La Stampa 15.9.16
Festival filosofia
Remo Bodei
“Si corre per vincere, anche San Paolo invitava a colpire duro”
Il filosofo: i greci ci hanno dato la linea
di Francesca Sforza
Quest’anno
si corre, al Festival della Filosofia di Modena. Si corre per capire,
per restare al passo con il tempo inquieto della contemporaneità. E
anche, un po’, per vincere. Remo Bodei, professore di Filosofia presso
la University of California a Los Angeles e Presidente del comitato
scientifico del Festival, è uno dei protagonisti di questa maratona del
pensiero.
Professore, partiamo dall’origine greca della parola
agonismo, cosa resiste dell’antica accezione del termine, e cosa invece è
andato perduto o si è trasformato?
«“Agon” è la lotta in vista di
una vittoria, in tutte le sue accezioni, fino all’agonia, che è la
lotta estrema contro la morte. Direi che grosso modo si è conservato
l’essenziale dell’accezione greca, che anzi si è estesa dal campo di
partenza, quello sportivo, ad altri ambiti, penso ad esempio a quello
economico, che vede tra l’altro l’uso di un modello di origine sportiva
di tipo specifico, la corsa. Se pensiamo poi alla concorrenza, come non
ricordare la metafora agonistica usata da San Paolo nella prima lettera
ai Corinzi? “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma
uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da
conquistarlo”, scrive San Paolo, sottolineando che la differenza,
semmai, è nel fatto che gli atleti si muovono per “una corona che
appassisce”, mentre i cristiani sono chiamati per “una che dura per
sempre”. Interessante notare il suo riferimento al pugilato - “Io dunque
corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi
batte l’aria”, cioè invita a colpire in modo da fare male».
In che cosa differisce l’agonismo religioso da quello laico?
«Più
che di differenze parlerei di una ripresa laica dello stesso tema, ad
esempio con Hobbes, in cui la gara non è conquistare il paradiso, ma
vincere sugli altri al punto che la felicità consiste nel sorpassare,
l’infelicità nel rimanere indietro, e la fine della corsa - l’abbandono
della gara - coincide con la morte. Non c’è nessun premio, nella visione
laica di Hobbes, si corre per vincere».
Nella condizione
agonistica prevale il cimentarsi con la vittoria (e il rassegnarsi alla
sconfitta) o il partecipare alla lotta e alla competizione?
«Se
uno prendesse alla lettera Pierre de Coubertin si corre per gareggiare e
confrontarsi, ma da un punto di vista più essenziale la concorrenza è
spietata, quindi si corre per vincere. La cosa interessante che emergerà
da alcune lezioni è che sul piano animale c’è una forma di altruismo
che fa bene alla competizione, e anche in campo economico, la cosiddetta
economia altruistica, insegna che non sempre è un bene stravincere. Ne
parlerà Massimo Recalcati in un suo intervento: anche essere sconfitti
aiuta a crescere».
È pensabile una declinazione equa dell’agonismo?
«Nei
cicli vitali ci sono sempre i salvati e i sommersi, per dirla con Primo
Levi, e la conquista della democrazia vorrebbe che ci fossero, intorno a
noi, non nemici, ma avversari. Il problema è nelle condizioni di
partenza: è vero che bisogna crearle, in modo tale che poi ognuno sia
messo in grado di fare la sua corsa, ma spesso è un’ipocrisia».
Quali sono gli autori che meglio di altri hanno illustrato la dimensione dell’agonismo?
«Nella
filosofia è davvero una dimensione iniziale. Pitagora paragonava la
contemplazione filosofica con l’andare allo stadio a guardare i
contendenti - aggiungendo che se c’era una differenza consisteva nel
fatto che la contemplazione filosofica era gratis, mentre allo stadio si
doveva pagare. Nei cosiddetti presocratici, il “polemos”, la guerra, è
il padre di tutte le cose, segna l’inizio per eccellenza. E da questo
discendeva non solo una filosofia, ma un modo di vita per cui la
disciplina, l’entrare in conflitto con se stessi, il sottoporsi a
esercizi fisici e spirituali, rafforza l’individuo».