il manifesto Alias 25.9.16
L’utopia latina di Hobsbawm
Concentrandosi
soprattutto sulle campagne, lo storico marxista cerca una chiave
sociale per spiegare gli stili ideologici latino-americani: «Viva la
revolucion»
di Francesco Benigno
All’America
latina nel suo insieme si può estendere ciò che Porfirio Díaz usava dire
del suo paese: «Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli
Stati Uniti». A partire dal secondo dopoguerra, e soprattutto dopo la
rivoluzione cubana del 1959, l’America del sud è diventata agli occhi
del mondo l’antitesi di un capitalismo, quello statunitense, prossimo e
prepotente, la culla della rivoluzione possibile. Il fascino esercitato
da questa prospettiva sull’opinione pubblica europea, e in particolare
sugli intellettuali, è stato, come si sa, straordinario: mentre le
classi operaie del vecchio continente abbandonavano via via l’utopia
rivoluzionaria, le masse dei lavoratori dei paesi del Terzo mondo, e
quelle sudamericane in particolare, si trasformavano, nell’immaginario
ancor prima che nella realtà, in alfieri della rivoluzione mondiale.
Di
questa potente, persistente fascinazione, il nuovo libro – uscito
postumo – di Eric Hobsbawm, Viva la Revolución Il secolo delle utopie in
America latina (Rizzoli, pp. 443, 25,00) è una testimonianza
importante, e in certi punti toccante. Vi si raccolgono gli scritti sul
continente sudamericano composti nell’arco di un quarantennio dal famoso
storico marxista britannico, scomparso nel 2012 e autore di testi
cruciali, che hanno fatto scuola: dai celebrati studi su I ribelli (del
1966) e I banditi (del 1971), al notissimo lavoro di sintesi sul
Novecento: Il secolo breve (del 1995).
In questo caso, gli scritti
raccolti non sono saggi di storia ma piuttosto interventi d’occasione,
riflessioni di taglio politico e civile, che ci parlano – letti oggi –
più di Hobsbawm, delle sue percezioni, dei suoi entusiasmi e delle sue
idiosincrasie, che dell’America latina; e più del viaggiatore
appassionato, analista impegnato e intellettuale marxista, che dello
storico.
Prima di morire, fu lui stesso a concepire questa
silloge, curata da Leslie Bethell, reputato specialista di storia
sudamericana, ma soprattutto suo amico personale. Scorrendo i saggi si
capisce bene il senso della raccolta. Per Hobsbawm l’America Latina è
stata due cose insieme, e tutt’e due importanti: da un lato questo
continente sterminato e così variegato ha costituito una specie di
realtà controfattuale sulla quale misurare la capacità di comprendere un
mondo solo apparentemente simile ma in sostanza assai diverso;
dall’altro essa ha rappresentato per lui il luogo dove ricostruzione
storica e analisi politica si toccano e si intrecciano: mescolando la
irrinunciabile speranza della rivoluzione alla sua scarsa probabilità
concreta.
In entrambi i casi la posta in gioco non è piccola,
essendo in questione la capacità della storia – e soprattutto di quella
branca di storia sociale dal basso che Hobsbawm praticava e prediligeva –
di spiegare il mondo.
Lo storico inglese non nasconde affatto le
difficoltà di capire l’America Latina e anzi afferma con decisione che
nulla è più sbagliato che seguire gli schemi usati (e abusati)
dell’analisi storico-sociale e politologica europea. La sfida
intellettuale è però difficile: come interpretare, ad esempio, quel che è
accaduto in Bolivia nel 1952 vale a dire la presa del potere da parte
di una coalizione eterogenea (il Movimento Nazionale Rivoluzionario) di
nazionalisti, trozkisti e simpatizzanti del nazismo ma capace di
nazionalizzare le miniere, redistribuire le terre, attuare la riforma
educativa e dare diritti civili agli Indios?; o capire come mai la
Colombia, un paese che detiene il record sudamericano di vita
parlamentare, sia stato al contempo tormentato dal 1948 al 1958 dal più
efferato ed endemico scontro armato di massa dell’emisfero occidentale,
noto come il periodo della violencia?
Oppure, come spiegare perché
il comunismo tanto nella variante ortodossa sovietica quanto in quella
maoista non abbia mai veramente attecchito in America Latina se non in
frange radicali (neppure i membri del movimento cubano del 26 luglio, i
cosiddetti barbudos della Sierra Maestra, erano in origine comunisti, lo
sarebbero diventati poi); e soprattutto come leggere le forme della
protesta e della lotta sociale, ancorate al populismo, fenomeno che
Hobsbawm descrive come una sorta di rivolta del povero contro il ricco,
sostenuta equanimemente da intellettuali di sinistra e da militari
nazionalisti, e dominata da leader carismatici.
La spiegazione che
viene abbozzata suona così: mentre in Asia e Africa il comunismo è
stato anche il linguaggio della decolonizzazione, in America Latina i
precoci movimenti di indipendenza primo-ottocenteschi sono stati
sostenuti da esigue frange semi-urbanizzate, e hanno lasciato immense
masse rurali al di fuori della politica e, in sostanza, della storia.
Solo nel secondo dopoguerra i poveri e gli oppressi si sono
«risvegliati», ma inventando forme peculiari di mobilitazione che vanno
capite dall’interno, in profondità, e non attraverso schemi
tradizionali.
Di questo scarto tra realtà sudamericane e
percezioni europee la figura di Ernesto «Che» Guevara è emblematica. La
sua leggenda, scrive Hobsbawm, ha trasfigurato la natura del suo impegno
politico, facendone un eroe romantico e anzi byroniano, per cui si può
dire che Camiri (la città boliviana dove fu ucciso) è «la Missolungi
degli anni sessanta». Hobsbawm cerca di sovvertire questa immagine
mostrando il percorso di vita che fece di Guevara un bolscevico, e
perciò duro, disciplinato, antiretorico. Non è solo un errore di
percezione l’aver scambiato per antinomista e libertario un uomo
interamente dedito alla rivoluzione. Hobsbawn non nasconde infatti la
sua avversione verso la teoria del foco, promossa da Guevara e
teorizzata da Regis Debray, l’illusione volontaristica di una
rivoluzione importata dall’esterno, senza vere base sociali, a partire
da piccoli gruppi di guerriglieri insediati sulle montagne e in zone
frontaliere.
destinata perciò alla sconfitta.
Emerge qui la
diffidenza di Hobsbawm verso soluzioni tutte politiche e viceversa
l’insistenza nel tentare di trovare una chiave sociale per spiegare i
peculiari stili ideologici latino-americani, quelle «strane» forme di
lotta politica che vi si manifestano. Per questo gran parte del libro è
dedicato all’analisi delle masse contadine e al periodo degli anni
cinquanta/sessanta più che a quello degli anni settanta/ottanta: perché
il territorio privilegiato della sua osservazione, dove egli ha più
insistentemente cercato le chiavi di spiegazione della realtà, è il
mondo delle campagne, cui sono dedicate le sue più corpose riflessioni:
su haciendas, condizioni di lavoro, contratti e così via. Il che porta a
un curioso contrasto tra quello che si può leggere nei suoi articoli
del tempo e la parte dedicata all’America Latina nella sua autobiografia
(Anni interessanti), attenta ai rapidi processi di trasformazione della
società sudamericana, come ad esempio il terribile contrasto tra
l’enorme povertà di Recife e il moltiplicarsi dei grattacieli di San
Paolo, oppure l’affollarsi nelle periferie urbane di masse di diseredati
che comprano a rate i jeans e le magliette.
Sicché viene da
chiedersi se non si possa, oggi, avere sull’America Latina uno sguardo
ancora diverso, che scorga in fenomeni come il populismo non la stigmate
di una storia eccentrica ma qualcosa da ripensare sulla base di certe
tendenze dell’occidente contemporaneo, europeo e nord americano, in una
varietà che va dalla retorica di soggetti come Donald Trump (o per
restare in Italia come Berlusconi o Grillo) alle forme nuove, diverse e
«trasversali» di aggregazione sociale e di mobilitazione politica.
Non
lo si sarebbe potuto pretendere da Hobsbawm, storico a tutto tondo del
Novecento, ma soprattutto storico novecentesco, stretto tra l’ottimismo
della volontà e il pessimismo della intelligenza: Bethell racconta nella
introduzione di essere andato a trovarlo, nell’ottobre del 2002, nella
sua casa londinese, a Hampstead, per festeggiare la vittoria elettorale
di Lula. Dopo aver stappato lo champagne e brindato, Hobsbawm sussurrò:
«e adesso suppongo che aspettiamo ancora una volta di restare delusi».