La Stampa 11.9.16
Catena di montaggio, la religione che univa capitalisti e comunisti
Bruno Settis racconta la storia plurale del fordismo il cui declino coincise con la crisi dei sindacati e della sinistra
di Emanuele Felice
Marx
è Dio, Ford il suo profeta. Così recita il titolo di una conferenza
svolta negli Anni Cinquanta da Alexandre Kojève, filosofo francese di
origini russe, uno dei più importanti studiosi di Hegel. A prima vista
l’affermazione sembra provocatoria: Henry Ford (1863-1947),
l’imprenditore che con le sue Ford ha dato il via alla produzione di
massa, più di ogni altro rappresenta l’incarnazione del mito americano; e
fu liberista convinto, ostile ai sindacati contro i quali utilizzò
anche metodi polizieschi. Ma il sistema da lui fondato va ben oltre la
sua figura, o le vicende di una grande impresa. Nel corso del Novecento
il fordismo - quella catena di montaggio così ben satireggiata da
Chaplin in Tempi moderni - si è diffuso ovunque nel mondo, in Occidente
come nel blocco orientale, allargando la sua influenza fino a
trascendere in disegno istituzionale, un’idea di società, visione del
mondo persino. Noi lo conosciamo bene: ha segnato la storia economica,
sociale, politica anche dell’Italia, ha dato origine al miracolo
economico sulle ruote delle Seicento sfornate dallo stabilimento
Mirafiori, la prima fabbrica fordista nel nostro Paese.
Non era
facile scrivere una storia del fordismo. Occorreva ricostruire il filo
di una narrazione che sapesse tenere insieme questi diversi piani
analitici: il mondo dell’impresa e quello del lavoro e poi, ancora,
l’ambito istituzionale e la dimensione sociale e culturale. E ci voleva
il coraggio di intraprendere un viaggio comparativo che dal Nuovo Mondo
fa tappa in tutti i principali Paesi europei, tocca l’Unione Sovietica e
le economie pianificate, fino all’estremo Oriente. Nel farlo bisognava
rimettere in discussione sistemi tanto diversi come il nazismo e le
democrazie liberali, il fascismo e il comunismo sovietico, le
socialdemocrazie: sezionando uno dei loro gangli più cruciali e
delicati, il nesso fra tecnologia, consumi e società.
Una tale
impresa, di grande storia comparativa e multidisciplinare, è riuscita a
un giovane studioso italiano, Bruno Settis. Il suo Fordismi. Storia
politica della produzione di massa (Il Mulino, pp. 317, € 29)
restituisce il piacere di una scrittura precisa e colta, ma soprattutto è
ricco di spunti per rileggere il dibattito politico e culturale del
Novecento - da Wilson a Lenin, da Gobetti a Gramsci fino ai
post-operaisti - e forse anche i problemi del presente.
Prendiamo
il nostro Paese. Mano a mano che, con il miracolo economico, si
espandeva e ramificava il fordismo, così crescevano le forze della
sinistra tradizionale, i sindacati e il Partito comunista italiano. Fino
agli Anni Settanta, allorquando, con la fine di Bretton Woods e la
crisi petrolifera, l’economia italiana assieme alle altre è entrata
nell’epoca chiamata post-fordismo - ma la definizione in negativo
suggerisce la perdurante pregnanza del concetto che si vorrebbe
superato. Ed è proprio nel post-fordismo che l’ascesa si trasforma in
declino, che la sinistra perde progressivamente la sua forza politica,
sociale e culturale (perde persino l’identità) e si dissolve
l’alternativa socialista. Messa così, la provocazione di Kojève parrebbe
addirittura una profezia: liquidato Ford, non ci sarebbe stato più
neanche Marx.
Attenti però alle conclusioni semplici, univoche.
Settis ha ben chiaro che il fenomeno è complesso, lo spiega. Non a caso
sin dal titolo parla di fordismi, al plurale. Il fordismo americano era
liberista, rifiutava tanto la regolazione dello Stato (non invece le
commesse pubbliche) quanto le ingerenze dei sindacati. Quello europeo -
in Francia, in Italia, in Germania - ricercò invece l’aiuto pubblico,
sin dagli Anni Venti e Trenta ad esempio in forma di protezione
tariffaria. Resta da aggiungere che proprio su tale relazione simbiotica
qui da noi avrebbero trovato migliore fondamento, nel secondo
dopoguerra, le politiche keynesiane e i moderni stati sociali; ma questo
assetto istituzionale e questa visione sarebbero poi stati messi in
crisi dalla globalizzazione, partita non a caso dalla sponda americana.
E
il modello sovietico? Furono in realtà i dirigenti bolscevichi tra i
più ferventi discepoli tanto del taylorismo (l’organizzazione
«scientifica» del lavoro) quanto soprattutto del fordismo (che incardina
tale concezione nel capitale fisico, ovvero nella catena di montaggio),
anche al costo di ingaggiare un’aspra battaglia contro i sindacati. E
anche al costo di trascurare la sfera dei consumi, ovvero
paradossalmente (proprio loro!) gli aspetti distributivi. Di questo
schema - che inevitabilmente privilegia la quantità, più facilmente
misurabile, sulla qualità e l’industria pesante su quella leggera - le
economie pianificate non riusciranno mai a liberarsi. Morirà l’Unione
Sovietica di fordismo, proprio mentre l’Occidente se lo lasciava alle
spalle.