Corriere 12.9.16
Schmitt, contro la tecnica (e la globalizzazione)
Adelphi
ha raccolto gli scritti del pensatore controverso: giurista cattolico,
fu oppositore del progresso specialistico e sostenitore del nazismo
di Emanuele Severino
«Ma
oggi è nato un potente Reich tedesco. Un tempo debole e impotente, il
centro d’Europa è diventato oggi forte e inattaccabile (…). All’idea del
nostro “impero” l’azione del Führer ha dato realtà politica, verità
storica e un grande futuro nel diritto internazionale». Lo scriveva nel
1939 uno dei più grandi giuristi del Novecento, Carl Schmitt.
Lo
sfondo di questa e di altre sue simili affermazioni era però il problema
della relazione tra storia del mondo e carattere dominante della
tecnica moderna. Il problema decisivo del nostro tempo. Che questo sia
lo sfondo lo conferma l’imponente e chiarificante raccolta di scritti
schmittiani, dal 1916 al 1978, pubblicata da Adelphi col titolo Stato,
grande spazio, nomos (ottimamente a cura di Günter Maschke e, per
l’edizione italiana, di Giovanni Gurisatti), alla quale appartiene anche
il passo ora riportato.
La psicologia dell’uomo Schmitt resta
comunque anche oggi un notevole enigma. Perché egli era innanzitutto un
cattolico, e uno dei motivi principali della sua critica alla civiltà
della tecnica è l’avervi scorto la più profonda «frattura» e
«discrepanza fra progresso tecnico e progresso morale» (p. 283), senza
essersi mai reso conto, nemmeno dopo la fine del nazismo, della
terribile frattura e discrepanza tra il progresso morale e la forma di
«progresso» prodotta dal Terzo Reich — dove il nazionalsocialismo aveva
molti titoli, suo avviso, per essere l’autentica alternativa politica al
predominio della tecnica.
Nel 1939 il Reich tedesco forma, per
Schmitt, il primo «grande spazio» terraneo in grado di contrapporsi al
«grande spazio» marittimo dell’Inghilterra — del cui dominio, dopo la
Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti saranno gli eredi. Esiste una
fortissima connessione e implicazione, che a suo avviso non è casuale,
tra sradicamento dell’uomo dalla «terra» (pianure, monti, case, foreste,
innanzitutto), conquista degli oceani da parte dell’Inghilterra,
rivoluzione industriale (daccapo inglese) tra il XVIII e il XIX secolo,
sviluppo capitalistico, progresso tecnico e sua esaltazione da parte
della filosofia dell’illuminismo, controllo angloamericano del mondo,
ebraismo internazionale, ossia uno dei simboli più tipici dello
sradicamento dalla terra. Tratto unificante di tutti questi fattori,
l’«universalismo» (per Schmitt filosofia ufficiale delle Nazioni Unite),
la pianificazione e globalizzazione che mira all’unità
tecno-capitalistica del pianeta, lasciandosi alle spalle non solo lo
«Stato», ogni nazionalismo, ogni politica, ma anche ogni aspirazione ai
«grandi spazi». Dal che discende la sostanziale omogeneità tra Occidente
capitalistico e Oriente comunista che a sua volta si propone la
liquidazione dello «Stato» e la rivoluzione mondiale a sua volta
«universalistica», pianificante in senso globale. Il presupposto di
Schmitt è che l’uomo sia legato essenzialmente alla terra (suolo, si
diceva prima, ma anche storia, cultura) e che questo legame sia il nomos
supremo, cioè la suprema «legge» che viene distrutta
dall’«universalismo» tecnico.
Molto simili a questa prospettiva,
ma su un piano più profondo (filosofico), le annotazioni di Heidegger
sullo sradicamento dall’«Essere» in favore degli «enti» da parte degli
ebrei e degli altri fattori sradicanti indicati da Schmitt. Si tratta
anche delle annotazioni presenti negli heideggeriani Quaderni neri , dei
quali si è parlato e si continua a parlare abbondantemente. (Né d’altra
parte c’è mai stata simpatia tra questi due singolari sostenitori del
nazismo).
L’«universalismo» del progresso tecnico-industriale —
che è, insieme, di ispirazione anglo-americana, ebraica e bolscevica —
tende per Schmitt a livellare le differenze storiche e culturali dei
popoli. Si può dire che già questo livellamento sia annientamento
dell’uomo, «nichilismo». Schmitt parla infatti di «diritto delle
minoranze e dei gruppi etnici nel grande spazio dell’Europa Centrale e
Orientale» (p. 139) — il diritto a cui, si è visto, «l’azione del Führer
ha dato realtà politica, verità storica e un grande futuro nel diritto
internazionale». (Nel discorso tenuto al Reichstag il 20 febbraio 1938
Hitler aveva detto appunto che «non diversamente da come l’Inghilterra
difende i suoi interessi ovunque nel pianeta, anche la Germania d’oggi
saprà affermare e difendere i propri»).
Ma l’annientamento
dell’uomo, il «nichilismo», viene in piena luce, per Schmitt, proprio
quando l’«universalismo» si fa difensore dell’«umanità» e parla in nome
di essa e combatte coloro che la minacciano. In questo caso, infatti,
l’umanità non combatte più un «nemico» umano (giacché essa comprende
tutto l’umano), ma qualcosa di non umano che va eliminato con operazioni
di polizia internazionale, con «guerre giuste»: «Allora — egli dice nel
1978, in quello che può essere considerato il suo ultimo scritto, La
rivoluzione legale mondiale — l’uomo che è stato così negativamente
valutato si trasforma in non-uomo ( Unmensch ) e in non-persona (
Unperson ), e la sua vita non è più il valore supremo (come invece per
Schmitt dovrebbe essere). Anzi la sua vita è un non-valore ( Unwert )
che va annientato» (p. 477).
È chiara, in queste parole, la
denuncia non solo del modo in cui le potenze alleate (espressione
dell’«universalismo» tecno-capitalistico e comunista) considerarono e
trattarono la Germania nazionalsocialista, ma anche dell’interventismo
americano ormai dimentico del senso autentico della dottrina
isolazionista e quindi non interventista di Monroe. Ma è anche
stupefacente l’incapacità di Schmitt di vedere che la riduzione
dell’uomo a non-uomo, della persona a non-persona e il non considerare
più come valore supremo la vita dei nemici interni (ebrei e persone non
funzionali al sistema) sono stati una trista caratteristica del Terzo
Reich. Dove però è anche chiaro che la difesa schmittiana del
nazionalsocialismo era dovuta alla convinzione che in esso fosse
custodita l’autentica difesa dell’uomo e della sua concretezza
storico-culturale contro l’«universalismo» livellante e annientante.
Schmitt
difende, contro la tecnica, la politica che tende alla formazione di
«grandi spazi» rispettosi di quella concretezza. E anche oggi viene
praticata tale difesa (sebbene le forze che mirano all’unità politica
dell’Europa, e che peraltro dichiarano di rifiutare ogni totalitarismo,
siano molto più deboli di quelle che spingono verso la globalizzazione
universalistica e depoliticizzante di carattere tecnico). Ma è così
fuori discussione che in tal modo si sia giunti alla suprema
contrapposizione o «dualità» planetaria, come anche Schmitt ritiene,
cioè all’autentico problema decisivo del nostro tempo? «Ritengo
l’attuale dualità del mondo non un preludio alla sua unità, bensì un
passaggio in direzione di una nuova pluralità» (p. 285), scrive nel 1952
dopo aver constatato il fallimento del tentativo nazionalsocialista di
instaurare la prima forma di «pluralità» (ossia di «grande spazio»
terraneo) contro l’«unità» universalistica tecno-marittima dell’impero
britannico. Ma egli ritiene che l’attuale «dualità» del mondo non sia il
preludio alla sua «unità», perché concepisce in modo improprio
l’avvento della dominazione della tecnica.
Lo intende infatti come
un evento che dovrebbe essere analogo a quello in cui, all’inizio della
rivoluzione francese, la notte del 4 agosto 1789, «i privilegiati
rinunciarono solennemente ai loro privilegi feudali»; e ovviamente si
dichiara scettico sulla possibilità che in una ipotetica seduta plenaria
dell’Onu abbia ad accadere che le superpotenze rinuncino alla loro
superiorità e ai loro arsenali nucleari, svelino i segreti dei loro
archivi e della loro produzione industriale allo scopo di dar vita
all’unità tecno-universalistica del Pianeta (p. 476). Certo, se questo
dovesse essere il percorso per giungere a tale unità, ad essa non si
giungerà mai — sì che sulla base di tale premessa si deve concludere
come Schmitt conclude, ossia che l’attuale «dualità» del mondo non può
essere un preludio alla sua «unità».
Ma, appunto, non è questa la
premessa dell’avvento della dominazione della tecnica. E, innanzitutto,
la tecnica destinata al dominio non è né quella che Schmitt ha in mente,
né quella a cui i suoi avversari si rivolgono. (Lo vado indicando da
gran tempo anche su queste colonne. Ma qui lasceremo da parte l’aspetto
più complesso e decisivo del problema, ossia il rapporto tra tecnica e
filosofia, e per il resto ci limiteremo a un cenno).
Ancora oggi
le superpotenze — Stati Uniti e Russia — sono in grado di distruggersi a
vicenda e di annientare ogni loro nemico. È la tecnica moderna a
conferir loro questa capacità. Della tecnica si servono anche altre
forze, in vario modo intrecciate o contrapposte alle due superpotenze:
capitalismo, nazionalismo, democrazia, cristianesimo, islam, marxismo,
«universalismo» e spinte verso la costituzione di «grandi spazi» in
senso schmittiano. Ma sono soprattutto le due superpotenze a guidare e a
decidere da ultimo le sorti della «dualità» planetaria. Anche Schmitt
vede nell’«universalismo» il loro tratto comune; tuttavia la loro
opposizione si è ulteriormente ridotta con la fine dell’Unione
Sovietica. Per mantenere il sostanziale equilibrio venuto a formarsi tra
loro e il loro distacco rispetto a tutti gli altri gruppi sociali più o
meno organizzati, le due superpotenze devono potenziare sempre di più
il loro apparato tecnico. Cioè devono operare nella stessa direzione: la
direzione, appunto, del potenziamento della tecnica, percorrendo la
quale è inevitabile che esse lascino sempre più da parte la tutela e la
promozione dei motivi per i quali esse si oppongono. Avranno dunque lo
stesso scopo. Che non è la rinuncia, bensì il potenziamento dei loro
privilegi. E si renderanno conto che per perpetuare il distacco rispetto
ai gruppi sociali che le rincorrono, mantenendo quindi il dominio del
mondo, dovranno lasciarsi alle spalle la loro opposizione-«dualità»,
ossia il loro essere Stati Uniti e Russia. Sì che, proprio per
potenziare i propri privilegi, a dominare non saranno loro, ma la
tecnica. E questo sarà appunto il senso autentico di quell’«unità»
tecnica del mondo, attorno al quale si continua a girare a occhi
bendati.