fu diversa, e di
grande entusiasmo: vi colsero un appello di libertà. Ma il paradosso non
era tollerabile: il caso padovano fu evocato al tumultuoso congresso
del Partito Fascista Repubblicano a Verona (14-15 novembre). Marchesi
rassegnò le dimissioni a Biggini il 30 novembre, e diramò un vibrante
«Appello agli studenti»: nell’impossibilità di tenere l’Università come
«asilo indisturbato di libere coscienze operose», e di fronte al
tradimento operato dalle generazioni precedenti, era ormai necessario
che studenti e operai e contadini s’impegnassero per «rifare la storia
dell’Italia e costruire il popolo italiano». Incombendo l’arresto, entrò
poi in clandestinità e riparò in Svizzera.
Dall’esilio, Concetto
Marchesi proseguì nel supporto alla Resistenza. Un suo deciso attacco
contro le ambigue spinte riconciliatrici di Gentile, che miravano a
indebolire la scelta a favore della lotta partigiana (gennaio 1944),
apparve poi, rielaborato da altri in un punto decisivo, come l’ufficiale
«condanna» del filosofo, ucciso pochi mesi dopo in circostanze di cui
ancora animatamente si discute. Destinatari degli scritti di Marchesi
erano soprattutto i giovani. A loro fu indirizzato nel maggio del 1944
un appello, che riconsiderava la storia d’Italia, additando
esplicitamente nella borghesia il nemico da battere. Ma anche alla
«casta della cultura» lo studioso di Seneca e Tacito rivolgeva parole
durissime, accusando gli intellettuali di aver nei secoli «istruito i
principi a ben governare, mai i sudditi a riscattarsi dal malgoverno; i
ricchi a non insuperbire dei beni di fortuna, mai i poveri a sollevarsi
dalla miseria». Contro la cultura della dissimulazione, Marchesi
rivendicava il ruolo di un’arte e di una scienza capaci di recare pace e
libertà, ma dopo una svolta radicale: «La vecchia classe dirigente
dovrà tutta sparire» e «ogni potere dovrà passare al proletariato»,
unica forza sana e risanatrice. Nella primavera del 1945, nuovo «Appello
agli studenti» perché università, officine (troppo classicista era
Marchesi per poter dire «fabbriche») e campi si unissero nella lotta
finale di liberazione. E finalmente, nel maggio, il ritorno al Rettorato
patavino, ancora con un messaggio agli studenti, invitati a non
dimenticare le spinte di rinnovamento cedendo a pacificazioni che
celavano invece «accomodamenti» e «dimenticanze»: era l’ora delle
epurazioni, e all’amnistia Togliatti mancava ancora un anno. Marchesi
avrebbe poi svolto un importante ruolo come parlamentare del Pci (al
centro del profilo tracciato da Luciano Canfora nel Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. 69, 2007)
Riletti a distanza, e
accompagnati dalle precise analisi di Pianezzola, i testi di Marchesi
rivelano un’energia morale intatta, che va oltre i condizionamenti
ideologici e taluni tratti stilisticamente datati. Una forza
inimmaginabile oggi, quando l’alternativa sembra essere insulto o
melassa. Resta però, dopo l’ammirazione, una domanda, quella che
Meneghello pone dopo aver riconosciuto in Marchesi, nei suoi scritti e
nelle sue lezioni, un paradigma affascinante e durevole: «E allora,
perché non siamo migliori di quello che siamo?».