La Stampa 22.9.16
Un rifiuto per compattare il Movimento
di Marcello Sorgi
Atteso,
ma fino all’ultimo non scontato, il «no» di Virginia Raggi alla
candidatura di Roma alle Olimpiadi segna una svolta dura
nell’amministrazione della Capitale, fin qui impantanata nella propria
incapacità, e rischia di trasformarsi in una dichiarazione di sfiducia,
della sindaca e dell’intero M5S, verso se stessi.
Nelle settimane e
nei mesi ormai che hanno preceduto l’annuncio di ieri, Raggi e il
vertice stellato infatti avrebbero potuto motivare più seriamente la
propria convinzione, basandosi su un’approfondita analisi delle
opportunità e dei rischi e trovando un sostegno più forte alle loro
posizioni. Invece, non c’è uno solo degli argomenti portati dalla
sindaca in conferenza stampa che non possa essere contraddetto.
Dire
che queste sarebbero state le «Olimpiadi del mattone, un pretesto per
nuove colate di cemento», è come negare a priori che la nuova
amministrazione - insediata con un voto plebiscitario degli elettori
romani che invocavano il cambiamento, dopo le fallimentari esperienze di
Alemanno e Marino e dopo l’ondata di corruzione sfociata nell’inchiesta
«Mafia Capitale» - non sarebbe stata in grado di impedirlo, cogliendo
l’occasione per impegnare i consistenti fondi pubblici che il governo
aveva messo a disposizione per ricostruire l’immagine e la sostanza di
una grande città derelitta, che non aspettava altro.
Ancora, dire
che il settanta per cento dei romani si erano espressi contro le
Olimpiadi con il voto del ballottaggio del 19 giugno che ha segnato il
trionfo dei 5 stelle, equivale a dimenticarsi che in campagna elettorale
era stato promesso di dare ai cittadini l’ultima parola, perfino con un
referendum. Tra l’altro, i sondaggi svolti in questi ultimi giorni,
rivelano che a certe condizioni l’opinione pubblica capitolina è in
maggioranza favorevole ai Giochi.
Citare il residuo di debito a
bilancio del Comune per quelli del 1960 come esempio di un nuovo
dissesto finanziario da evitare, per non caricare i romani di nuovi
debiti, significa ignorare quale grande trasformazione le Olimpiadi
portarono cinquantasei anni fa, in una Capitale che era rimasta una
sorta di grande paesone e per una popolazione di oltre tre milioni di
persone che da quell’esperienza uscirono proiettate verso la dimensione
di una moderna metropoli. Inoltre, lasciare dietro la porta il
presidente del Coni, dopo averlo convocato per discutere, non è stato
solo un gesto di maleducazione da parte di una sindaca che in fatto di
buone maniere s’è già fatta conoscere Oltretevere, ma una mancanza di
riguardo verso un’istituzione che rappresenta l’Italia nel mondo.
Infine, non c’è bisogno di essere sportivi per sapere che le Olimpiadi
non sono solo quell’appaltificio a cui Raggi le vorrebbe ridurre: sono
innanzitutto un insieme di passione, orgoglio ed entusiasmo giovanile,
come ci hanno ricordato proprio in questi giorni i ragazzi italiani
delle Paralimpiadi, pronti ad approfittarne per gettare il cuore oltre
l’ostacolo del loro ingrato destino.
Ma di tutte queste obiezioni,
come degli innumerevoli post dei loro elettori che ieri su Internet
hanno protestato contro il «no» alle Olimpiadi, Raggi, Grillo, Di Maio,
Di Battista e tutto il gruppo dirigente 5 stelle - c’è da giurarci - se
ne fregheranno. Giunti in pessime condizioni alla vigilia dell’assemblea
di Palermo, che dovrebbe delineare il futuro del Movimento e superare
le rissose divisioni che la vicenda del Campidoglio ha fatto emergere, i
grillini erano a caccia di un annuncio a effetto, che servisse a
sollevare un terremoto di reazioni avversarie, e sull’onda di queste una
ragione per ricompattarsi, per reagire all’assedio e ribadire la
propria diversità. Tal che, pur essendo inaccettabile la scelta del
Movimento 5 stelle e della sindaca Raggi, nonché il modo e il momento in
cui è maturata ed è stata annunciata, a malincuore bisognerà
rassegnarsi a questa ennesima prova di nullità. In fondo, non vale
neppure la pena di approfondirne le motivazioni. Ragionarci servirebbe
solo a fare il loro gioco, per sentirsi ripetere che le obiezioni «delle
lobbies e dei giornaloni» sono la prova che la decisione era giusta.