La Stampa 12.9.16
La festa della Catalogna si trasforma in spinta secessionista
Il presidente sfrutta l’assenza di governo a Madrid: ora il referendum
di Francesco Olivo
Ormai
è quasi un rito: ogni 11 settembre centinaia di migliaia di catalani
scendono in piazza per esibire la loro voglia di indipendenza dalla
Spagna. L’impatto visivo è stato importante in questi anni per aumentare
i consensi interni e per farsi notare all’estero, e anche ieri la scena
non lasciava indifferenti gli osservatori: bandiere con la stella
repubblicana, gran numero di famiglie e gente comune senza simboli di
partito, slogan separatisti e striscioni poliglotta («freedom»,
«Catalunya is not Spain»). I numeri sono discussi, ma importanti («un
milione» dicono gli organizzatori forse con manica larga). Ma rispetto
alle quattro edizioni precedenti, la Diada, la festa della regione che
vuole diventare nazione, quest’anno aveva un sapore diverso: da nove
mesi il Parlamento e il governo locale hanno messo in moto un processo
di indipendenza, che porterà presto uno scontro pesante e inevitabile
con lo Stato spagnolo. Così, l’atto rivendicativo ieri, sviluppato in
cinque diverse città (oltre a Barcellona, piazze piene a Tarragona,
Lleida, Salt e Berga) ha cambiato il tono: meno protesta e supporto al
percorso di un esecutivo che cammina pericolosamente sul ciglio della
legge. I catalani contrari alla secessione fanno notare: «Questa era la
festa di tutti e da qualche anno è diventato lo show di chi vuole
rompere la Spagna», ha detto Albert Rivera, barcellonese e leader dei
centristi di Ciudadanos.
Se il governo catalano porta avanti i
suoi disegni (pur con contraddizioni e dialettica interna a volte
esasperata), a Madrid un esecutivo non c’è proprio, se non quello
facente funzioni, quasi da un anno e nessuno vede come sbloccare la
situazione. Così, a parte il tribunale costituzionale, non c’è nessuno
che contrasti seriamente la sfida sempre più seria che arriva da
Barcellona. Il presidente della Catalogna, Carles Puigdemont (ieri
presente in piazza, rompendo con la neutralità formale scelta dal suo
predecessore Artur Mas) prima del bagno di folla poteva rilanciare
l’antica richiesta, mai raccolta dalla Spagna: «Nei prossimi giorni, in
occasione della mozione di fiducia nel Parlamento catalano, farò una
proposta di referendum». E se l’interlocutore prima non voleva mostrarsi
tale, con Rajoy il dialogo in questi anni non è mai esistito, ora
dall’altra parte non c’è nessuno che possa rispondere, se non con
polemiche nei comizi e nei talk show. Per gli indipendentisti è
un’occasione per rivendicare la road map che rompe con la legalità
spagnola, «se il blocco politico prosegue - spiega Puigdemont - e
nessuno ci parla di referendum, dal prossimo luglio (ma può esserci
qualche ritardo tecnico) entreranno in funzioni le leggi per la
struttura del nuovo Stato. È importante che non ci sia nemmeno un
secondo di vuoto legislativo nel passaggio tra una sovranità e l’altra.
Poi saranno indette elezioni costituenti». Per completare un quadro già
non semplice, gli alleati catalani di Podemos, tra i quali la sindaca di
Barcellona Ada Colau, erano in piazza con gli indipendentisti.
Che
i problemi tra le due realtà, Madrid e Barcellona, siano interconnessi,
lo dimostra anche il fatto che se non fosse per le questioni catalane
probabilmente un governo la Spagna lo avrebbe da tempo. La cosiddetta
«maggioranza del cambiamento» guidata da Pedro Sanchez, socialisti e
Podemos, non trova i numeri soltanto perché il comitato federale del
Psoe ha messo un paletto rigido: «Non si parla con i secessionisti», i
quali, peraltro, sembrano aver ammorbidito il prezzo di un appoggio.
Anche ieri Puigdemont lo ha ripetuto davanti alla stampa estera: «Un
governo Psoe-Podemos forse non risolverebbe i nostri problemi, ma certo
sarebbe un passo avanti».