Il Sole Domenica 18.9.16
Ermanno Rea (Napoli, 28 luglio 1927 – Roma, 13 settembre 2016)
Scrittore d’altri tempi ma gravido di futuro
di Gianluigi Simonetti
«Un
grande scrittore una volta disse di amare soltanto le storie
“dettagliate ed esatte”. Io la penso come lui». Lo scrittore in
questione è Thomas Mann; a evocarlo, identificando il proprio sguardo in
quella coppia di aggettivi, è Ermanno Rea, in un suo romanzo del 2007,
Napoli Ferrovia.
Scomparso il 13 settembre, Rea aveva ottantanove
anni; per la maggior parte della vita ha fatto il giornalista e il
fotografo, tenendo a bada la vocazione al romanzo. Apparteneva a una
generazione che alla letteratura assegna ancora un significato speciale:
un valore non solo estetico, politico e civile, ma in un certo modo
anche sacro, religioso. Lui lo sapeva, che quando sono fatte per restare
le parole vanno usate con cautela; forse è per questo che alla
scrittura creativa è approdato tardi, nel ’90, con un libro scritto ’sul
campo’, risalendo il corso del Po per alcune centinaia di chilometri.
Un testo ibrido, diremmo oggi, che si muove alla frontiera tra racconto e
sopralluogo: scelta non dettata dalla moda della non fiction (che in
Italia sarebbe arrivata molto dopo), né soltanto dall’abitudine da
fotoreporter a pensare in azione, ma soprattutto dalla prudenza, dal
pudore di chi vuol scrivere sul serio, ma per non sbagliare comincia da
ciò che vede e conosce di persona. Fedele a questa consegna, da allora
in poi Rea ha scritto solo libri belli, e tra questi almeno un
capolavoro, Mistero napoletano (1994) oggi considerato tra i migliori
romanzi-non-romanzi degli ultimi decenni.
Di solito i protagonisti
dei libri di Rea sono uomini terribilmente soli: Francesca Spada,
Federico Caffè, Guido Piegari. Eppure il suo percorso di scrittore non è
isolato affatto: la carriera di Rea somiglia a quello di altri suoi
coetanei, intellettuali comunisti (sia pure irregolari e insofferenti
alle regole di partito) attratti inizialmente dalla politica e dal
giornalismo, e poi approdati alla letteratura, con risultati spesso
eccellenti. Penso ad esempio a Luigi Pintor, con Servabo (1991), o a
Enzo Striano, che di Rea fu amico di gioventù, con Il resto di niente
(1986). Si sente, leggendo questi libri, un’aria di famiglia, che
proviene non solo da un’idea comune, ormai quasi estinta, di letteratura
e di stile - l’adesione a una lingua precisa, misurata, piena di
decoro; un tono fermo, antiretorico ma a suo modo solenne, dal timbro
inconfondibilmente novecentesco - ma anche da comuni ossessioni, che
alimentano temi profondi. Tra questi il più evidente è lo scavo di un
passato oscuro e doloroso, da sottrarre alla pietrificazione
(«scrivere», affermava Rea, «è inventariare ciò che non c’è più»). Poi,
la ricerca dell’identità, in un’epoca in cui la storia schiaccia
l’individuo («Ma chi sono davvero»?). Infine, e soprattutto,
l’impossibilità della rivoluzione, la scoperta che il mondo non sa
cambiare in meglio. La morte di Rea, in questo quadro, appartiene a
pieno titolo a un processo in corso, la rottamazione di tutte le utopie
novecentesche, quelle artistiche come quelle politiche. La dismissione
del resto, è il titolo di un altro bel romanzo di Rea - dedicato alla
fine dell’acciaieria di Bagnoli, e più in generale al sogno fallito di
una Napoli democratica, moderna e industriale; mentre Nostalgia è il
titolo del suo ultimo libro, in uscita il prossimo ottobre, di cui già
circola la copertina.
Tutto per nulla, dunque? Quella lasciataci
da Ermanno Rea sarebbe ormai solo letteratura ’di una volta’, consegnata
ai rimpianti di lettori del secolo scorso? Al contrario: pochi libri,
tra quelli apparsi negli ultimi decenni, sono stati più gravidi di
futuro di Mistero napoletano. Apparso nel momento in cui la narrativa
italiana stava cambiando pelle, per diventare più informata e più veloce
- e quindi più vicina al giornalismo - Mistero napoletano si è imposto
subito come modello per molti scrittori del nuovo millennio. Modello di
mescolanza tra generi - in particolare l’inchiesta, il giallo, la
testimonianza e il diario - per Antonio Franchini (L’abusivo) e Roberto
Saviano (Gomorra); modello di rievocazione d’epoca e d’infanzia, per
Domenico Starnone (Via Gemito), Erri De Luca (Tu, mio), Elisabetta Rasy
(Posillipo); modello di metodo e di immaginario meridionale per
sceneggiatori come Massimo Braucci e Massimo Gaudioso.