La Stampa 18.9.16
“Mio figlio il killer di Columbine. L’ho odiato, ora torno ad amarlo”
A 17 anni dal massacro, Sue Klebold racconta la sua tragedia in un libro
intervista di Paolo Mastrolilli
«In
quel momento l’ho odiato». La commozione incrina la voce di Sue
Klebold, quando racconta l’istante in cui vide per la prima volta le
immagini di suo figlio Dylan che ammazzava i compagni di classe alla
Columbine High School, e poi si sparava alla testa: «Tutto ciò in cui
credevo, tutte le scuse a cui mi ero aggrappata, crollarono in un
istante. Ci sono voluti molta fatica e dolore, per tornare ad amarlo».
Era
il 20 aprile 1999, anniversario della nascita di Hitler, quando Eric
Harris e Dylan Klebold entrarono armati nella loro scuola del Colorado.
Uccisero 12 studenti e un insegnante, ferendone oltre 20, e poi si
tolsero la vita. Ora, 17 anni dopo, la madre di Dylan ha trovato la
forza di scrivere un libro intitolato Mio figlio, che Sperling &
Kupfer pubblica in Italia.
Come è stato possibile che non vi siate accorti di niente prima?
«C’erano
stati segnali dei suoi problemi, ma nulla che lasciasse presagire una
simile azione. L’anno precedente Dylan era stato arrestato con Eric per
furto di apparecchiature elettroniche da un’auto, ma aveva seguito un
programma di riabilitazione e lo aveva terminato in anticipo. Era stato
ammesso a quattro università e si preparava a una nuova vita».
Tre
giorni prima della strage era andato al ballo di fine anno in smoking
con Robyn, la ragazza che gli aveva comprato le armi. Anche lei non
aveva capito nulla?
«No, come tutti. Perché chiunque avesse conosciuto Dylan non avrebbe mai pensato che potesse fare male a qualcuno».
Eric Harris, invece, era per natura più violento.
«Aveva
creato un sito Internet molto scioccante, ma nessuno l’aveva detto ai
genitori. Comunque era in cura da uno psicologo, e nemmeno lui si
accorse di nulla».
Come vi è sfuggito il loro arsenale?
«Nella
nostra casa non c’erano mai state armi: non ci veniva neppure in mente
di cercarle. La cosa che ci ha urtato di più è che hanno potuto
acquistarle legalmente. La lobby dei produttori Nra dice che negli Usa
le leggi ci sono, e le stragi avvengono quando qualcuno le viola. Non è
vero: Robyn comprò le armi usate da Dylan nel pieno rispetto della
legalità».
Nel libro lei descrive una sera in cui ebbe un litigio con Dylan, arrivando a spingerlo contro il frigorifero.
«Me
ne dispiace ancora, ma le nostre vite erano normali: cena insieme la
sera, niente di particolare. Dylan non era viziato o abbandonato a sé
stesso».
Qual è il suo rimpianto più grande?
«Non essere stata più zitta ad ascoltarlo, aver riempito troppo spesso il silenzio con le mie parole».
Cosa ha cambiato suo figlio dal bambino che lei aveva amato e cresciuto, al killer che ha ucciso i compagni e sé stesso?
«La
salute mentale si deteriora come quella fisica. Magari hai una
predisposizione genetica alla depressione, a cui si aggiungono il
bullismo, un amico manipolatore con cattiva influenza, piccoli fattori
che fanno precipitare la situazione».
Cosa ha provato quando ha visto i video di suo figlio che sparava?
«È
crollato il mio mondo. Fino ad allora mi ero rifiutata di credere alla
realtà. Mi ero illusa che non avesse ucciso, o fosse stato costretto,
magari drogato. Invece ho visto che si comportava da sadico. Per la
prima volta ho provato rabbia verso di lui».
Si è pentita di averlo messo al mondo?
«C’è voluta molta fatica, ma pur odiando quello che ha fatto, sono tornata ad amarlo».
Come?
«La
chiave è stato il post traumatic stress disorder, patito dopo la
strage: ho sentito il mio cervello fuori controllo. La malattia mentale
ha spinto Dylan a commettere l’omicidio-suicidio».
Columbine è stato l’inizio di una serie di stragi nelle scuole: suo figlio è diventato il modello dei killer?
«Il
contagio del suicidio è un problema molto grave. Gli stessi Dylan ed
Eric hanno copiato il film Natural Born Killers. Quella poi era l’epoca
in cui si stava sviluppando l’informazione 24 ore al giorno, e molti
reporter non si sono resi conti del danno che facevano a inondare il
pubblico di tutti i particolari».
Perché negli Usa succedono più stragi di questo genere?
«I
nostri ragazzi sono disconnessi dalla realtà, dalla scuola, dalla
comunità. Poi c’è l’immersione nei videogiochi e i film violenti, e ora
la vita virtuale di Internet e i social media. A questo va aggiunto un
accesso troppo facile alle armi».
Per un genitore il suo libro è terrorizzante: come ci difendiamo?
«Non
lo so, per questo l’ho scritto. Dobbiamo sapere che anche se facciamo
il nostro meglio, non basta. Dobbiamo sforzarci di capire meglio i
segnali di instabilità mentale, e cercare aiuto per intervenire prima
che sia troppo tardi. Dovremmo concentrarci molto di più sulla
prevenzione, perché può accadere a chiunque».