domenica 25 settembre 2016

Il Sole 25.9.16
Perché la crisi non è uguale per tutti
Quando a crescere è il lavoro degli immigrati
di Luca Ricolfi

Che negli anni della crisi l’industria abbia perso il 20-25% della sua capacità produttiva è noto. Che il Pil si sia contratto di circa il 10% è noto. Che gli occupati totali siano diminuiti di oltre 1 milione di unità è noto. Meno noto è il fatto che esista un segmento della società italiana che, negli anni della crisi, si è rafforzato sistematicamente, senza mai perdere un colpo. Anzi, per essere precisi, questo segmento della società italiana è in costante espansione dal momento in cui esistono statistiche che lo rilevano con precisione, ossia dal 2004.
Di chi si tratta? Si tratta degli occupati immigrati. Nel secondo semestre 2008, ossia esattamente 8 anni fa, gli stranieri occupati in Italia erano circa 1 milione e 600 mila.
A otto anni esatti di distanza, nel secondo semestre del 2016 (ultimo dato disponibile) sono diventati 2 milioni e 400 mila, ossia il 50% in più.
Mentre gli stranieri conquistavano inesorabilmente posti di lavoro, a un ritmo di 100 mila l’anno, gli italiani ne perdevano più di un milione. Nella fase acuta della crisi, ossia dal 2008 al 2013, i posti di lavoro occupati da italiani si sono ridotti di circa 1 milione e 800 mila unità, salvo risalire in parte la china nel corso degli ultimi due anni. A oggi il bilancio complessivo 2008-2016 si riassume in due cifre: stranieri, 800 mila posti in più; italiani 1 milione e 200 mila posti in meno.
Queste cifre spiegano molte cose, ad esempio, perché l’opinione pubblica sia così poco convinta dall’ottimismo ufficiale. La ragione è che l’opinione pubblica resta costituita soprattutto da italiani (gli stranieri sono meno del 10%), e gli italiani hanno subito una mazzata che le cifre dell’occupazione globale, inflazionate dall’avanzata degli immigrati, non sono in grado di rilevare: se guardiamo alle cifre totali, mancano “solo” 400 mila posti di lavoro per tornare al 2008, ma se guardiamo alle cifre dei soli italiani di posti di lavoro ne mancano più di 1 milione e 200 mila. Ecco perché il morale del paese è basso, e le consuete parole di conforto e incitamento sortiscono ben pochi effetti.
Ma se il crollo occupazionale degli italiani spiega alcune cose, non è così chiaro come mai gli stranieri abbiano addirittura rafforzato le loro posizioni sul mercato del lavoro. A parti invertite, ossia se gli italiani fossero andati avanti e gli stranieri indietro, i sociologi avrebbero gridato alla discriminazione. Ma le cose sono andate a rovescio, sicché risulta difficile invocare la discriminazione, a meno di pensare che i datori di lavoro siano diventati improvvisamente così progressisti, così inclusivi, così politicamente corretti da discriminare gli italiani pur di aiutare gli stranieri a trovare un lavoro.
Se pare alquanto insensato parlare di discriminazione, o meglio di “discriminazione alla rovescia”, dobbiamo cercare altre ragioni per il successo degli immigrati. A me pare che di tali ragioni ve ne siano almeno tre.
La prima è banale: negli ultimi anni il peso degli stranieri nella popolazione si è accresciuto notevolmente, e questo mero fatto non può che aumentare le probabilità che un posto vacante sia occupato da uno straniero piuttosto che da un italiano.
La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri).
La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molto si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.
Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero).
E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto – scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata.
Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto.