Il Sole 9.9.16
Merkel dopo il voto in Meclemburgo
Le regionali tedesche e la leadership in Europa
di Franco Debenedetti
Su
scala planetaria, al G20, a prendere la scena sono stati l’intesa sul
clima con la Cina e la gelida stretta di mano tra Barack Obama e
Vladimir Putin; a livello locale, nel Meclemburgo, la sua politica per i
rifugiati le è costata l’umiliazione di venir scavalcata dall’AfD. Ma
se si ritorna al livello europeo, e ai problemi europei, è sempre Angela
Merkel il punto di riferimento. Dopo l’incontro di Ventotene con
Hollande e Renzi, in una settimana aveva incontrato, nell’ordine, i
leader dei Paesi baltici, del gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca,
Slovacchia, Polonia, Ungheria), dell’Europa settentrionale e dell’Europa
centrale; se si considera che Hollande e Renzi rappresentino gli altri
Paesi dell’Europa meridionale, il giro è completo. Tanto attivismo
esautora o surroga Bruxelles? Nasconde un disegno egemonico, o cerca di
ricomporre le divisioni che attraversano l’Europa? E si erano sentite le
solite voci: ci vorrebbero gli Stati Uniti d’Europa, il presidente del
Parlamento europeo eletto con voto diretto, il metodo comunitario in
luogo di quello intergovernativo previsto da Maastricht.
Ma
esiste, più radicato di ogni comune sentire, più fondamentale di ogni
trattato, più solido di ogni architettura istituzionale, il principio
democratico: sono i popoli a decidere da chi vogliono essere governati.
Quando lo si è voluto verificare – anni fa con i referendum sulla
costituzione europea, mesi fa con Brexit – si è visto che il rapporto
politico che vogliono i popoli europei è quello “corto”, con i
governanti della loro nazione. L’Europa mercato unico, la moneta unica
nell’eurozona, la protezione che un’istituzione più “lontana” a volte
assicura al cittadino e al consumatore contro le prepotenze dei gruppi
di pressione locali: formano un acquis européen ormai sedimentato nella
coscienza e nei comportamenti di tutti. Ma non esiste un discorso
politico “forte” a livello europeo. Non è che a Maastricht i governanti
«siano stati tutt’altro che disposti a cedere questioni cruciali per il
loro destino elettorale» (Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore del 28
agosto): è che i governati non avrebbero accettato un’eccessiva distanza
istituzionale da chi decide su questioni cruciali per il loro destino,
come la politica fiscale (sempre) e quella sui migranti (oggi). E chi se
ne scorda, vede le urne riempirsi di voti per i movimenti populisti.
Certo
che la Germania ha fatto degli errori: la “passeggiata di Deauville”;
la politica di sanzioni verso la Russia; la pretesa di risolvere i
problemi del debito pubblico con la camicia di forza del fiscal compact;
l’eccessiva generosità verso i migranti (il «wir schaffen das»). Posta
al centro dell’Europa, d’Europa per popolazione e per economia la
maggiore, con un’invidiabile continuità politica, convintamente
europeista nei suoi leader e, per ora, nel suo popolo, la Germania ne è
un insostituibile elemento di stabilità. E Angela Merkel, nonostante
l’esito delle elezioni del Meclemburgo, è l’unico personaggio capace,
oggi, di contenere le crisi, il dopo Brexit, i migranti, il terrorismo,
le derive politiche nel Nord Est.
È quindi autolesionista voler
cogliere ogni occasione – anche la settimana di incontri della
Cancelliera – per snocciolare il rosario della germanofobia.
Autolesionismo gratuito, dato che il più delle volte si tratta di tesi
senza ragionevole fondamento. Lasciamo perdere lo stucchevole
riferimento alla polisemia della parola «Schuld» (debito e colpa, come
nel Pater noster). L’accusa di strangolare con teutonica austerità suona
strana se viene da un Paese come il nostro il cui debito continua ad
aumentare anno dopo anno. Si accusa la Germania di aver aiutato la
Grecia per salvare i crediti delle sue banche, quando è noto che per
evitare il precipitare di una crisi bisogna aiutare le banche a ridurre i
debiti, e quelli maggiori sono con chi aveva prestato di più. Si punta
il dito sul surplus commerciale, senza dire che quello, enorme, verso la
Cina ha effetti diversi da quello, modesto, verso i Paesi europei. Si
incolpa la Germania di stare nell’euro perché alle sue esportazioni
conviene un cambio tenuto basso dalla nostra inefficienza, senza
ricordare quanto costerebbe a noi il nostro debito se non ci fosse il
«whatever it takes». Si rimprovera alla Germania di non promuovere un
grande piano di infrastrutture europee, quando quello lanciato da
Jean-Claude Juncker, e che era servito a farlo eleggere alla presidenza
della commissione, ha per ora risultati che è eufemistico chiamare
modesti. E così andando.
L’Europa è attraversata da tensioni,
politiche ed economiche, quali mai conosciute negli ultimi decenni. Nel
mondo, dagli Usa alla Cina, dal Medio Oriente all’Africa, si addensano
nubi che potrebbero invertire processi che credevamo acquisiti. Gli
stati uniti d’Europa non ci sono perché lo escludono i trattati. Pensare
di rimetterci le mani oggi sembra poco realistico. Meglio attendere con
buona volontà a mantenere quello che c’è, uno spazio di civiltà, di
libertà, di concorrenza.