il manifesto Alias 25.9.16
Filosofia cinese. In principio fu l’evanescente
Al
soggetto della conoscenza o della morale, che isola una natura da
indagare «oggettivamente», la Cina replica pensando il reale come un
processo: "Essere o vivere" del grande sinologo François Jullien
di Mario Porro
Da
più di trent’anni François Jullien mette a confronto la filosofia greca
(e la sua variante cristiana) con la cultura confuciana della Cina.
Nietzsche diceva che non esistono immacolate concezioni; è proprio dal
faccia a faccia che si rendono avvertibili le «pieghe» che le tradizioni
hanno prodotto nel campo del pensabile, le diramazioni che la lingua
(il pensiero non può che sfruttarne le risorse) ha indotto a seguire. In
Essere o vivere (Feltrinelli, pp. 304, euro 22,00) Jullien ripercorre
il suo cammino in venti capitoli, i cui titoli sono disposti in forma
oppositiva (un concetto versus un altro).
La strada tracciata
dalla filosofia greca pensa le cose come enti isolabili dotati di
proprietà distinte; ogni entità è sostanza, argomenta Aristotele,
composta di materia e forma ed è quest’ultima ad assegnare le
caratteristiche agli enti. Viene così esclusa (ma la mancanza non è di
per sé un difetto) l’altra possibilità: pensare il reale come continuo
processo.
Per la lingua-pensiero cinese la forma è solo in
trasformazione, momento provvisorio da attribuire non a una causa
esterna ma a una propensione immanente. Entrare in questa logica sgombra
il campo non solo dalla messa in scena di un Dio che sia causa del
mondo, ma anche dalla valorizzazione del soggetto, dotato di Libertà e
Volontà, che progetta e si prefigge fini, elabora ideali da tradurre in
Azione.
La modernità filosofica ha creduto di aver finalmente
conquistato la «terra della verità» nel momento in cui si è fondata
sull’Io penso per il quale il mondo è oggetto contrapposto, gettato
davanti a sé. Così ha tralasciato non solo il nesso originario fra l’io e
l’altro, ma anche il fatto che l’io è sempre immerso in una situazione.
Al soggetto della conoscenza o della morale, che isola una natura da
indagare «oggettivamente», mediante astrazioni e modelli ideali, la Cina
replica mettendo in primo piano la connivenza: invece di stabilire una
distanza e di costruire nel pensiero, presta attenzione all’«intesa» che
si tesse inavvertita e trattiene nell’aderenza al paesaggio del mondo.
Se
il sapere mi aiuta a conoscere un paese, la connivenza sorge quando il
rapporto si converte in tacita comunicazione; i pittori-letterati cinesi
cercavano di cogliere del paesaggio la «dimensione di spirito», l’aura
che emana dalla fisicità delle cose, come quando si parla di spirito del
vino o di un profumo, senza per questo voler accedere a un altro piano
immateriale.
La scelta greca ancorata nell’ontologia porta ad
attribuire l’essere a quanto è determinato, definito da bordi che lo
proteggono dall’abisso dell’illimitato; a ogni cosa è assegnata la
proprietà che attribuisce identità e consistenza. Se usciamo dalla
concezione dell’Essere con il conforto del pensiero cinese, soprattutto
taoista, l’attenzione non si fissa più sull’«ente», ma sull’evanescente.
Il
Tao, fondo indifferenziato delle cose, non rientra nel registro della
presenza, è troppo tenue e sottile perché lo si possa definire:
mantenendosi nella fecondità del virtuale, il Tao resta al limite del
sensibile, allo stadio dell’evasivo. Nulla meglio del vento lo
rappresenta: come per l’aria di un volto o l’atmosfera di un luogo, il
vento è imponderabile e inconsistente, ma si propaga in modo insinuante e
diffuso. A sua immagine si diffonde l’influenza che si spande
silenziosa fra individui o la fiducia che sfugge alla presa di volontà o
intelligenza e si annoda nella relazione tra uomini. La nostra
lingua-pensiero, abile nell’eliminare l’equivoco, la confusione di
aspetti che andrebbero distinti, fatica a cogliere l’ambiguo, le
situazioni in cui ancora non è emersa l’opposizione tra l’uno e l’altro.
L’amore
è equivoco: esprime sia l’eros greco, esperienza di aspirazione e
conquista, desiderio che vorrebbe appagare la mancanza, sia l’agape
cristiana, dono di sé che nasce dall’effusione di una pienezza. Ma
quando cerco di esprimere la condizione affettiva suscitata dal
paesaggio, l’implicazione originaria nel mondo, torno al di qua della
separazione tra «gioia» o «tristezza», nell’ambiguo che mantiene
l’intreccio fra gli opposti, nel tra che sfugge evasivamente alla presa
dell’ontologia.
La filosofia ha pensato la vita come segmento fra i
due estremi del nascere e del morire, ma le sono sfuggite le
trasformazioni silenziose del vivere come processo. Vivere significa
invecchiare, diceva Bergson, uno dei pochi ad aver cercato di evadere
dall’ontologia dell’Occidente verso una logica fluida e processuale; ma
non riusciamo a percepirci mentre invecchiamo, perché è tutto in noi a
invecchiare, senza mai fermarsi. Il pensiero cinese, il cui riferimento è
il mondo agricolo, non quello pastorale ebraico e greco, è attento a
individuare gli indizi minimi di una trasformazione prima che giunga ad
affiorare, quando il fenomeno è ancora allo stadio del «sottile». Non si
vede la spiga crescere; poi, un mattino, ci si accorge che è pronta per
essere tagliata. Così, trascurando il tra-due evasivo della
transizione, la filosofia si è affidata all’«al di là» (il meta della
meta-fisica), alla «vera vita», dice Platone, questa sì dotata di piena
realtà, affrancata dall’ambiguità del divenire.
Jullien ritrova
qui una osservazione di Michel Serres: sono le preposizioni a costruire
nel pensiero, al contro, all’ob da cui deriviamo oggetto ed ostacolo, al
sub del soggetto-sostanza, ecco sostituirsi il tra, il per. Non a caso,
anche il pensiero di Serres si rivolge a quanto la filosofia ha
tralasciato, il molteplice, la mescolanza, l’informe flou, con il
conforto delle scienze contemporanee, della topologia con cui leggere le
varietà del paesaggio come modello della realtà. In effetti, nota
Jullien, prerogativa del paesaggio è di aprire un tra fra componenti
divenuti correlanti; è tra i vettori «montagne-acque», così i cinesi
chiamano il paesaggio, che si distende tra l’Alto della montagna e il
Basso dell’acqua, tra la stabilità e il fluire, tra la forma compatta e
la trasparenza informe.
Anche l’intimo nella relazione tra
soggetti evita la logica oppositiva, quella dell’amore che sprofonda nel
possesso dell’altro o nel baratro del desiderio, diventando delusione.
L’intimo non smette di rinnovarsi nel corso dei giorni, è un fondo
sempre disponibile, che lascia indefinitamente passare il tra della
relazione.