domenica 25 settembre 2016

Il Sole 25.9.16
Il cigno nero Trump e l’America smarrita
di Carlo Bastasin

Mancano poche ore al dibattito tra Trump e Clinton e gli oracoli sono ammutoliti. Mi trovo a porte chiuse a discutere con i migliori analisti politici e sondaggisti di Washington. Sono superstar del teatro politico della capitale, eppure in queste ore sembrano essersi smarriti in un labirinto ermetico. A bassa voce dicono che Hillary dovrebbe vincere, i loro sondaggi danno all’ex segretario di Stato dal 48 al 55% dei voti e un margine molto confortevole sui collegi. Ma il dibattito di domani può trasformarsi in un ring a luci spente dove i due contendenti potrebbero picchiarsi alla cieca. O al contrario, basterebbe che Trump si dimostrasse per due ore meno inidoneo di quanto non sia sembrato finora, per convincere il 3-5% di elettori arrabbiati e sprezzanti a votare quello che definiscono l’ABC della politica, (Anything But Clinton): tutto tranne Clinton.
Gli oracoli sembrano umiliati per essere stati colti di sorpresa da quelli che definiscono «cambiamenti rivoluzionari» nella società americana. Donald Trump è in gergo un “cigno nero”, un accidente imprevedibile. Ma i sentimenti a cui la sua personalità incontrollabile sta dando voce ribollono da anni e rivelano un Paese diverso da quello che tutti conoscevano. In tanto disorientamento, la scelta del leader e il ruolo dei poteri pubblici che ad esso corrisponderanno non è mai stata tanto importante per il futuro dell’Occidente.
L’America che era rimasta senza voce è nel distretto del tabacco che sta scomparendo in Kentucky, o tra le montagne carbonifere del West Virginia e dei monti Appalachi, o nei distretti dell’Ohio dove solo un lavoratore su quattro si sente al riparo dall’automazione. Lì si avverte l’impatto sull’elettorato bianco della rivoluzione in corso. Tecnologia, nuove energie e globalizzazione hanno lo stesso effetto sulla produttività della rivoluzione industriale di cento anni fa, ma anche lo stesso impatto sulla disuguaglianza. Con una sostanziale differenza: nel passaggio dall’agricoltura all’industria, Roosevelt e Wilson inventarono il sistema scolastico superiore, l’antitrust e le tutele sociali. Poi venne il New Deal. Oggi, al tempo dell’era digitale, lo Stato non sa quale risposta dare.
Un campione di cittadini interpellati restituisce l’immagine di un Paese spaccato, tranne in una cosa. Una metà è rassegnata a essere perdente nella trasformazione in corso; l’altra metà invece, pur avendo un lavoro, trascorre ogni sera alcune ore su internet alla ricerca di un posto migliore o di un corso di formazione. Rassegnati e propositivi hanno però una cosa in comune: si chiedono, dov’è lo Stato, perché sono solo nel mezzo di questa rivoluzione? Così, la fiducia nel governo e nelle istituzioni pubbliche è calata in pochi anni al 20%. È il tempo dell’isolamento. E quindi dell’anti-politica.
Ma sottostanti all’economia, muovono fenomeni ancora più profondi, che il termine “demografici” addolcisce rispetto alla realtà di profonde divisioni etniche e di classe che un sociologo conservatore, del tutto isolato, quattro anni fa aveva già preconizzato come laceranti. Ora ci siamo: non sono diversi solo i redditi e le aree di residenza, ma il grado di scolarità e la selezione del partner per qualità o merito che poi influenza la progenie, con i destini dei figli di madri sole e povere segnati dall’inizio. Cambiano due pilastri della società americana: l’attitudine verso la famiglia e verso la religione. Il 40% degli americani ancora frequenta una chiesa regolarmente, ma il grado di secolarizzazione è in così forte aumento che il tradizionale consenso delle buone intenzioni, che le comunità americane coltivavano ritrovandosi insieme ogni domenica attorno alle scritture, sta rapidamente lasciando il posto al consenso delle cattive intenzioni, su cui prosperano l’informazione televisiva e quella informatica: senso di perdita, tradimento, vittimismo. Una specie di religione negativa che non promette salvazione ma dannazione, con un proprio linguaggio irrazionale e divisivo che mette in questione l’identità multiculturale sulla cui base l’idea americana narrava
se stessa.
Due terzi degli americani - una larga maggioranza anche nella base degli elettori democratici - sono convinti che il Paese stia andando nella direzione sbagliata. Al presidente Obama riconoscono di aver fatto miracoli per uscire dalla crisi del 2008, ma gli imputano di non affrontare la stagnazione di lungo termine che sta colpendo la classe media. L’amministrazione sostiene che ci voglia tempo, come era successo negli anni Novanta a Clinton prima di veder riconosciuti gli effetti delle riforme. Ma i focus group sono molto chiari: ogni volta che viene chiesto di commentare l’evidenza di otto milioni di posti di lavoro creati in questi anni, gli interpellati diventano seriamente aggressivi. Rispondono che sono posti malpagati e precari che sostituiscono quelli vecchi ma con minori garanzie; o che sono più posti a tempo parziale che un singolo lavoratore è costretto a mettere insieme per avere lo stesso stipendio di prima. Scompare uno strumento fondamentale nella politica economica tradizionale, la curva di Phillips che descriveva l’aumento dei salari all’avvicinarsi della piena occupazione. Privata delle difese della politica economica tradizionale, la classe lavoratrice sente la mancanza anche di una società civile che compensi il vuoto lasciato dalla promessa di crescente benessere individuale. La fiducia nel sistema capitalistico non può resistere a lungo in queste condizioni. Non a caso entrambi i candidati, pur con accenti diversi, hanno già abbandonato l’agenda degli accordi transoceanici sul libero commercio.
La necessità del cambiamento non gioca a favore di Hillary, che può incarnare tutto tranne la catarsi. Così Trump alza i toni, vuole tasse del 45% sull’import cinese e del 35% su quello messicano. Fa leva su nostalgia e frustrazione con uno slogan in cui invita a restituire forza all’America, non come faro della società aperta, ma con una visione del mondo per fortezze contrapposte, realistica cento anni fa. D’altronde il numero dei repubblicani che si definisce conservatore o moderato è in calo drastico. Quasi tutti si riconoscono furiosi e indignati. Trump ne ha sfruttato la rabbia, a costo di inimicarsi le minoranze messicane e nere. Dal 1966 ogni votazione vede calare dell’1-2% la quota di elettori “bianchi” sul totale. Un candidato repubblicano può puntare al 15-20% dell’elettorato latino-americano o nero, ma per vincere dovrebbe assicurarsi addirittura il 70% dei bianchi. Per questo il partito repubblicano, dopo aver puntato su un candidato ispanico, si è rassegnato a seguire Trump, vendicatore delle prerogative dei bianchi. Un gioco che non ha un prezzo troppo alto: pensano che, se anche vincesse, Hillary potrebbe durare soltanto quattro anni, per ragioni di salute e di età.
Nel frattempo però il Paese sarà cambiato di nuovo. I giovani “millennials” si stanno muovendo verso le grandi città con i loro valori multiculturali; un matrimonio su sei è inter-etnico; le donne si adattano più degli uomini ai nuovi lavori. Tutto sembra giocare contro i repubblicani e a favore del nuovo modello democratico che sta prendendo forma in California: sviluppo tecnologico e contrasto delle disuguaglianze, immigrazione e forte aumento dei salari minimi. Prima o poi anche lo Stato dovrà imparare a reinventare il proprio ruolo, dalla società industriale a quella digitale, per ridare senso al comandamento tradito della società americana: «Tutti sono uguali e possono avere successo, se lavorano duro e rispettano le regole».
Siamo alla vigilia di un’inevitabile trasformazione nel capitalismo e nel ruolo dello Stato. Ma nello spartiacque di questo cambio d’epoca, il “cigno nero” può ancora deragliare il voto di novembre. Uno dei più importanti nella storia del mondo occidentale.