Il Sole Domenica 11.9.16
Stati Uniti
L’eterna questione dei neri
Il
 tema dell’integrazione nella società americana attraversa la storia del
 Paese ed è tutt’oggi un nodo irrisolto, a tratti esplosivo
di Vittorio Emanuele Parsi
Non
 è facile scrivere una storia degli Stati Uniti d’America e riuscire ad 
essere originali. Con l’eccezione di quelle di cui si alimentano i 
cultori del gossip e della fantastoria, di cui la rete è bulimica, 
grandi novità sulla storia americana non se ne conoscono. In termini più
 complessivi, peraltro, l’oggetto è stato arato in lungo e in largo per 
decenni da migliaia di storici di tutte le nazionalità, per cui, anche 
procedere verso la produzione di interpretazioni particolarmente inedite
 appare alquanto complicato. Per uno storico “americanista”, quindi, la 
sfida consiste nella realizzazione di un volume che descriva, spieghi e 
interpreti il “grande Paese” senza costruire solo l’ennesimo manuale 
universitario. Ebbene, il volume di Stefano Luconi è senz’altro un 
eccellente manuale universitario, scritto molto bene, accuratamente 
documentato, con una bibliografia ricca e aggiornata, ma risulterà di 
sicuro interesse anche per chi voglia approfondire la conoscenza degli 
Stati Uniti nell’anno delle elezioni presidenziali.
Due sono le 
metafore che aprono e chiudono il libro. La prima, la “nazione 
indispensabile” cui fa riferimento il titolo, è espressione resa celebre
 dal segretario di Stato Madeleine Albright (prima donna a ricoprire il 
prestigioso incarico) ai tempi della guerra di Bosnia, coniata per 
sottolineare «i meriti acquisiti da Washington nella pacificazione della
 Bosnia a fronte dei precedenti fallimenti degli europei». In questo 
senso, tutto il libro ci fornisce una chiave di lettura quasi 
introspettiva sul formarsi del comune sentire statunitense rispetto alla
 specificità americana. È il “particolarismo” la cifra più autentica 
della lezione americana: un particolarismo che si traduce 
alternativamente – ma mai in maniera esclusiva o definitiva – ora in 
isolazionismo ora in interventismo nelle altrui vicende. L’autore ha ben
 presente questa caratteristica e ci fornisce i materiali originali con 
cui essa è stata forgiata fin dalle scaturigini del processo di 
insediamento europeo sulle coste del New England.
Questo dualismo è
 implicito e costitutivo della stessa costruzione degli Stati Uniti, che
 «rappresentano sia la nazione di immigrati per antonomasia, sia un 
modello di società che mira a diffondersi nel mondo, universalizzando il
 proprio sistema di valori. Entrambi questi elementi distintivi 
iniziarono a profilarsi fin dal periodo coloniale, cioè prima che una 
porzione dell’America Settentrionale proclamasse l’indipendenza 
dall’Impero britannico e si costituisse in nazione sovrana».
La 
seconda la ritroviamo a mo’ di epitaffio nelle conclusioni: 
«L’iperpotenza dai piedi d’argilla», dove sono accostate due immagini 
entrambe fortemente critiche rispetto agli Stati Uniti del nuovo 
millennio. Da un lato quella più evidente del “gigante dai piedi 
d’argilla” del famoso sogno attribuito a Nabucodonosor dalla Bibbia 
(Daniele, II, 31-35), allusivo delle contraddizioni strutturali che (non
 da oggi) minano la forza e la stabilità degli Stati Uniti. Dall’altro 
quella della “iperpotenza”, reso popolare dal ministro degli Esteri 
francese Hubert Védrine alla fine degli anni 90, e poi di fatto 
associata alla hybris con cui gli Stati Uniti esercitarono il proprio 
ruolo di superpotenza solitaria a cavallo degli anni Duemila.
La 
chiave di lettura a mio avviso principale del volume è quella delle 
contraddizioni irrisolte nella storia degli Stati Uniti che, ben più 
dell’azione minacciosa di altre nazioni rivali, ne hanno prodotto una 
crescita “peculiare”. Utilizzo non a caso tale espressione perché 
proprio «l’istituzione peculiare» era il nome con cui, nei documenti 
ufficiali della Federazione, si faceva ipocritamente riferimento 
all’istituzione della schiavitù. Ed è proprio su questa tragica e 
lampante contraddizione tra «impero della libertà» (per dirla con Thomas
 Jefferson) e schiavitù e poi segregazione della popolazione di colore 
che Luconi riflette lungo l’intero arco del volume. Non che questa sia 
la sola questione che attraversa la storia americana: ma di sicuro è 
quella più eclatante, a tutt’oggi irrisolta e ancora particolarmente 
esplosiva. Il tema dell’integrazione razziale negli Stati Uniti non 
venne certo risolto neppure dalla Guerra Civile. Negli anni successivi 
alla cosiddetta “Ricostruzione del Sud” (il suo sostanziale 
commissariamento da parte del Nord vincitore) esso verrà accantonato, al
 punto che dall’ultimo quarto del XIX secolo fino agli anni 60 del XX 
(grazie alle riforme fortemente volute dal presidente Lyndon B. Johnson)
 la condizione dei neri negli Stati del Sud peggiorò sostanzialmente. La
 popolazione di colore sarà tenuta in posizione periferica anche durante
 il grande sforzo del New Deal roosevoltiano. Se quest’ultimo ridarà 
fiato e speranza alla working class bianca modificherà solo 
marginalmente le condizioni di vita dei neri.
Il lettore meno 
avvezzo alla storia degli Stati Uniti incontrerà in questo volume più di
 uno spunto, uno stimolo, una spiegazione delle radici profonde delle 
ondate di tensione razziale che ciclicamente scuotono gli Stati Uniti, 
com’è accaduto in quest’anno di elezioni presidenziali. E riguardo a 
queste ultime, troverà più di un’illuminazione sul fatto di come sia 
potuto succedere che la lotta per la somma carica elettiva della più 
antica democrazia si sia ridotta a quella tra la moglie di un ex 
presidente e un miliardario a dir poco bizzarro.
Stefano Luconi, 
La «nazione indispensabile». Storia degli Stati Uniti dalle origini a 
oggi , Mondadori Education, Milano, pagg. 288, € 19