Corriere 18.9.16
Al mondo nuovo senza bussola serve un Keynes che non c’è
di Michele Salvati
I
l libro Regole, Stato, uguaglianza , di Salvatore Biasco, rischia di
non raggiungere il pubblico cui è rivolto. L’ha pubblicato una casa
editrice universitaria (Luiss University Press ) e l’autore è un noto
economista, ma non si tratta di un lavoro scientifico. C’è molta e buona
economia nelle sue pagine, che però serve ad affrontare un problema
politico: La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo
capitalismo , come recita il sottotitolo. I destinatari del libro sono
coloro che hanno creduto e tuttora credono nei valori della sinistra,
che provengono e in parte ancora militano nei partiti di questa parte
politica, e che ora sono smarriti nel mondo nuovo in cui si trovano a
vivere.
Essi sembrano dividersi in due campi opposti: o un
«riformismo» sbiadito, con poche tracce del glorioso movimento politico
che cambiò il mondo nei «trent’anni gloriosi» del secondo dopoguerra; o
un estremismo ignorante degli effetti imprevisti e perversi di politiche
radicali mal disegnate. Biasco sta in mezzo: col cuore è il Tony Judt
di Guasto è il mondo (Laterza), un socialdemocratico vero che rimpiange
la grande epoca della socialdemocrazia ed è convinto che a essa si deve e
si può ritornare. Con la testa è un economista internazionale che
conosce perfettamente le forze che hanno condotto al neoliberismo degli
ultimi vent’anni del secolo scorso, e poi da questo alla globalizzazione
sregolata (meglio, regolata secondo criteri politicamente
inaccettabili) oggi imperante.
Il fascino del libro sta largamente
in questo combattimento tra cuore e testa. Biasco non prende vie
facili, superficialmente polemiche, come spesso avviene in tanti libri
di riformisti sbiaditi o di sinistri radicali, e la scarsa presenza di
riferimenti al dibattito italiano di queste due parti politiche è
particolarmente apprezzabile: l’argomentazione si colloca sempre a un
livello molto più alto, di politica ed economia europee e
internazionali. Ma, proprio per questo, il combattimento non ha
vincitori: restaurare i pilastri del «mondo di ieri» — non quello di
Stefan Zweig, il mondo precedente alla Prima guerra mondiale, ma quello
della socialdemocrazia, dei «trenta gloriosi» che fecero seguito alla
Seconda — richiede condizioni internazionali e interne alle società
delle grandi potenze capitalistiche odierne che ancora non si
intravvedono.
L’ordine neoliberale è stato scosso dalla grande
recessione del 2007-08 e le voci critiche — di politici, economisti e
scienziati sociali — sono sempre più forti e persuasive. Ma difettano le
condizioni internazionali che consentirono alle idee di un economista
geniale di trasformarsi in un benefico disegno egemonico mondiale: oggi
manca un nuovo Keynes a preparare il terreno e mancano soprattutto le
straordinarie condizioni di forza che consentirono agli Stati Uniti di
ridisegnare i rapporti economici internazionali sulla base degli accordi
di Bretton Woods. Mancanze per ora difficilmente rimediabili: quel
disegno internazionale era stato la premessa necessaria dei «trenta
gloriosi», ciò che aveva consentito l’attuazione delle politiche
nazionali così apprezzate da Judt e Biasco.
Biasco lo sa
benissimo. «Non basta che il modello (neoliberale) sia imploso per le
sue contraddizioni. Finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale —
di principi, di governo della società, di creazione di ricchezza, di
concezione dei rapporti sociali — rimarrà inarticolato e non riuscirà a
generare una mobilitazione di massa, l’ imprinting farà riapparire le
idee neoliberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione
pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi».
Così chiudono le dense pagine del libro. E al lettore verrebbe da
aggiungere: magari l’opinione pubblica si aggrappasse a idee
neoliberali. Quelle cui sembra aggrapparsi ora, sollecitata da movimenti
populisti in forte crescita, mi sembrano idee assai più pericolose di
quelle neoliberali.