La Stampa 18.9.16
L’onda Trump è la sorpresa di settembre
di Maurizio Molinari
Nella
settimana che si conclude gli americani si sono resi conto per la prima
volta che Donald J. Trump può essere eletto Presidente l’8 novembre.
Fino
a domenica scorsa si trattava di un’ipotesi considerata remota in
ragione della coincidenza fra gli errori a raffica del candidato
repubblicano, il solido vantaggio di Hillary Clinton nei sondaggi e un
equilibrio demografico a favore dei democratici grazie al sostegno
massiccio delle minoranze sommato alla divisione dell’elettorato bianco.
Se in appena sette giorni lo scenario è mutato è per la sovrapposizione
fra indebolimento di Hillary e correzione di rotta di Trump.
Hillary
ha prima commesso l’errore di definire «basket of deplorables» (insieme
di miserabili) i sostenitori del rivale venendo meno al rispetto del
corpo elettorale e poi è stata vittima di una caduta fisica attribuita
ad una «polmonite» che ha fatto dilagare i timori sulla sua salute.
Obbligata a sospendere i comizi per settantadue ore, l’ex First Lady ha
consentito al rivale di ottimizzare i frutti della svolta impressa alla
guida della campagna repubblicana dalla designazione, in agosto, del
tandem Stephen Bannon-Kellyanne Conway al posto di Paul Manafort. Dopo
essere andato dal presidente messicano Enrique Peña Nieto a lodare il
«carattere straordinario» degli ispanici ed essere entrato nella chiesa
di Great Faith Ministries a Detroit per rivolgersi agli afroamericani,
Trump ha fatto marcia indietro sulle accuse rivolte in passato al
presidente Barack Obama di non essere nato in America.
È un
evidente tentativo di apparire più moderato e centrista rispetto agli
eccessi, personali e politici, di cui è stato finora protagonista. Al
fine di far risaltare soprattutto un messaggio, basato sulla promessa di
crescita: meno tasse e più posti di lavoro con un balzo del Pil del 4
per cento pari al doppio dell’attuale. Per la maggioranza degli analisti
elettorali la svolta centrista di Trump è «un inganno» come le sue
promesse economiche sono un «bluff» ma i sondaggi suggeriscono che hanno
avuto un impatto significativo. La media degli ultimi rilevamenti
assegna a Hillary appena 1,5 punti in più, per «Cbs News/New York Times»
gli sfidanti sono appaiati al 42 per cento - azzerando così il
vantaggio di 8-10 punti che Hillary aveva in agosto - e soprattutto in
due Stati-chiave come Ohio e Florida è Trump ad avere un risicato
vantaggio. Ciò significa che, per la prima volta da quando ha
conquistato la nomination repubblicana alla Convention di Cleveland,
Trump ha una strada per raggiungere i 270 voti elettorali - assegnati
dai singoli Stati sulla base della loro popolazione - che consentono di
conquistare la Casa Bianca. I primi ad essersene accorti sono gli
strateghi democratici: appena la campagna è ripresa, sono andati
all’attacco. Hillary è riapparsa in North Carolina, l’unico fra gli
Stati conquistati da Mitt Romney nel 2012, che appare vulnerabile,
Barack Obama ha inaugurato i comizi a Philadelphia, per respingere
l’assalto repubblicano alla Pennsylvania, e Michelle Obama ha parlato a
Fairfax, in Virginia, lo «Stato dei Presidenti» che i liberal devono
riuscire conservare.
L’offensiva democratica è massiccia perché
punta a neutralizzare in fretta la «sorpresa di settembre» che il
magazine «The Atlantic» definisce «Trump Surge» (Ondata Trump), alla cui
base c’è proprio l’economia perché è su questo terreno che Hillary è
più indietro nelle preferenze: 44 a 51 per cento. Per avere un’idea del
valore di questi numeri bisogna tener presente che, secondo un’indagine
di Bloomberg, nello Stato-chiave dell’Ohio il 64 per cento dei votanti
ha come priorità tasse, lavoro, redditi o commercio. Parlando al «New
York Economic Club» Trump si è rivolto proprio alle famiglie scontente,
disagiate e impoverite, della «Rust Belt» industriale, affermando: «Una
volta le automobili venivano da Flint e in Messico non si poteva bere
l’acqua mentre oggi è vero l’esatto opposto». A otto giorni dal primo
dibattito presidenziale, all’Università di Hofstra di Long Island, il
capo della campagna di Hillary, John Podesta, dice: «Sapevamo che
saremmo arrivati ad un testa-a-testa». Ma Hillary pensava di avere un
vantaggio strategico grazie alla demografia e alle lacerazioni
repubblicane: il testa-a-testa dimostra dunque che l’avversario riesce a
raggiungere indipendenti e nuovi elettori così come i candidati «terzi»
- il libertario Gary Johnson e la verde Jill Stein - non le giovano.
Ecco perché Jennifer Palmieri, fra i più stretti consiglieri di Hillary,
ammette: «Contro un candidato controverso come Trump non è facile far
conoscere la propria visione per il futuro del Paese». Insomma, le
polemiche su Trump sono talmente aspre da rendere difficile ai
democratici farsi sentire, comunicare la propria agenda. Ecco perché la
campagna guarda ora a Hillary: deve riuscire a spiegare agli elettori
perché vuole diventare Presidente degli Stati Uniti. Se fallirà, la Casa
Bianca andrà a Trump.