Corriere 11.9.16
Stalin
La svolta religiosa di un leader comunista
risponde Sergio Romano
Mio
padre Aurelio, nella vita civile dirigente bancario, allo scoppio della
Seconda guerra mondiale fu richiamato come ufficiale di complemento e
comandò la III compagnia del VI RGT bersaglieri di Bologna. Convinti di
entrare in Russia nella terra dell’ateismo, fu grande lo stupore (quando
arrivavano via via nelle varie località) alla richiesta della
popolazione che chiedeva di conoscere i cappellani militari. Questi,
infatti, avevano la stessa divisa degli altri ufficiali con solo una
piccola croce nell’asola della giacca.
Una volta ottenuta
l’informazione si assisteva alle file di persone che chiedevano tutti i
sacramenti, dal battesimo alla estrema unzione. Nei giorni festivi,
infine, la popolazione locale si presentava per assistere alle «messe al
campo» officiate dai cappellani militari e teneva sollevate sopra la
testa le icone di famiglia, nascoste per anni all’interno delle
abitazioni. Delle vicende belliche di mio padre è stato scritto in varie
pubblicazioni e siti Internet.
Mario Barnabè
Caro Barnabè,
I ricordi di suo padre confermano quelli di altri
militari italiani e tedeschi. Dalle popolazioni rurali dei territori
occidentali dell’Unione Sovietica, soprattutto in Ucraina e Bielorussia,
gli eserciti di due Paesi cristiani (anche se il nazional-socialismo fu
un movimento pagano) vennero accolti come liberatori. Nel 1941, quando
cominciò l’invasione, i russi trentenni e i quarantenni ricordavano
ancora la collettivizzazione di massa annunciata da Stalin al plenum del
Comitato centrale dell’aprile 1929. Il leader sovietico era convinto
che i modesti risultati dell’ultimo raccolto fossero dovuti ai
boicottaggio dei piccoli proprietari (i kulaki). Per sopprimerli e
confiscare tutto ciò che ancora restava nei loro granai, furono inviate
nelle campagne parecchie migliaia di militanti. Il risultato di questa
occupazione manu militari e della resistenza passiva dei contadini fu
una micidiale carestia. Si calcola che alla fine della operazione cinque
milioni di persone (i kulaki e i loro gruppi familiari) siano morti di
fame o uccisi o trasportati nei campi di concentramento al di là degli
Urali.
Quelli che rimasero nelle loro terre, ormai sovietizzate,
crebbero in un Paese ateo dove il conforto della fede era considerato
una pericolosa deviazione dalla ideologia comunista. In una terra in cui
al clero ortodosso era proibito esercitare il sacerdozio, la croce
sulla uniforme di un cappellano militare straniero dovette sembrare una
sorta di rifugio spirituale.
Questa storia non sarebbe completa
tuttavia, caro Barnabè, se non ricordassimo che anche Stalin sapeva
quale accoglienza i contadini ucraini e bielorussi avessero riservato
agli invasori stranieri. In un libro di cui ho parlato sul Corriere del
13 agosto ( L’Impero sovietico 1917-1990 , pubblicato da Yaca Book),
l’autore, Giovanni Codevilla, cita un discorso che il leader sovietico
pronunciò il 3 luglio 1941, undici giorni dopo l’inizio della Operazione
Barbarossa. Parlò per annunciare un incontro che aveva avuto luogo fra
il presidente del Consiglio dei commissari del popolo e una sorta di
«luogotenente» patriarcale (un evento di per sé straordinario).
Ma
la novità più sorprendente di quel discorso fu l’appellativo con cui si
rivolse ai suoi ascoltatori. Anziché dire «compagni e compagne», disse
«fratelli e sorelle». E aggiunse: «Queste parole non ci sono state
suggerite dalla ideologia marxista-leninista, ma piuttosto dalla
predicazione della Chiesa». Stalin aveva capito che lo Stato sovietico,
per vincere la guerra, doveva avere la Chiesa al suo fianco.