Il Sole 25.9.16
Quella governance che favorisce il populismo
di Sergio Fabbrini
Perché
i partiti anti-europeisti (cioè contrari all’integrazione politica del
continente) sono in crescita ovunque, persino in Germania? La mia
risposta è la seguente: ciò è dovuto non solamente alle politiche che
persegue l’Unione europea (Ue), ma anche al modello di governance che si
è istituzionalizzato in particolare nell’Eurozona. Cambiare l’indirizzo
di quelle politiche è necessario, ma non sarà sufficiente per togliere
l’acqua ai pesci anti-europeisti. Infatti, il modello di governance
dell’Eurozona ha finito per svuotare di significato la competizione
politica tra la destra e la sinistra a livello nazionale, indebolendo
così il principale meccanismo per neutralizzare gli anti-europeisti.
Vediamo perché.
In Europa, quasi ovunque i partiti storici sono in
difficoltà. Il declino di quei partiti (cristiano-democratici,
social-democratici, liberal-democratici) è però proceduto in
contemporanea con l’ascesa degli anti-partito, cioè di movimenti con una
forte carica anti-integrazionista. Ne è conseguito che la competizione
tra la destra e la sinistra si è dimostrata sempre meno in grado di
riassorbire al proprio interno le insoddisfazioni e i malesseri dell’uno
o dell’altro gruppo di elettori. Nel lungo secondo dopoguerra, quella
competizione aveva invece stabilizzato il cambiamento sociale che di
volta in volta erompeva nell’area elettorale, riconducendo sull’uno o
sull’altro partito di destra o di sinistra le nuove richieste o le nuove
aspirazioni da esso espresse. In quel lungo periodo, la competizione
tra la sinistra e la destra ha assolto una funzione per così dire
costituzionale, riconducendo all’interno della politica democratica la
risposta alle domande, anche le più radicali, che emergevano dalla
società. La competizione tra la destra e la sinistra aveva così
contribuito a creare le infrastrutture politiche dello sviluppo
economico post-bellico dei paesi europei. Infrastrutture su cui si è
quindi basato il processo di integrazione.Negli ultimi quindici anni,
quella competizione politica ha funzionato sempre di meno. In
particolare a partire dalla crisi finanziaria del 2008, una convergenza
programmatica si è verificata tra la destra e la sinistra .
Tale
convergenza ha talora dato vita a governi di grande coalizione, là dove
il sistema elettorale proporzionale e la forma di governo parlamentare
hanno reso possibile questo esito (come in Germania). Nei governi
tedeschi del 2005-2009 e del 2013-2017, tutti presieduti da Angela
Merkel, la distinzione tra le posizioni cristiano-democratiche della
Cdu/Csu e quelle socialdemocratiche della Spd è di fatto sparita. Sulle
cruciali questioni della politica economica, e della risposta da dare
alla crisi dell’euro, quei partiti hanno condiviso lo stesso approccio.
Ma anche in paesi come la Francia, che hanno un sistema elettorale
maggioritario e una forma di governo semipresidenziale che precludono la
formazione di governi di coalizione, é difficile individuare una
discontinuità programmatica, ad esempio, tra l’attuale presidenza del
socialista Hollande e la precedente presidenza del gaullista Sarkozy.
Tant’è che, in entrambi i paesi, l’unica distinzione che emerge tra la
destra e la sinistra concerne la reputazione personale dei rispettivi
leader (non già la qualità dei rispettivi programmi).
Se la
competizione tra sinistra e destra ha perso sempre più di significato,
allora le nuove domande generate dal cambiamento sociale hanno finito
per trovare nuovi canali per trasmettersi alla politica. Sono stati i
movimenti populisti a rappresentare quelle domande, indirizzandole non
solo verso il rifiuto dei partiti tradizionali (di destra e di sinistra)
ma soprattutto verso il sistema euro-nazionale di cui quei partiti sono
stati l’infrastruttura. Si è così creata una nuova divisione la cui
posta in gioco è la permanenza o meno del sistema di integrazione.
L’integrazione monetaria, e le caratteristiche istituzionali che ha
assunto a partire dalla crisi finanziaria del 2008, ha modificato dunque
radicalmente la struttura della competizione politica all’interno dei
paesi dell’Eurozona. Tuttavia, contrariamente a ciò che sostengono i
leader populisti, la convergenza tra la destra e la sinistra non è il
risultato di élite politiche interessate a conservare le loro poltrone
di potere. Quella convergenza è piuttosto il risultato del modello di
governance economica che si è venuto istituzionalizzando nel corso della
crisi (e le cui premesse sono nel Trattato di Maastricht del 1992). In
particolare, è il risultato dei vincoli regolamentari che si sono
imposti sulle scelte nazionali, sull’onda della necessità di rispondere
alla minaccia esistenziale del fallimento dell’euro.
Ed è questo
il punto. Quei vincoli, legittimi e necessari sul piano economico, hanno
prodotto però effetti tutt’altro che neutrali sul piano politico. Cioè
hanno svuotato di significato la tradizionale competizione tra la destra
e la sinistra a livello nazionale, senza promuovere contemporaneamente
una altrettanto efficace competizione tra l’una e l’altra a livello
sovranazionale. Sulla spinta delle urgenze economiche, si è creato un
sistema di gestione dell’Eurozona in cui le decisioni sulle più
importanti politiche economiche sono state trasferite a Bruxelles, senza
rendersi conto che ciò avrebbe svuotato di significato la competizione
politica nazionale. A Bruxelles, per di più, quelle decisioni vengono
prese in consigli intergovernativi costituiti di leader nazionali che
possono trovare un accordo solamente facendo convergere le loro
rispettive posizioni politiche. Se si esce da quegli accordi, si espone
il proprio paese alla reazione dei mercati e all’isolamento rispetto
agli altri partner europei. Se si rimane nel perimetro di quegli
accordi, si alimenta la reazione anti-europeista dei partiti populisti
all’interno del proprio paese. Il malessere del premier italiano Renzi
verso le (non) decisioni prese al recente e informale Consiglio europeo
di Bratislava è comprensibile, ma non è risolvibile alzando
semplicemente la voce.
Come uscirne? Sicuramente è necessario
cambiare l’indirizzo della politica economica (portandola dall’austerità
alla crescita), ovvero promuovere una politica di accoglienza dei
rifugiati solidale e non nazionalistica, ovvero implementare una
politica comune della sicurezza. Tuttavia, tutto ciò non sarà
sufficiente per ridimensionare la mobilitazione anti-europeista dei
populisti nazionali. Per fare questo occorre ripensare il modello di
integrazione, separando chiaramente le politiche che vanno gestite
insieme a Bruxelles e le politiche che debbono essere gestite
individualmente dai singoli paesi. Se non si va in questa direzione,
allora si continuerà ad alimentare l’anti-europeismo sul piano
nazionale, con il risultato che prima o poi crolleranno le
infrastrutture politiche (di destra e di sinistra) che hanno finora reso
possibile l’integrazione europea.